Edizioni Arcoirids porta in libreria Fiabe oscure per notti inquiete, curato da Andrea Corona e tradotto da Stefano Cortese, Dario David Barrecchia e Francesco Maione, è il testo dedicato alle origini e all’evoluzione della fiaba italiana ed europea: Giovan Francesco Straparola, Giambattista Basile, Charles Perrault e i Fratelli Grimm sono gli autori che ci accompagnano dalle prime versioni scritte de “Il gatto con gli stivali” alle varie redazioni, qui messe a confronto e corredate da illustrazioni e note critiche, di intramontabili favole come “Raperonzolo”, “Pollicino”, “Cenerentola”, “Cappuccetto Rosso”, “La bella addormentata nel bosco” e tante altre.
Cattedrale vi propone uno dei testi della raccolta, per gentile concessione dell’editore.
POLLICINO
di Charles Perrault
C’era una volta una coppia di taglialegna che aveva sette figli, tutti maschi. Il più grande non aveva che dieci anni, il più giovane appena sette. Ci si potrà stupire che il taglialegna avesse avuto così tanti figli in così poco tempo, ma la moglie andava di lena, e ne partoriva non meno di due alla volta.
I due taglialegna erano assai poveri, e i loro sette figli erano un brutto impiccio, perché ancora troppo piccoli per guadagnarsi da vivere da soli. Ciò che li angustiava ancor di più era il fatto che il più piccolo fosse molto delicato e non dicesse una parola, e prendevano per bestialità quel che, in realtà, era un tratto della bontà del suo carattere.
Era davvero molto piccolo, e quando venne al mondo non era più grande di un pollice, e per questo tutti lo chiamavano Pollicino.
Questo povero bambino era il martire della casa, e tutti gli facevano sempre i dispetti. D’altro canto, egli era il più intelligente e il più saggio dei fratelli e, se parlava poco, ascoltava molto.
Venne una brutta annata, e la fame era così forte che quella povera gente risolse di sbarazzarsi dei figli.
Una sera che i bambini dormivano, e che il taglialegna era accanto al fuoco insieme a sua moglie, egli disse, col cuore serrato dal dolore: «Non possiamo più sfamare i nostri bambini, e non posso pensare di vederli morire di fame davanti ai miei occhi. Ho deciso di abbandonarli nel bosco. Sarà molto facile: mentre si divertiranno a raccogliere legna, noi ce la squaglieremo senza farci vedere».
«Ah!» strillò la taglialegna. «E tu saresti capace di sperdere i tuoi stessi figli?».
Suo marito le spiegò chiaramente quanto fossero disperati, e la moglie non poté che convenirne. Era povera, ma era pur sempre la loro madre. Tuttavia, considerando quale dolore avrebbe provato a veder morire di fame i suoi figli, finì per acconsentire e andò a coricarsi piangendo.
Pollicino aveva udito tutto quello che s’erano detti. Avendo inteso che i genitori parlavano di fatti gravi, era sceso dal letto in silenzio e si era ficcato sotto lo sgabello di suo padre per ascoltare senza essere visto. Poi tornò a coricarsi, ma non dormì tutta la notte pensando a quello che avrebbe dovuto fare.
Si svegliò di buon mattino, e andò al ruscello, dove si riempì le tasche di sassolini bianchi, poi tornò a casa. Si misero in cammino, e Pollicino non disse nulla ai fratelli di quel che aveva scoperto.
Penetrarono in una foresta assai fitta, dove era impossibile scorgere qualsiasi cosa a dieci passi di distanza. Il taglialegna cominciò a tagliare i rami, e i suoi figli a raccoglierne i pezzetti per farne dei fasci. Vedendoli impegnati nel lavoro, il padre e la madre si allontanarono senza farsi notare e poi, all’improvviso, fuggirono per un sentiero stretto e tortuoso.
Appena i bambini si accorsero d’essere rimasti soli, cominciarono a piangere e gridare con tutte le loro forze.
Pollicino li lasciò frignare, sapendo benissimo da che parte andare per far ritorno a casa: mentre camminava, infatti, aveva lasciato cadere lungo il sentiero i sassolini bianchi che aveva nelle tasche. Allora disse loro: «Non temete, fratelli miei: mamma e papà ci hanno lasciati qui, ma io vi ricondurrò a casa, seguitemi».
