La causa di alcuni cambiamenti recenti, di Alasdair Gra

Safarà editore porta in libreria Storie perlopiù importanti, di Alasdair Gray , tradotto da Enrico Terrinoni e illustrato dallo stesso Gray. Alla prima prova in un libro di racconti, l’autore di Povere creature! l’autore ci porta in un’immersione profonda nella sua poetica singolare e caleidoscopica: uomini che si dividono litigiosamente a metà, cantine che si affacciano sul cuore del mondo, costruzioni che mirano a trafiggere il cielo e missive che attraversano arcani imperi per raggiungere civiltà future.
Finemente illustrati, cupmente divertenti e intrisi di mito e idealità: ciascuno di questi racconti pirotecnici è una miniatura che restituisce, a chi la osserva, la mappa dell’universo umano, sociale e intellettuale del grande artista scozzese.

Cattedrale vi propone uno dei racconti del testo, per gentile concessione dell’editore.


LA CAUSA DI ALCUNI CAMBIAMENTI RECENTI
di Alasdair Gray

 

I dipartimenti di pittura delle scuole d’arte odierne sono pieni di gente scontenta. Un giorno Mildred mi disse: «Sono stufa di perdere tempo. Cominciamo a lavorare alle dieci e dopo mezz’ora siamo già stanchi: i ragazzi cominciano a tirarsi pallini di carta e le ragazze se ne stanno a chiacchierare accanto ai termosifoni. Quando iniziamo ad annoiarci ci trasciniamo in mensa a bere caffè e non ci divertiamo mica, ma che altro possiamo fare? Non ne posso più. Voglio dedicarmi a qualcosa di potente e costruttivo».
 Allora le dissi: «Scava un tunnel».
 «Cosa?».
 «Anziché bere caffè, quando ti annoi scendi nel seminterrato e scava una via di fuga».
 «Ma se volessi scappare potrei uscire dalla porta principale e non ritornare più».
 «Non si scappa mica così. Il Ministero dell’istruzione ti toglierebbe la borsa di studio e dovresti lavorare per campare».
 «Ma dove potrei fuggire?».
 «Non ha importanza. Viaggiare pieni di speranze è più bello che arrivare in qualsiasi destinazione».
Il mio suggerimento non intendeva essere serio, ma nel dipartimento di pittura riscosse un grande successo. Nel seminterrato, dove non va quasi mai nessuno, una lastra di pietra venne rimpiazzata da una botola nascosta. Sotto di essa, fu scavato un vano che raggiungeva le fondamenta della scuola. Il tunnel iniziava lì, e proprio in quel punto diverse squadre a turno azionavano un verricello che estraeva casse di detriti, i quali finivano poi in sacchi che venivano fatti uscire di nascosto insieme alla biancheria. La scuola era stata costruita su un blocco di quarzo igneo: non c’era pericolo che le pareti cedessero, e non servivano sostegni o puntelli. Le operazioni di scavo erano semplificate grazie all’uso di solventi chimici che, applicati alla superficie di roccia con uno spray, la rendevano ghiaiosa e malleabile. Il merito di questa invenzione era del dipartimento di disegno industriale, i cui studenti disprezzavano i pittori impegnati a scavare il tunnel, ma erano interessati alla sfida dal punto di vista tecnico. Senza il loro aiuto non si sarebbero raggiunte quelle profondità.
Nonostante l’inizio promettente, mi aspettavo che il progetto fallisse per mancanza di sostegno come era success alla rivista, ai gruppi di discussione e alla gita a Linlithgow, perciò fui sorpreso tre mesi dopo nell’apprendere che l’entusiasmo non accennava a diminuire. Il consiglio di rappresentanza degli studenti era pieno zeppo di membri del comitato per il tunnel e si organizzavano continuamente dei balli per pagare l’installazione di macchinari più potenti. Una sorta di tensione iniziò a percorrere tutto l’edificio. Gente che saltava al minimo rumore, che rideva forte a battute fiacche o litigava senza esser stata provocata. Forse temevano inconsciamente che il tunnel avrebbe aperto una crepa vulcanica, anche se fino ad allora non si erano registrati aumenti di temperatura, né fuoriuscite di acqua o presenza di gas. Ogni tanto mi chiedevo come fosse possibile che il progetto restasse impermeabile a ogni interferenza. Un’impresa ingegneristica sostenuta da diverse centinaia di persone difficilmente può rimanere segreta. Era naturale che le persone al di fuori della scuola considerassero le dicerie frutto della fantasia, ma perché nessuno dei professori interferiva? Solo una minoranza di loro sosteneva attivamente il progetto, e due si presero delle mazzette per restarsene zitti. Sono certo che il preside e il vicepreside non sapessero nulla, ma gli altri che sapevano, perché non hanno parlato? Forse consideravano il tunnel una via di fuga anche per loro. Un giorno i lavori si fermarono. Durante la pausa caffè la squadra del primo turno del mattino scoprì che l’entrata del seminterrato era stata sbarrata. Il tunnel aveva molte entrate, ma erano tutte sbarrate, e poiché il comitato era svanito nel nulla si pensò che fossero dentro. Iniziarono a girare voci di ogni tipo.


