Il peso dei numeri, Giulia. Di Lucia Gaiotto

Hoppipolla porta in libreria Catalogo di donne sole, di Lucia Gaiotto. Le storie di questo catalogo sono tutte storie di donne che cercano di sopravvivere, in modi diversi, alla solitudine. 22 storie in cui esplorare le nostre ombre, le micce oscure che forse non si incendiano soltanto perché non si sono innescate le scintille giuste, quelle che farebbero saltare tutto. Ogni racconto scritto da Lucia Gaiotto si ispira liberamente a un Arcano Maggiore dei Tarocchi: 22 racconti brevi illustrati da Marie Cécile.

Cattedrale vi propone uno dei testi della raccolta, per gentile concessione dell’editore.

IL PESO DEI NUMERI
GIULIA

Dicono che siamo seicento, forse un paio di più forse un paio di meno. Ma in realtà a loro, di noi, non importa nulla. A loro importa degli uomini, non di noi e di Giulia. Giulia, se l’avessero incontrata per strada, avrebbero solo pensato che era bella; e noi nemmeno sapevano chi fossimo. A loro importa solo degli uomini, quelli scomparsi: seicento, forse un paio di più forse un paio di meno. Seicento è un bel numero, se li metti tutti insieme. Seicento automobili, seicento venta gli, seicento topi di fogna, seicento rossetti, seicento bicchieri, seicento donne, seicento uomini, seicento cadaveri. I numeri non pesano mai allo stesso modo, dipende da cosa ci metti di fianco.

Prima o poi ci siamo andate tutte, nel suo appartamento di periferia. Un po’ sgan gherato, in realtà. Ricordiamo, chi una cosa chi l’altra: un pentolino sempre sul fornello a gas, odore di cavolfiore e broccoli, tende spesse, un tavolo coperto con una cerata a fiori di scarso gusto, le piastrelle di graniglia, una poltrona sfondata con uno scialle a ricoprirne i buchi, un gatto nero talmente silenzioso da sembrare invisibile, un poster scollato con l’illustrazione di una Roma del 1600, bicchieri dal fondo spesso, un balconcino pieno di piante simile a una serra, fiori freschi – a volte anemoni, altre narcisi, più spesso margherite. Lei, però, era bellissima: fuori posto come quei fiori, elegante, vestita di nero, con un giro di perle al collo che chissà da dove arrivavano, in tutta quell’ordinaria medianità.

Riceveva su passaparola, solo persone fidatissime. Noi eravamo sempre l’amica dell’amica dell’amica che aveva saputo da un’amica. Era una raccomandazione anonima ma efficace e di requisito ne bastava uno. Quanto entravamo faceva un paio di domande, ci chiedeva se volevamo un caffè, metteva su la moka. Lei caffè niente, solo intrugli e tisane che bollivano in un pentolino. Aveva le unghie nere, il rossetto nero, il vestito nero e capelli biondissimi come ti immagini quelli degli angeli e delle vergini. Ma di vergini lì non ce n’erano, anche se molte di noi avreb bero voluto. Entravamo con il cappello o con un foulard che ci copriva il viso, ma poi capivamo che non c’era nulla da temere, che Giulia era una di noi – che quello che faceva lo faceva per soldi, sì, ma solo in parte. Perché la sua acqua la vendeva a chi diceva lei e le clienti eravamo noi: scelte dalla fortuna adesso, baciate dalla sfortuna – prima.

Giulia la sua acqua ce la consegnava in boccette tipo quelle di Lourdes. Piccole e tra sparenti, così come trasparente era quell’acqua che acqua non era. Non rivelò mai a nessuno la ricetta, le polveri che scioglieva, le quantità. La chiamava acqua perché era inodore, insapore, trasparente e limpida come i cristalli di rocca, come l’aria, come la verità, come l’acqua dei ruscelli, appunto. Dentro, però, si scoprì poi che c’erano arsenico e antimonio, in che dosi non si sa e con che cos’altro nemmeno. Era l’acqua di Giulia, un po’ come l’acqua di profumo alle rose e al gelsomino o come quei tonici per la pelle stanca. E a essere stanca, non era solo la pelle – lo eravamo tutte.

