Neo Edizioni porta in libreria Il grande buio, di Enrico Macioci. Una raccolta di dieci storie, ognuna delle quali cerca di afferrarne le possibili forme, prova a raccontarne gli improvvisi svelamenti.
Una riunione di condominio è la scena, non di un crimine, ma della fine del mondo; una donna racconta del suo essere madre e il ricordo porta a un omicidio; marito e moglie fanno la solita passeggiata in montagna ma stavolta c’è qualcosa o qualcuno insieme a loro; una coppia di ospiti convive con un odore nauseabondo mentre il padrone di casa che li ospita è partito alla ricerca della propria compagna; un uomo è svegliato nel bel mezzo di una notte estiva, in strada qualcuno sta giocando a tennis, il poc, poc, poc della pallina è il richiamo verso l’ignoto.
Cattedrale vi propone uno dei testi della raccolta, per gentile concessione dell’editore.
La fine del mondo
di Enrico Macioci
Quando sentì suonare il campanello, Vincenzo Parisi stava telefonando al figlio per la terza volta negli ultimi dieci minuti: non riusciva ad accendere Sky e aveva bisogno di aiuto, fra poco sarebbe iniziata la finale di Wimbledon. Per la terza volta il cellulare del figlio risultò muto e Vincenzo imprecò e scagliò il proprio sul divano, poi scese le scale fino alla porta d’ingresso.
Si trovò di fronte una ragazza alta e mora che indossava un paio di jeans stinti, una t-shirt bianca, scarpe da tennis celesti e occhiali da sole rialzati sulla fronte a fermarle i capelli. Non la conosceva.
«Sono Eva» si presentò lei. «Un’amica di Pietro».
«Pietro non c’è» replicò Vincenzo con un mezzo sorriso. La ragazza lo studiava seria e lui smise di sorridere. «Lo stavo giusto cercando al telefono».
«Anch’io» disse la ragazza. «Ma è sempre spento, perciò mi sono permessa di suonare».
«Entra» la invitò Vincenzo. «Fa troppo caldo fuori».
La ragazza avanzò di un passo, Vincenzo si spostò di lato e lei entrò. Si tolse gli occhiali dalla fronte e ne infilò un’asta nella tasca anteriore dei jeans. I capelli ricaddero e se li scostò. Odorava di sigaretta e crema abbronzante e aveva gli occhi chiari.
«Saliamo» propose lui richiudendo la porta, e lei lo precedé lungo le scale. Evitò di guardarla mentre la seguiva e pensò alla moglie, che in teoria doveva avere quasi concluso dall’estetista; decise di chiamarla con una strana fitta di nostalgia.
Il primo piano si componeva di soggiorno e cucina, e la ragazza lo osservò per alcuni secondi. Vincenzo la affiancò e chiese se avesse sete.
«Da morire» disse lei.
«Questo caldo assurdo» ripeté lui scuotendo la testa. «Una menta va bene?»
«Benissimo».
Vincenzo tirò fuori dal frigo una bottiglia d’acqua e una di menta, prese un bicchiere, mescolò con un cucchiaio, porse il bicchiere alla ragazza.
«Lei non beve?» domandò la ragazza prendendo il bicchiere.
«Certo». Vincenzo si voltò e ne preparò uno anche per sé, imbarazzato dall’estrema tranquillità della ragazza e dal fatto che con ogni probabilità lei gli fissava la schiena. Se ne stava lì, poggiata col sedere alla penisola, senza muovere un muscolo e senza parlare.
Pietro non era solito portare compagne a casa – del resto frequentava appena il primo anno di università, e di compagne ufficiali nemmeno l’ombra; la presenza di Eva rappresentava per Vincenzo una novità. Non che se ne intendesse di giovani donne e non che pretendesse di capire le nuove generazioni, ma si sarebbe aspettato da parte della ragazza un briciolo d’impaccio in più.
Dopotutto lui aveva cinquantadue anni e insegnava Letteratura moderna alla facoltà di Lettere, godeva in città d’un discreto prestigio e scommetteva che lei ne fosse a conoscenza.
«Studi Legge insieme a Pietro?» domandò, per spezzare il silenzio troppo prolungato.
Lei sorseggiò la menta, incrociò un piede davanti all’altro e annuì.
«Devo chiamare mia moglie» la informò Vincenzo, soffocando sul nascere un altro mezzo sorriso.
La ragazza non commentò e lui si diede del patetico. Non era abituato a giudicarsi duramente e il suo nervosismo crebbe. Digitò il numero di Ada, poi attese: il cellulare era spento.
«Anche quello di mia madre fa così» lo informò la ragazza. «E anche quello di mia sorella».
«Strano» disse lui. «Che sia successo qualcosa di serio?»
Raggiunse il divano, pentito di quelle parole malauguranti; prese il telecomando e schiacciò il tasto di accensione: il televisore lampeggiò, ma lo schermo rimase buio e muto.
«È successo qualcosa» ripeté crollando a sedere. Una striscia di sudore gli colava fra le scapole, bagnandogli la camicia e acuendo il suo disagio.