Gli andarono dietro, e lui li ricondusse a casa seguendo lo stesso percorso che avevano attraversato addentrandosi nella foresta. All’inizio non osarono entrare, ma rimasero tutti sull’uscio, ad ascoltare cosa dicessero il padre e la madre.
Non appena il taglialegna e sua moglie erano arrivati a casa, il signore del villaggio aveva spedito loro dieci corone che da molto tempo gli doveva, ma che i due non si aspettavano più di rivedere. Ciò li rimise in vita, perché quella povera gente moriva di fame.
Il taglialegna mandò subito la moglie dal macellaio. Dato che da molto tempo non mangiava, comprò una quantità di carne tre volte superiore a quella necessaria per una cena per due persone.
Quando furono finalmente sazi, la taglialegna disse: «Ahimè! Dove saranno ora i nostri poveri figli? Farebbero finalmente un buon pasto con tutto quel che è avanzato. Sei stato tu, Guillaume, a volerli sperdere, te l’avevo detto che ce ne saremmo pentiti. Cosa ne sarà di loro in quella foresta? Ahimè! Mio Dio, i lupi potrebbero averli già sbranati! Sei stato davvero disumano ad abbandonare i tuoi figli in questo modo».
Alla fine il taglialegna perse la pazienza, perché ella aveva ripetuto più di venti volte che se ne sarebbero pentiti e che lei lo aveva detto. Minacciò di picchiarla se non si fosse azzittita. Non che il taglialegna fosse più arrabbiato di sua moglie, forse, ma lei lo faceva ammattire, e lui rassomigliava a tanti altri, che amano le donne che parlano bene, ma trovano assai inopportune quelle che dicono d’aver previsto tutto.
La taglialegna era in lacrime: «Ahimè! Dove sono adesso i miei bambini, i miei poveri bambini?».
Lo disse così forte che, avendola intesa, i bambini alla porta si misero a gridare tutti insieme: «Eccoci qua! Eccoci qua!».
La donna corse ad aprire la porta, e abbracciandoli disse loro: «Come sono felice di rivedervi, miei cari bambini! Siete molto stanchi e avete molta fame; e tu, Pierrot, quanto sei sporco, vieni a farti pulire». Pierrot era il figlio maggiore, che lei amava più di tutti gli altri, perché entrambi erano di pelo rosso.
Si sedettero a tavola e mangiarono con un appetito che fece piacere a mamma e papà, ai quali raccontarono, parlando quasi tutti insieme, della paura che avevano avuto nella foresta.
Quella brava gente era felicissima di rivedere i propri figli, ma la gioia durò finché durarono le dieci corone.
Quando il denaro fu tutto speso, ricaddero nella disperazione, e così decisero di smarrirli di nuovo e, per non fallire, di condurli molto più lontano della prima volta.
Tuttavia, non poterono discorre tanto in segreto senza che Pollicino ascoltasse e decidesse di cavarsi dall’impiccio così come aveva già fatto. Tuttavia, nonostante si fosse alzato di buon mattino per andare a raccogliere dei sassolini, non poté farlo, perché trovò la porta di casa chiusa a doppia mandata. Pollicino non sapeva più cosa fare, ma, quando il taglialegna diede a ciascuno di loro un tozzo di pane, il bambino pensò che avrebbe potuto usare quello al posto delle pietre, gettandone le molliche lungo il tragitto. Così se lo mise in tasca.
Il padre e la madre li portarono nella parte più folta e oscura della foresta e, non appena furono lì, se la svignarono.
Pollicino non se ne curò più di tanto, perché era sicuro di ritrovare il cammino grazie alle molliche di pane che aveva disseminato lungo il sentiero dov’erano passati, ma restò sorpreso quando non riuscì a trovare una sola mollica di pane: gli uccelli, infatti, le avevano mangiate tutte.
I fratelli erano molto angosciati, perché più camminavano, più si perdevano, addentrandosi nella foresta. Venne la notte, e si levò un vento così forte che li atterrì. Credevano fosse l’ululato dei lupi che si avvicinavano per divorarli. Non osavano quasi più parlare o voltare la testa. Cadde una pioggia battente, che li trafisse fino alle ossa; scivolavano a ogni passo e cadevano nel fango, da cui si rialzavano tutti impiastrati, senza sapere cosa fare.