Mi sono sempre tenuto alla larga dai movimenti di massa, perciò quando una sera incontrai la presidente del comitato in un corridoio solitario del piano superiore e le dissi: «Ciao, Mildred» non mi sarei neppure fermato se lei non mi avesse afferrato per un braccio dicendo: «Vieni con me».
 Mi condusse verso una porta poco distante che avevo sempre pensato desse su un ascensore in disuso. Disse: «Meglio se ti siedi per terra», poi chiuse il cancelletto dietro di noi e tirò una leva. L’ascensore cadde come un masso, producendo un suono talmente acuto da essere quasi inudibile. Dopo quindici minuti, decelerò con delle scosse violente prima di fermarsi. Mildred aprì il cancelletto e uscimmo.
Mio malgrado, rimasi impressionato da quel che vidi. Ci trovavamo in un corridoio con un soffitto ad archi, asfalto per terra e pareti ricoperte da bianche piastrelle. Curvava sia a destra che a sinistra e per questo non si riusciva a vedere per più di un miglio in ciascuna direzione. «Molto bene» dissi «davvero molto bene. Come avete fatto? Solo l’illuminazione fluorescente sarà costata una fortuna».
 Mildred disse con voce grave: «Non l’abbiamo mica fatto noi questo posto. Ci siamo solo arrivati».
 In quel momento passò un anziano in bicicletta. Indossava un berretto con la visiera e su un braccio portava una fascia con una sorta di mostrina; per il resto era nudo, poiché faceva molto caldo. Mentre ci superava fece un amichevole cenno di saluto con la mano.
 «Chi è quello là?» chiesi.
«Un funzionario, diciamo. Non ce ne sono molti in questo piano».
 «E quanti piani ci sono?».
 «Tre. Qui ci sono i dormitori e le mense per il personale, mentre sotto ci sono gli uffici amministrativi, e ancora più in basso c’è il motore».
 «Quale motore?».
 «Quello che ci fa girare intorno al sole».
 «Ma è la gravità a farci girare intorno al sole».
 «Ti hanno mai spiegato cosa sia la gravità e come operi?».
Mi sovvenne che no, nessuno l’aveva mai fatto. Mildred disse: «La gravità non è altro che una parola usata dagli scienziati di alto rango per nascondere la propria ignoranza».
 Chiesi cosa alimentasse il motore. E lei: «Il vapore».
 «Nessuna fissione nucleare?».
 «No, i ragazzi di design industriale sono sicuri si tratti di un motore a vapore, la cosa più primitiva che si possa immaginare. Sono là sotto a fare misurazioni e bozzetti assieme al resto del comitato. Tra un paio di giorni ti mostreremo un’immagine».
 «E nessuno si è chiesto che diritto avete di ficcare il naso in questa cosa?».
 «No. E così in tutte le grandi organizzazioni. I membri del personale sono talmente tanti che puoi andare dove ti pare, se sei abbastanza sicuro di te».
Di lì a mezz’ora avrei dovuto incontrare un amico, perciò tornammo all’ascensore e risalimmo su. Dissi: «Beh, Mildred, ovviamente la cosa è interessante, ma non so perché mi hai portato a vederla».
 E lei: «Sono preoccupata. Gli altri ridono del marchingegno, e parlano di fare delle modifiche. Pensano che possa migliorare il clima il fatto di avvicinarci al sole. Temo che si stiano sbagliando».
 «Certo che si stanno sbagliando! Dovreste studiare arte, non i moti planetari. Non avrei mai suggerito l’idea di questo progetto se avessi saputo che sareste arrivati fino a questo punto».
 Una volta al piano terra mi fece uscire e disse: «Ormai non possiamo tornare indietro».
 Immagino che ridiscese, perché non la vidi mai più.
Quella notte mi svegliò un’esplosione, e il mio letto andò a schiantarsi contro il soffitto. Il sole, appena tramontato, riaffiorò. La città fu inondata dal mare. Noi sopravvissuti ce ne restammo acquattati a lungo tra le rovine causate da terremoti, valanghe e trombe d’aria. Gli orologi andavano tutti a velocità differenti e il sole, dopo aver raggiunto il punto massimo di altezza a mezzogiorno, non accennava a spostarsi. Alla fine gli elementi si calmarono ed esaminammo la nuova situazione. Il pianeta si era chiaramente spezzato in tanti frammenti. Il nostro frammento non ruota più. Per goderci la luce delle stelle e l’oscurità, per farci una bella dormita di notte, dobbiamo raggiungere a piedi l’altra parte del mondo, un viaggio di diverse miglia, e poi uno altrettanto lungo per tornare indietro se vogliamo la luce del giorno.
Sarà dura ricostruire la vita com’era prima.