La lince rossa, Rebecca Lee

Edizioni Clichy. Traduzione di Sara Reggiani. pp. 240 Euro 15

Edizioni Clichy. Traduzione di Sara Reggiani. pp. 240 Euro 15

di Gianluca Nativo

Lince Rossa e altre storie è una raccolta di racconti della scrittrice americana Rebecca Lee, portati in Italia dall’editore Clichy, con la bella traduzione di Sara Reggiani, nella collana Black Coffe.

Il primo racconto, Lince Rossa, ha un incipit all’apparenza innocuo:

“È la terrina a farmi paura”

La storia -  che si svolge durante una cena in cui la protagonista, moglie di uno scrittore, nella vita avvocato, ha invitato un po’ tutti, amici, nemici, alleati – è alimentata da un terrore più simile a un presentimento, la paura che qualcosa debba avvenire – e forse sta già avvenendo – ma nessuno sa bene quando e come.
Certo, noi lo possiamo capire già da quando, nelle prime pagine, lei accusa il marito di tradirla con la sua editor, ma è un’accusa vana, una supposizione. E in questa vaghezza, dietro continue distrazioni e a false piste – tra cui il tradimento, vero questo, che demonizza i Donner-Nilson, una coppia di amici del marito – che il racconto e la voce della protagonista ritardano colpevolmente la verità. Chi invece sembra riportare tutti in riga è Susan, anche lei scrittrice, che sui monti del Nepal ha incontrato una lince che le ha sbranato il braccio. La lotta con l’animale, raccontata durante la cena, lancia un allarme a tutti i presenti: forse la vita è altrove. Il moncone che ha al posto del braccio, sbranato via dal felino, è la conferma di quanto tremenda sia la quantità di cose che possono succedere fuori dalle nostre vite:

“Non volevo un addio al nubilato, non volevo una casa con lui, non volevo un conto corrente in comune. Dove sono l’estasi, la gioia, o anche solo la realizzazione?
Dove sono?”.

È una situazione da elephant in the room: si continua a spettegolare sui Donner-Nilson, c’è chi mette addirittura in dubbio la storia della lince, anzi vorrebbe quasi che Susan mostrasse a tutti il moncherino.
Quando la serata sta per finire, la verità si presenterà come un’ospite inatteso della cui venuta però eravamo in qualche strano modo ben consapevoli.

“Ogni cena verso la fine è un po’ come una sconfitta. Superata la metà della serata, quando eravamo ancora tutti su di giri, alcuni perfino brilli, e il dessert doveva ancora arrivare, c’è stato un momento in cui sembrava che quello fosse il ritrovo più interessante di tutta Manhattan, che ci volessimo tutti bene e che avremmo dovuto rifarlo più spesso, perché non lo facevamo più spesso? Tutti che calcolavano quando poter ospitare a casa la propria cena successiva. Ma poi è iniziata la discesa. Qualcuno ha alzato un po’ troppo il gomito. [...]


Una frase dell’archeologo Ernest Beker spesso mi attraversa la mente al termine di lunghi pasti, che cioè l’uomo se ne sta in piedi sopra un mucchio di ossa e proclama che la vita è bella.
Io ho imparato da mia madre, ospite impeccabile, che è importante presentare agli invitati piccoli doni – cioccolatini, liquori – dopo il pasto, in modo tale che, mentre la serata rallenta,
non subentri la disperazione”.

I racconti di Rebecca Lee derivano tutti da voci confuse, prese da una gioia disperata (Fialta), da una depressione infantile (Da qui al sole), finanche dalla confusione interculturale (Min), e ogni volta la verità viene sempre fuori in modo semplice ma tremendo, grazie anche a una scrittura sostenuta, il cui tonoipnotizza il lettore fino alla fine. C’è molta letteratura americana in questi racconti scritti dagli anni settanta fino a oggi (Raymond Carver, Flannery O’ Connor, Alice Munro), narrazioni minime capaci di spezzare la catena di senso dell’esistenza. 

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In un palmo d'acqua, Percival Everett

