di Debora Lambruschini
A nessuno è dato sapere in anticipo che tipo di bivio si sia destinati a imboccare: se si tratti di una strada principale o secondaria, oppure di una via senza uscita, dove è difficile ingranare la retromarcia; e quando lo si sa il futuro, il più delle volte, è acqua passata. (“Il progetto della casa”, p. 321)
Selenide, la raccolta d’esordio di Marta Cristofanini pubblicata da Racconti edizioni, è una gemma rara: è un progetto coeso, ha la misura dello short story cycle, la voce riconoscibile e potente, una lingua cesellata con cura, evocativa, che solo a tratti indugia un po’ troppo nella metafora e nel simbolo. È l’acqua cristallina di un torrente di montagna, attraversa età, luoghi, sentimenti diversi. È, soprattutto, il racconto di una scomparsa, quella della sfuggente Luna, che pure impregna ogni pagina anche quando non c’è. Ed è attraverso gli altri, nelle vite che ha incontrato e influenzato, che ne emerge il ritratto sfaccettato, le sue innumerevoli identità. Cristofanini racconta per digressioni e ricordi una storia di vuoti, di sottrazione, di enigmi che non possono essere davvero risolti.
Un esordio di una potenza ammaliante. Dialogare con l’autrice, dunque, è l’occasione per addentrarsi nel mistero della scrittura lì dove si compie, per parlare di riviste, di uno spartiacque tra un prima e un dopo, di maestri.
Selenide è una raccolta di racconti molto coesa che definirei un buon esempio di short story cycle. Avevi in mente un progetto di questo tipo durante la scrittura, così organico e coeso appunto? Quali sono stati la sua genesi e il suo sviluppo?
L’incontro con Emanuele (Giammarco, editore di Racconti) è stata la scintilla che ha messo in moto l’organicità della raccolta. In quella prima fase di ricerca tematica e strutturale, mi aveva chiesto senza troppi giri di parole quale fosse il mio “centro”, il fuoco originario dal quale far divampare la narrazione. Nel momento in cui mi sono lasciata esplorare dalla domanda, ho realizzato che in ben due racconti (uno edito e l’altro inedito) aveva fatto capolino con timida insistenza la stessa protagonista, a cui avevo deciso di dare il nome Luna in ricordo di un’amica amatissima. Mi sono resa conto che, oltre alla protagonista e alla sua essenza che si dispiegava tra le righe già così nitida nonostante la connaturata inafferrabilità, non potevo sfuggire alla sensazione che avessi in realtà bisogno d’indagare una tipologia specifica di dolore: quello legato alla perdita improvvisa, la sensazione di spaesamento e abbandono derivanti, con tutto l’irrisolto e il sospeso che questo genere di traumi, di ferite non cicatrizzabili, comporta. Un’infestazione nostalgica, un tormento che s’incastona nella vita delle persone che restano e con cui si trovano a dover fare i conti per tutta la vita.
Una volta individuato il motore, mi sono da subito istintivamente opposta all’idea che dovessi seguire un ordine cronologico ed esplicativo: mi era chiaro che non volessi spiegare o cercare di risolvere nulla. Per questo in Selenide Luna scompare e non ha un destino chiaro. Volevo parlare non del vuoto, ma dello spazio che ci sta intorno. Ho voluto lasciare più porte e interpretazioni aperte fin da subito, per non apporre arbitrariamente nessun punto. C’è un mistero, certo, ma non m’interessava risolverlo, nonostante abbia messo a disposizione in parte i mezzi per farlo.
Nella scrittura ho disseminato indizi, a volte dei veri e propri doppioni, tasselli ricorrenti da cercare e collocare all’interno del mosaico come nel gioco Memory, e creare così delle assonanze interiori simili a ricorrenti dejà-vu. Ma soprattutto volevo raccogliere dei frammenti e metterli uno accanto all’altro, pur sapendo che dei pezzi sarebbero comunque rimasti introvabili: mi piace pensare che la figura quasi intera, emergente, quella che si riesce a scorgere a fine lettura, sia una creatura anch’essa un po’ espressionista, mutaforme, che cambia a seconda della prospettiva o della combinazione degli elementi, come la protagonista. Perché non esiste una forma giusta o corretta attraverso cui leggere l’identità di una persona e le sue relazioni nel mondo. Esistono i ricordi che uno ha, le epifanie relative, ovvero momenti trascurabili per la storia parallela di qualcuno e che invece all’opposto diventano cardinali e fondativi per qualcun’altro. M’interessava rendere in ogni racconto questa sensazione d’incompletezza, di ambivalenza, di assoluta parzialità: siamo tutti conoscibili solo a spicchi, a rotazione, a fasi lunari. La soluzione all’enigma dell’identità di Luna come quella di chiunque altro non esiste, oppure ne esistono diverse, contemporaneamente.