Pollicino salì in cima a un albero, per vedere se fosse riuscito a scoprire qualcosa. Dopo aver voltato la testa da una parte e dall’altra, scorse un piccolo bagliore, simile a quello di una candela, ma molto lontano, oltre la foresta. Scese dall’albero e, quando fu a terra, non vide più nulla. Ciò lo rattristò. Tuttavia, dopo aver camminato per un po’ con i suoi fratelli nella direzione in cui aveva visto la luce, uscendo dal bosco, la vide di nuovo.
Giunsero finalmente alla casa dove baluginava la candela, e non senza timore, dato che spesso l’avevano persa di vista, soprattutto quand’erano costretti a scendere in un avvallamento.
Bussarono alla porta e una brava donna venne ad aprire. Chiese loro cosa volessero, e Pollicino le disse ch’erano dei bambini poveri, che si erano persi nella foresta e chiedevano per carità di dormire.
La donna, vedendoli tutti così belli, cominciò a piangere e disse: «Ahimè! Poveri bambini miei, da dove venite? Sapete che questa è la casa di un orco che mangia i bambini?».
«Ahimè!» rispose Pollicino, che tremava con tutte le sue forze così come i suoi fratelli. «Cosa faremo? Di certo stanotte i lupi nella foresta ci sbraneranno se non ci darete riparo in casa vostra e, stando così le cose, preferiamo essere mangiati dall’orco: magari avrà pietà di noi, se avrete la gentilezza di pregarlo».
La moglie dell’orco, che pensò di poterli nascondere al marito fino al mattino seguente, li fece entrare e li mise a scaldarsi accanto a un bel fuoco, dove già s’arrostiva la cena dell’orco, un’intera pecora.
Non avevano fatto in tempo a scaldarsi, che udirono tre o quattro forti colpi alla porta: era l’orco che rientrava.
La moglie li nascose subito sotto il letto e andò ad aprire la porta. L’orco chiese se la cena fosse pronta, e se il vino fosse stato già spillato, poi si mise a tavola. La pecora era al sangue, e aveva un sapore delizioso.
L’orco annusava qua e là, dicendo che c’era profumo di carne fresca nell’aria.
«Dev’essere questo vitello che ho appena macellato», spiegò la moglie.
«Sento odore di carne fresca, te lo ripeto» continuò l’orco, guardando la donna di sbieco. «Qui c’è qualcosa che non quadra». Detto questo, si alzò da tavola e andò dritto al letto.
«Ah! È così che vuoi ingannarmi, dannata femmina! Non so cosa mi freni dal mangiare pure te» disse. «Sei fortunata d’essere una vecchia bestiaccia! Ecco un giochino che m’arriva giusto in tempo per fare un regalo a certi orchi amici miei che verranno a trovarmi in questi giorni», e iniziò a tirare uno dopo l’altro i bambini da sotto al letto.
I piccoli si misero in ginocchio, chiedendo perdono, ma avevano a che fare col più crudele di tutti gli orchi, che, ben lontano dall’averne pietà, li sbranava già con gli occhi, dicendo a sua moglie che sarebbero stati dei bocconcini deliziosi quando avesse preparto una buona salsa.
Andò a prendere un grosso coltello e, avvicinandosi ai poveri bambini, lo affilò su una lunga pietra.
Ne aveva già agguantato uno, quando sua moglie gli chiese: «Che vuoi fare adesso? Non avrai abbastanza tempo domani mattina?».
«Sta’ zitta!» replicò l’orco. «Domani saranno frollati meglio».
«Ma c’è ancora tutta questa carne! Ecco, un vitello, due pecore e mezzo maiale!».
«Hai ragione» ammise l’orco. «Da’ loro una buona cena, ché non dimagriscano, e poi portali a letto».
La brava donna era felicissima, e portò loro una buona cena, ma i piccoli erano così spaventati che non riuscirono a mangiare. Quanto all’orco, iniziò a bere, felice di poter omaggiare così bene i suoi amici. Bevve una dozzina di bicchieri più del solito, e così la testa prese a girargli, costringendolo a mettersi a letto.