Eva si accomodò accanto a lui sul divano, ma lasciò fra di loro un posto libero. Premé la superficie del bicchiere sulla guancia e sul polso per rinfrescarsi.
«Avete un bellissimo parquet» disse e, senza aggiungere altro, depositò il bicchiere sul tavolino di vetro dove la moglie di Vincenzo era solita poggiare i libri o le sigarette, quindi si tolse le scarpe, che sistemò di fianco alla piantana nell’angolo. Tolse anche i fantasmini e li ficcò dentro le scarpe. Aveva piedi abbronzati e unghie smaltate di azzurro.
«Non ce n’è mica bisogno» disse Vincenzo indicandole goffamente i piedi.
«Non si preoccupi. A casa vado sempre in giro scalza».
Lui tossicchiò e, temendo di arrossire, si alzò e andò alla finestra.
La città si stendeva esausta sotto il gran caldo, e il sole pareva un maglio. Le strade erano deserte e il parco del castello brillava di un verde cupo e metallico. Una sirena prese a suonare, ossessiva e insensata, nell’arido centro del pomeriggio: non una sirena della polizia o dell’ambulanza o dei pompieri, ma quella di una fabbrica. Tranne che laggiù non c’erano fabbriche, non c’erano mai state. Vincenzo sentì di non avere scampo, e che forse nessuno l’avrebbe avuto. “Ada, Pietro” pensò. “Dove siete? E perché non rispondete?”
Si girò. La ragazza aveva recuperato il bicchiere dal tavolino e accavallato le gambe. Studiava la libreria al di sopra del televisore. «La collezione poetica uscita con Repubblica, giusto?» domandò.
«Giusto».
«E qual è il suo poeta preferito?»
«Baudelaire».
«I poeti mi annoiano» disse la ragazza con una smorfia. «A lei no?»
«A me no. Io li insegno e non mi annoiano» spiegò stizzito. Gli dava fastidio che la ragazza fingesse di non sapere che lui era un professore universitario, gli dava fastidio che fosse entrata in casa sua con tanta facilità, e per di più in un momento in cui sia Pietro che Ada non rispondevano al telefono; e la tv era rotta e lui non poteva vedere la finale di Wimbledon. Ma in special modo gli davano fastidio i suoi piedi nudi, la naturalezza con cui si era tolta le scarpe e con cui accavallava le gambe e occupava un posto sul suo divano. Sentì i propri piedi formicolare nei mocassini, dominò l’impulso di sbarazzarsene e poi comprese che tutti quei piccoli fastidi erano connessi e formavano un unico, grande, misterioso fastidio.
«Potrebbe redimermi» disse la ragazza con ironia, passando l'indice sul bordo del bicchiere. «Potrebbe aiutarmi a capire cos’hanno i poeti di così interessante, almeno finché non arriva Pietro».
«E se Pietro non arrivasse?» si sorprese a rispondere Vincenzo.
«Arriverà».
«Il suo cellulare è morto».
«Tutti i cellulari sono morti» ribatté la ragazza, e lui si rese conto che era vero. Chissà perché, aveva dato per scontato che il suo Samsung funzionasse.
Lo afferrò dal divano e controllò: lo schermo era buio, adesso. «Cristo» inveì. Un brivido lo percorse e, nonostante il caldo, si strinse nelle braccia, accarezzandosi i bicipiti. Fuori echeggiò il rombo di parecchi elicotteri. La sirena intanto si era zittita. Una macchina si fermò in mezzo alla strada, il guidatore scese e fuggì, lasciando lo sportello aperto. Una donna da qualche parte urlò. Strisce bianche solcarono il cielo sereno, vuoto e attonito.
La ragazza si alzò dal divano e posò un palmo sulla spalla di Vincenzo. «Sono sicura che Pietro sta bene» disse, e lui si sentì incredibilmente fragile e vecchio. Chinò il capo per distogliere lo sguardo dal viso della ragazza e lo posò sui suoi piedi nudi. Allora, bisognoso di sfogare la tensione, sollevò bruscamente il braccio destro e colpì il bicchiere che lei teneva nella sinistra. Il bicchiere precipitò a terra senza rompersi, e ciò che restava della menta si rovesciò addosso alla ragazza, sporcandole la t-shirt e i jeans.
«Scusami tanto» balbettò Vincenzo, indietreggiando e abbandonandosi sul divano.
«Non si preoccupi» rispose lei. Afferrò il lembo inferiore della t-shirt e la sfilò verso l’alto con una mossa rapida e aggraziata. Una coppa del reggiseno bianco era sporca e lei sfilò anche quello. I jeans erano macchiati sulla coscia destra, lei li sbottonò e aprì la lampo, lasciandoli scivolare intorno alle caviglie con un fruscio.
«I cellulari sono fuori uso e la tv idem e anche l’aria condizionata, temo, e la città sembra impazzita e anche il mondo, perciò sarà bene che noi ci rilassiamo e dimentichiamo i nostri ruoli e i nostri problemi e accettiamo di vivere in un modo diverso» disse scavalcando i jeans ammucchiati ai suoi piedi e passando il pollice sulla stoffa leggera delle mutandine.
Poi scese su di lui e lo guidò con dolcezza.