Questo è il tuo libro d’esordio ma hai già una certa esperienza con la scrittura, data dalla lunga frequentazione del mondo delle riviste. Cosa ne pensi del rapporto tra racconto, rivista, lettori? Come incide, se incide, sulla scrittura e sulla tua in particolare?
Il mondo delle riviste l’ho scoperto nel 2020 quando al termine di un corso sul racconto un insegnante ospite ci aveva suggerito che per mettere alla prova la nostra “muscolatura” da raccontist* cercare di pubblicare sulle riviste poteva essere un buon inizio. Da lì ho cominciato a cercarle, a leggerle. Mi sono chiesta in una prima fase quale fosse la direzione in cui migliorare senza snaturare il tipo di scrittura e di storie che volevo raccontare. Come in ogni ambito creativo, dall’altra parte ci sono comunque delle persone, con determinati gusti e aspettative, a cui ciò che abbiamo da dire può in definitiva interessare o non interessare, al di là del giudizio sulla qualità di quel che si propone. Credo sia esperienza comune quella per cui racconti non piaciuti ad alcune riviste siano piaciute ad altre, o che la stessa rivista che aveva rifiutato un racconto poi abbia deciso di pubblicarne un altro mandato in un’occasione successiva. Benché sia incredibilmente stimolante leggersi a vicenda con chi scrive e/o edita sulle riviste, scambiandosi feedback, talvolta si ha la sensazione che avvenga proprio solo questo la maggior parte delle volte, e che raramente ci sia una partecipazione attiva spontanea proveniente “dall’esterno”, per cui il risultato è un ambiente tendenzialmente a circuito chiuso, per gli addetti ai lavori, che di per sé non è qualcosa di negativo, anzi, nel mio caso ha creato un’opportunità di cui non sarò mai grata e felice abbastanza. Ma si sa che in Italia purtroppo le statistiche sulla lettura parlano chiaro e sono demoralizzanti rispetto ad altri paesi per cui ecco, le riviste fanno parte di questo stesso settore semi-sommerso, senza contare che si basano sul lavoro per la maggior parte volontario e non retribuito di editor, scrittor* , social media manager e illustrator*/fotograf*. La rivista di per sé è un piccolo miracolo testardo, come la maggioranza dei progetti culturali in questo paese.
È il tuo libro d’esordio, dicevamo, davvero notevole. Vorrei parlare con te del prima e del dopo, di come funziona la tua scrittura, se adesso è cambiato qualcosa.
Selenide è stato davvero un viaggio immersivo intensissimo, che ho vissuto sott’acqua, in apnea, spingendomi con le pinne sempre più in profondità, senza avere mai avuto la sensazione che mi mancasse l’aria o che la gravità mi schiacciasse sul fondo. Una volta delineata la struttura portante del singolo racconto, avendo quindi ben chiaro dove volessi arrivare e in che modo, la stesura fluiva poi di conseguenza, senza particolari intoppi. Forse questo è dovuto un po’ allo spirito avventuroso delle prime volte. Non hai precedenti e quindi non ci sono confronti. Non ci sono proprie rotte su cui allinearsi o mappe da riprendere in mano per il viaggio successivo. Ora in me c’è un prima e un dopo, e questo porta un cambiamento, un nuovo equilibrio – credo – tra consapevolezza e introspezione. Sono curiosa di scoprirlo.
Quali sono i tuoi maestri di riferimento e che cosa in generale nutre la tua scrittura?
Amo moltissimo chi fa un uso sapiente del meccanismo del ricordo, dell’epifania: i racconti di Antonio Tabucchi (primo tra tutti “Piccoli equivoci senza importanza”) e la Recherche di Proust rimangono tra le mie letture preferite, a cui torno mentalmente sempre con la stessa, identica emozione. Quella loro straordinaria capacità di sovrapporre attimi appartenenti a spazio-tempi differenti, facendoli coesistere in una forma d’implacabile eternità che assomiglia a un destino, e in cui passato, presente e futuro sono visualizzabili nello stesso istante, un po’ come accade al protagonista di 2001: Odissea nello spazio nei minuti finali del film. A pensarci bene in effetti, la loro scrittura ha qualcosa di profondamento visivo, cinematografico, il che rende possibile durante la lettura immaginarsi delle vere e proprie inquadrature e sequenze.
Le figure fantasmatiche che abitano i loro racconti/romanzi ci parlano spesso poi di un presente quasi decentrato, dove l’azione determinante per la ricostruzione degli eventi è già avvenuta e quello che rimane da fare non è altro che un lavoro di archeologia esistenziale, dove è però sempre e comunque la vita, la sua folle festa, a dominare le atmosfere.