L’orco aveva sette figlie, ancora bambine. Queste piccole orchesse avevano tutte una carnagione bellissima, perché, come il loro padre, mangiavano carne fresca, ma avevano occhi piccoli, rotondi e grigi, nasi adunchi e bocche molto grandi con denti lunghi, affilati e molto distanti tra loro. Non erano ancora così malvage, ma promettevano bene, perché già mordevano i bambini per succhiarne il sangue.
Erano state messe a dormire presto e tutte e sette erano in un lettone, ciascuna con una corona d’oro in testa. Nella stessa stanza c’era un altro letto, delle stesse dimensioni: fu in questo che la moglie dell’orco mise a dormire i sette bambini, dopodiché andò a coricarsi con suo marito.
Pollicino, notate le corone d’oro, e temendo l’orco potesse avere un ripensamento per non averli scannati quella sera stessa, s’alzò verso mezzanotte, prese il suo berretto e quelli dei suoi fratelli, e andò a metterli in testa alle figlie dell’orco, dopo aver tolto loro le corone d’oro e averle messe in testa a sé e ai suoi fratelli, affinché l’orco li scambiasse per le sue figlie, e le figlie per i ragazzi che voleva ammazzare.
La cosa riuscì come aveva previsto: svegliatosi a mezzanotte, l’orco si pentì d’aver rimandato al giorno dopo quello che avrebbe potuto benissimo fare la sera prima.
Si gettò bruscamente fuori dal letto e, agguantato il suo coltellaccio, disse: «Andiamo a vedere un po’ come stanno i nostri piccoli monelli».
Così, a tentoni, salì fin nella stanza delle figlie, si avvicinò al letto dove si trovavano i bambini, che dormivano tutti, tranne Pollicino, che si spaventò molto quando sentì la mano dell’orco tastargli la testa così come aveva fatto con quella dei suoi fratelli.
L’orco, sentite sotto le dita le corone d’oro, disse: «Proprio un bel lavoro stavo per combinare. Devo aver bevuto troppo ieri sera!».
Poi s’avvicinò al letto delle figlie e, dopo aver tastato i berretti dei bambini, esordì: «Ah! Eccoli i nostri ragazzi! Lavoriamo, coraggio». Ciò detto, senza esitazione tagliò la gola alle sue sette figlie. Molto soddisfatto della spedizione, tornò a coricarsi accanto alla moglie.
Non appena Pollicino sentì l’orco russare, svegliò i suoi fratelli e disse loro di vestirsi in fretta e di seguirlo. Si calarono delicatamente in giardino e saltarono oltre il muro. Corsero quasi tutta la notte, tremando e senza saper dove andare.
Al suo risveglio, l’orco disse alla moglie: «Va’ sopra a preparare quei monelli di stanotte».
L’orchessa rimase molto stupita dalla gentilezza del marito, non sospettando affatto cosa egli intendesse in realtà per “preparare”, credendo le avesse ordinato di vestirli.
Salì di sopra, e restò inorridita quando vide le sue sette figlie sgozzate e immerse nel sangue, poi svenne (questo è il primo espediente al quale quasi tutte le donne ricorrono in tali casi).
L’orco, pensando che la moglie impiegasse troppo tempo a svolgere il compito che le aveva affidato, salì al piano di sopra per aiutarla. Non rimase meno impressionato quando vide quello spettacolo orribile.
«Ah! Che cosa ho fatto? Me la pagheranno, disgraziati, e presto!», strillò.
Gettò subito una brocca d’acqua sul grugno della moglie e, dopo averle fatto riprendere i sensi, disse: «Dammi subito i miei stivali dalle sette leghe, così potrò andare ad acciuffarli».
Partì per la campagna e, dopo aver corso in lungo e in largo in tutte le direzioni, finalmente imboccò il sentiero percorso dai poveri bambini, che adesso erano a soli cento passi dalla casa del padre.
Videro l’orco valicare una montagna dopo l’altra, guadare i fiumi con la stessa facilità con cui avrebbe attraversato un ruscelletto.