Non ci piace raccontarle a lungo, le nostre storie. Giulia lo capiva: ci ascoltava men tre mettevamo insieme due frasi, verificava giusto che ci fossero i requisiti. Un mari to violento, un amore tossico, un abuso quotidiano, il sesso non richiesto, le guance con i lividi, i polsi stritolati da braccialetti pesti. Non chiedeva come mai ci fossimo finite in mezzo, a quel matrimonio, e come mai non avessimo chiesto prima aiuto, perché non avessimo pensato di scappare quando era ancora possibile – ma poi, è mai possibile scappare da una gabbia in cui sei finita senza accorgertene? Come fai a uscirne se non sai nemmeno da dove sei entrata? Lei non chiedeva mai troppo e diceva sempre che le colpe non erano nostre. Non fino a lì, comunque. Dopo chi lo sa, c’era anche chi credeva in Dio e non sappiamo davvero come abbia conciliato le cose. In ogni caso, agimmo. Prendemmo l’acqua di Giulia, la mettemmo nella bor setta e ce ne andammo a casa – forse meno felici di prima ma sicuramente più forti. Giulia si raccomandava. Diceva che bisognava avere pazienza, mettere una goccia d’acqua o due nella minestra, nel bicchiere di vino e farlo per giorni, settimane, fino a quando la boccetta non finiva e nessuno poteva accorgersi della causa del malessere. Incidenti, malori. In quel periodo c’era la Malattia che girava di casa in casa e nessuno stava troppo a indagare per una morte di troppo. Alla fine, però, le morti le hanno contate e siamo arrivate a seicento, che in effetti messe insieme fanno un certo effetto. In ogni caso, non se ne sarebbero mai accorti se non fosse stato per la Contessa, la chiamavamo così per quelle arie che si dava e perché si credeva superiore a tutte, anche a Giulia, al punto da non seguirne le istruzioni.
Ebbe fretta, la Contessa. Versò la boccetta intera nel brodo e così fu facile, immediato, risalire al veleno.

Non ci hanno processate tutte. Alcune di noi erano già morte, altre partite, altre avevano cambiato vita e nome. Adelaide adesso ha una roulotte e viaggia per gli Stati Uniti con un bassotto vecchio e sdentato. Carmela prepara bistec che per i camionisti sull’autostrada del Sole. Luisa ha un salone di bellezza. Elvira studia fisica all’università. Giovanna ha cinque figli, ma nemmeno un marito – dove siano finiti nessuno lo sa bene. Emilia preferisce non parlare del passato e coltiva zafferano. Maria si è sposata di nuovo, con una grande festa. Una lavora a Palazzo, ma preferisce non dire il nome. C’è anche una poetessa, Irene. Se ci avessero scoperte tutte le carceri sarebbero piene. Han no stimato seicento, ma è una stima e ogni stima è di per sé una menzogna. Comunque, molte di noi dentro ci sono finite davvero: quelle delle morti più recenti, quelle che avevano più legami con Giulia. Non che importi qualcosa.

Giulia anche, ovviamente, è stata processata. C’è chi dice che l’hanno bruciata sul rogo, ma mica siamo nel medioevo e Giulia era tante cose però non una strega. Altri dicono che l’hanno presa i servizi segreti e che adesso lavora in Medioriente. Quelli con i piedi per terra parlano di carcere a vita. Noi ci dicia mo che il carcere era prima, e che Giulia lo sapeva bene perché l’aveva vissuto anche lei. Quello che è venuto dopo, dopo l’acqua e le inchieste e i processi, quella – nonostante tutto – era libertà.

Quando hanno chiesto a Giulia se si fosse pentita lei ha risposto: “È matema tica: solo matematica. I numeri non pesano mai allo stesso modo. Dipende da chi ci metti di fianco”.