I nostri estranei, di Lydia Davis

di Fabrizia Gagliardi


Cosa diventa la sperimentazione narrativa portata all’estremo? Quanta consapevolezza c’è nel seguire un sentiero già segnato e in cui si resta ingabbiati?
È il pensiero dietro le quinte nella lettura de I nostri estranei di Lydia Davis (traduzione di Gioia Guerzoni, Mondadori, 2025): nel celebrare eleganza e storia molto spesso si rischia di occultare le zone d’ombra. La raccolta prosegue il percorso che da quasi mezzo secolo colloca l’autrice come una delle voci più singolari della narrativa americana. Come in Osservazione sulle faccende domestiche, più di un centinaio di testi offre una costellazione di forme brevi: micro-storie di una o due pagine, elenchi, haiku narrativi, conversazioni origliate, diari e appunti.
Se nelle opere precedenti al centro c’erano spesso la vita domestica e le dinamiche familiari, qui l’attenzione si sposta verso un nuovo baricentro: l’invecchiamento, la percezione del tempo e la consapevolezza di un progressivo ritrarsi dal mondo.
Al tempo stesso, la Davis non abbandona mai il gioco, l’ironia e il gusto per il dettaglio apparentemente insignificante che si apre a un mondo intero. La vita è un continuo fraintendimento: e proprio nell’incapacità di comprendersi pienamente si rivela la condizione di estranei, non solo agli altri ma a volte anche a noi stessi.

Da dove si trova, in un’altra parte della casa, sente la voce di lui in lontananza, in camera da letto, che le parla con un tono gentile, intimo premuroso. Non si è reso conto che lei non è nella stanza.
E per un attimo lei ha la sensazione che ci sia un’altra lei con lui, forse persino una lei migliore, e che lei sia invece derisa, relegata in fondo al corridoio, lontana dalla stanza dove loro due si stanno divertendo.
(Da ‘L’altra lei’)

La scrittura è una lente che amplifica il minimo, un invito a osservare ciò che di solito sfugge come l’umorismo involontario di un dialogo origliato oppure la lista di commenti che potremmo trovare in un gruppo Facebook.
Nei racconti si rincorre la coerenza a un gesto letterario che ha fatto dello sperimentalismo la sua bandiera. Tuttavia, le caratteristiche distintive e affascinanti — come quella di asciugare all’osso la trama, il conflitto e la risoluzione — sono allo stesso tempo la sua debolezza. Alcuni frammenti risultano troppo evanescenti per reggersi da soli: l’assenza di progressione narrativa o di nodi drammatici può trasformarsi in un’assenza tout court, e non in una scelta significativa.
Quando Davis opera in quell’area estrema — poche righe, scarti formali minimi — rischia che il lettore non trovi alcun appiglio affettivo o cognitivo: non c’è un “fondo” su cui riflettere, non c’è tensione. In molti racconti, il senso di alienazione evocato non riesce a dare una vera coesione alla raccolta: talvolta si avverte un’eco più che un’eco trasformativa.
Tra i racconti più efficaci restano quelli in cui l’inverno emerge come “paesaggio interiore” — Un pomeriggio d’inverno, ad esempio, è un esercizio di sospensione quasi, che lavora per sottrazione e lascia giocare al lettore il compito di completare l’immagine. Ma per ogni Pomeriggio d’inverno ce ne sono molti altri che, pur aspirando a quella visione, non hanno la stessa compattezza: quando l’ellissi diventa assenza e l’allusione diventa vaga foschia, il lettore indietreggia invece di esserne attratto.

Quando saremo morti e sepolti,
sarebbe di gran conforto
sentire un rapido colpetto sulla porta
e una voce da fuori che dice:
“Pulizie!”
anche se non potremo aprire.
(Da Quando saremo morti e sepolti)

In un’epoca di polarizzazioni ideologiche e culturali, di richieste identitarie e discorsive, molti autori sentono l’urgenza di rispondere — e quell’urgenza può distogliere dallo sperimentalismo elegante e radicale. La tensione è tra la necessità di contenuto (“parlare del presente”) e l’aspirazione a una lingua “alta” e autonoma: un conflitto che può produrre testi retorici, timorosi, appiattiti. Lo spiega bene David Brooks che in questo articolo ha fatto una risonanza alla letteratura statunitense.
In questo contesto, Lydia Davis rappresenta da un lato una tradizione resistente, quasi anticonformista: rinuncia al romanzo e all’intreccio, investe nella brevità e nell’ellissi, avvolge la sua vita di mistero da quando ha lasciato New York per una piccola cittadina e investe energie nell’attivismo climatico. Ciò la allontana dalla logica del blockbuster editoriale e la iscrive in una linea “minoritaria” della letteratura americana. Ma allo stesso tempo, quella sua forma estrema può sembrare meno in risonanza con le emergenze culturali attuali: quanto spazio trova oggi una micro-narrazione silenziosa, nel turbine dei discorsi forti? Non sarà mai più il tempo di questo tipo di storie? E ancora, in che misura il carattere alto della flash fiction può essere percepito come un lusso rispetto alla domanda di testimonianza, conflitto, visibilità immediata?
In uno dei racconti, Lettera d’inverno, una madre confessa ai figli: “So che non è molto interessante, ma è la nostra vita”. Quanto è autoreferenziale e cieco non occuparsi del presente? Eppure, lasciandosi andare alla lente d’ingrandimento di Lydia Davis viene da chiedersi, piuttosto: una scrittura che rifugge il presente non è essa stessa frutto del momento? Oppure stare ai margini, ritrarsi dall’urto della cronaca, non esporsi, sono le chiavi per tornare a vedere l’altro?
I nostri estranei fa parte del dilemma americano: la tensione tra una letteratura modesta, della diminuzione e una letteratura dell’esposizione, tra radicamento privato e impegno pubblico. Il compito del lettore critico è riconoscerne la bellezza, ma anche domandarsi se, nel panorama contemporaneo, quel tipo di arte sia più un’elegia silenziosa o un’istanza che non sa raggiungere la voce della comunità.