Pollicino, scorta una roccia cava vicina a dove si trovavano, fece subito nascondere i suoi sei fratelli e vi si nascose anche lui, senza mai smettere di guardare cosa facesse l’orco.
L’orco, ormai stremato da quel lungo, inutile viaggio (gli stivali dalle sette leghe stancavano assai il loro padrone), volle riposare, e per caso andò a sedersi proprio sulla roccia dove si erano nascosti i bimbi.
Dato che era sfinito, l’orco s’addormentò quasi subito, e si mise a russare così forte che i poveri bambini non ne ebbero meno paura di quando brandiva il suo coltellaccio per tagliar loro la gola.
Pollicino, che era un po’ meno spaventato, disse ai suoi fratelli di scappare a casa mentre l’orco dormiva della grossa, e che non si preoccupassero per lui. Seguirono il suo consiglio, e corsero di filato a casa.
Pollicino si avvicinò all’orco, gli sfilò delicatamente gli stivali e se li mise subito ai piedi. Gli stivali erano molto grandi e molto larghi, ma, essendo fatati, avevano il potere di adattarsi a chi li indossava, e così bene che sembrò fossero stati realizzati apposta per le sue gambe e per i suoi piedi.
Andò dritto a casa dell’orco, dove trovò sua moglie che piangeva accanto alle sue figlie sgozzate.
«Vostro marito», disse Pollicino, «si trova in grave pericolo: è stato sequestrato da una banda di ladri, che minacciano di ucciderlo se non gli consegnerà tutto il suo oro e il suo denaro. Dato che ha il coltello alla gola, mi ha pregato di venir qui ad avvertirvi e consegnarmi tutto quello che chiedono, senza lesinare nulla, altrimenti lo uccideranno in maniera spietata. Dato che era urgente, per far presto ha voluto che prendessi i suoi stivali dalle sette leghe, e dimostrarvi pure che non sono un bugiardo».
La brava donna, molto spaventata, gli diede subito tutto quello che aveva: quell’orco, dopotutto, era pur sempre un ottimo marito, malgrado mangiasse i bambini.
Pollicino, allora, carico di tutte le ricchezze dell’orco, tornò a casa di suo padre, dove fu accolto con grande gioia.
Sono molti coloro i quali non sono d’accordo con quest’ultima versione, e che sostengono che Pollicino non abbia mai commesso il furto e che non si fosse accorto di aver preso gli stivali dalle sette leghe, che l’orco usava solo per correre dietro ai bambini. Queste persone sostengono di averlo saputo da fonte attendibile, perché hanno mangiato e bevuto nella casa del taglialegna.
Ci assicurano che, quando Pollicino ebbe indossato gli stivali dell’orco, si recò a corte, dove seppe che erano in gran trepidazione a causa di un esercito che si trovava a duecento leghe di distanza e per il risultato di una battaglia che avevano ingaggiato. Si racconta che andò a trovare il re, e gli disse che, se avesse voluto, gli avrebbe portato notizie dell’esercito prima della fine della giornata. Il re gli promise una grossa somma di denaro se avesse avuto successo.
Pollicino riportò la notizia quella sera stessa e, divenuto celebre dopo questa prima corsa, ottenne tutto ciò che voleva: il re lo pagava assai profumatamente per portare i suoi ordini all’esercito, e un’infinità di dame gli offriva tutto ciò che desiderava per avere notizie dei loro amanti. Questo fu il suo più grande guadagno. C’erano alcune donne che gli commissionavano di scrivere lettere per i loro mariti, ma lo pagavano così male che lui non si degnava di tener conto di un compenso così misero.
Dopo aver lavorato per qualche tempo come corriere e aver accumulato una grande ricchezza, tornò da suo padre, ed è impossibile immaginare la gioia che provarono nel rivederlo.
Mise a proprio agio tutta la famiglia; acquistò nuovi edifici per suo padre e per i suoi fratelli, li sistemò tutti, e, al contempo, amministrò la propria di corte in modo impeccabile.
Morale
Non ci curiamo d’aver molti figli
Quando son tutti belli, ben fatti,
Alti e fuor splendenti;
Ma se uno è debole o non dice una parola,
o si disprezza, deride e pesta.
A volte, però, è quel monello
Che la famiglia tutta renderà felice.