Nutrimenti editore. Traduzione: Letizia Sacchini. pp. 192. Euro 17

Nutrimenti editore. Traduzione: Letizia Sacchini. pp. 192. Euro 17

di Giuliana Riccio

Nove racconti per dipingere il romanzo di un luogo al di là dei luoghi, il fascino del West dove il deserto si accumula a ridosso dei giorni e tratteggia uno scenario tutto pieno nonostante lo spazio, l’interminabile spazio, che sembra suggerire. Nove storie per familiarizzare con la vita dei ranch, di quel mondo noto più per i suoi luoghi comuni che per i suoi reali connotati, che qui, invece, in In un palmo d’acqua, ultimo libro di Percival Everett edito da Nutrimenti, si dispiegano in tutta la loro schiettezza. Le riserve indiane appaiono non per evocare scenari nostalgici ma semplicemente come dati di fatto, esistenze presenti nel reale, prive di quell’eccezionalità che l’etnocentrismo letterario è portato ad evidenziare. Niente di speciale sembra nascondersi negli squarci di vita altrui che Everett ci regala o, almeno, niente di apparentemente speciale, perché tutto si presenta immerso nella minuzia del quotidiano, in una realtà che si fa forte proprio  nell’esplicitare la serialità dei giorni che la caratterizzano. In questo mondo immoto compaiono figure silenti, dai confini noti ma dalle problematicità in divenire, proprio come i luoghi di frontiera in cui si rivelano le loro esistenze. Esistenze che si ritrovano ad inciampare, a un certo punto, in un fatto straordinario; un fatto, però, non da indagare, ma da registrare come uno dei tanti scenari del possibile.
Da questo punto di vista, Il primo di questi racconti, Un po’ di fede, sembra suggerirci quasi una modalità di lettura, un patto con il lettore il cui indispensabile occhio razionale non può e non deve chiudere le porte all’eventualità di un accadimento inconsueto a metà strada tra il miracolo ed il miraggio.  Protagonista di questo racconto è Sam Innis un veterinario che ritroveremo, nel ruolo di comparsa, anche in alcuni dei racconti successivi. Un uomo che non ha simpatia per le chiese, poco incline alla spiritualità, che si trova coinvolto nella ricerca di una bimba perduta, smarritasi lì, tra quelle Montagne rocciose che i vecchi indiani, nella loro saggezza, considerano maledette. Una bambina sorda, morsi di serpenti e apparizioni sciamaniche, ingredienti che necessitano di fede per tornare alla vita quotidiana e recuperare uno sguardo un po’ soul, indispensabile per cogliere l’interezza delle esperienze.

Nei racconti successivi ci si trova coinvolti in situazioni analoghe: in Un lago d’alta quota, è una donna solitaria e forte della sua solitudine a smarrirsi, durante la consueta cavalcata mattutina, in uno spazio altro, una dimensione parallela, forse il confine tra la vita e la morte o solo una proiezione dei suoi desideri, del suo dolore, di una vita connotata di perdite e fatta solo di attesa, attesa della fine del tempo.

Sua figlia e suo marito erano sepolti al ranch. Anche lei sarebbe finita lì,
ma non aveva idea di chi
sarebbe venuto a guardare le erbacce crescere sulle loro tombe.
Non le era rimasto un solo parente a cui lasciare la terra.

Anche quando non viene chiamata direttamente in causa l’ambiguità metafisica, la realtà suggerisce, attraverso gli elementi naturali, un’occasione per fare i conti con se stessi e ritornare, poi, a vivere secondo ritmi che non ci è dato sapere, perché i finali sempre aperti di questi racconti ci impediscono di trarre conclusioni. Così in Plecottero è una trota gigante, la pesca di una trota gigante, a spingere il quattordicenne Daniel a pacificarsi con il proprio passato, a sciogliere in neve quel dolore per la morte della sorella maggiore che da bambino aveva ghiacciato la sua vita imbalsamandola in un’apatia irrisolta.

Cavalcando verso casa gettò indietro la testa e guardò il cielo.
Per quanto ne sapeva i fiocchi di neve erano stelle, e lui sorrise.

In Congelamento, invece, un bosco e i suoi imprevisti, faranno da sfondo ad una rinnovata complicità tra un padre e una figlia adolescente e ribelle.

“Voglio che strilli a pieni polmoni mentre procediamo molto, molto piano. Strillerò anch’io, dunque cerca di non restare scioccata dal vocione del tuo vecchio.”
“Dici sul serio?”

“Comincia adesso”. Così strillarono entrambi.

 La figura di Everett viene spesso accostata a quella di Carver per l’indubbia propensione a disegnare personaggi poco fuori dal comune e per questo motivo straordinari nella loro umanità. Come Carver, Everett, ama catapultare il lettore in storie già avviate e condurlo in finali-non finali nel tentativo di sottolineare il viavai della vita e l’impossibilità di poter contenere il reale in una percorso lineare e pacificante.

Everett cerca di conciliare surrealismo e realismo attraverso una scrittura analogica ma non metaforizzante. I silenzi, le ambientazioni, gli animali, gli oggetti e gli accadimenti che ci offre sono esattamente ciò che sono, non vogliono sottintendere in modo esplicito ad altro ma non possono fare a meno di intrecciare relazioni con i soggetti coinvolti fuggendo da qualsiasi gabbia monosemica.

In Direzione sbagliata si ha quasi la sensazione di essere davanti ad una dichiarazione meta testuale, dichiarazione che, dati i precedenti narrativi di Everett non appare come una novità. Il discorso sulle possibilità retoriche della narrativa si manifesta nelle vicende che vedono l’allevatore Jake protagonista di una serie di equivoci a causa del suo parlar schietto e della tendenza del mondo a cercare significati nascosti dentro le cose.

“Non sto cercando di dire un bel niente.
Perché cazzo pensate tutti che stia cercando di dire più di quello che dico?”

Everett in In un palmo d’acqua non ha detto un bel niente. Perché cazzo pensiamo tutti che stia cercando di dire più di quello che dice?

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