Per la sua densità e concretezza amo anche Cesare Pavese, mentre lo svelamento dello straordinario nell’ordinario non può che appartenere agli incantesimi di Virginia Woolf e Katherine Mansfield. Pensando invece a scrittrici più contemporanee, sono rimasta travolta dalla scrittura analitica e allo stesso tempo suggestiva di Claudia Durastanti, Madeleine Thien e Margaret Atwood. Ammiro la loro capacità di andare fino in fondo, a fari accesi nella notte, eppure dando l’impressione che la vera luce, il vero rogo, sia sempre un po’ più nascosto, un po’ più in là, e che questo non tolga affatto emozione e vigore alle loro narrazioni.
Ragioniamo un attimo su stile e forma, su come si intrecciano alla storia, sul sistema di immagini e simboli che la attraversano. In particolare mi piacerebbe soffermarmi su una certa “corporalità” che ho avvertito in questi racconti, fatti di carne e sangue.
Fin da bambina ho seguito corsi di danza e teatro, e negli anni ho finalmente imparato che tutto parte dal corpo: è l’ancoraggio consapevole alle sue parti a rivelare lo stato reale delle nostre emozioni e che lo rende di conseguenza lo strumento migliore per capirle, catturarle, incanarle, esprimerle, o almeno provare a farlo. Credo che l’aver avuto negli anni molto contatto con questa parte di me dedicata a capire e sentire il corpo performativo, a lavorare con esso e su di esso, abbia creato una via preferenziale che in qualche modo si è riflessa anche nella scrittura. I racconti di Selenide si prestano alla fisicità nello stile e nella forma perché parlano di carne e di sangue come ben riassumi tu, di corpi che testimoniano il passare del tempo, cambiano, si trasformano, nella realtà o nell’immaginazione: ci sono molti momenti liminari legati a potenziali metamorfosi che possono generare aspettativa, desiderio, terrore, repulsione, gioia. E penso che in questo il corpo femminile, destinato a mutare a livello biologico anche solo per l’apparire del menerca, sia particolarmente esemplificativo.
Hanno inoltre una grande importanza gli oggetti, il loro simbolico manifestarsi in determinate situazioni: ho riflettuto a posteriori su questo dal momento che è un’operazione che ho fatto a un livello più inconscio, e ho pensato che si tratti sempre, un po’ come per il corpo, di un segno, di un lascito che appartiene alla dimensione della testimonianza, e che ho ricollegato all’aspetto sacrale della reliquia, del feticcio. Scampoli di narrazioni orali che, in quanto “sopravvissuti” alla storia, si oggettivizzano letteralmente per tramandarla.
In un racconto citi l’ipotesi di Sapir-Whorf sulla relatività linguistica, spiegandola in questo modo: «Le parole che usiamo, il modo in cui parliamo influisce sul nostro pensiero e sul nostro modo di concepire la realtà». Oltre a essere una teoria molto interessante che apre a molteplici spunti di riflessione mi piacerebbe qui ricondurla alla scrittura, alle parole che creano la realtà della scrittura appunto e su quanto profonda sia la responsabilità di quelle che scegliamo.
La reciprocità tra linguaggio e mondo è una teoria che studiando filosofia del linguaggio mi ha subito affascinata e benché la Sapir-Whorf sia stata, a sua volta, relativizzata nel tempo e negli studi, ha avuto il merito di sottolineare l’impatto cognitivo che il mondo può avere sulla nostra varietà di linguaggio e viceversa, e di quanto la geografia e la cultura di appartenenza possano a loro volta influire. D’altronde anche Wittgenstein sosteneva che i limiti del nostro linguaggio sono i limiti del nostro mondo, quello che ci costruiamo a livello esperienziale e che siamo in grado di sillabare.
Il relativismo linguistico porta con sé un discorso sull’interconnessione e la permeabilità dei sistemi di cui è necessario ricordarsi soprattutto oggi, in cui le parole offensive possono diventare armi delle quali è giusto essere considerati responsabili (basta pensare agli hate speech online) o in cui l’AI generativa (ChatGPT e affini) rende più evidente il rischio che corriamo nel delegare la comprensione e la creazione linguistica, di fatto impoverendo il nostro modo di guardare al mondo, di saperlo vedere ed elaborare. E meno sfumature sapremo riconoscere e differenziare, meno parole e costruzioni sintattiche avremo a disposizione per raccontarlo e analizzarlo, decolorandolo ulteriormente, in un circolo vizioso che non penso sia allarmista definire rischioso. Creare è saper vedere ma è anche saper scegliere, e la scrittura è uno di quei medium che ben rende l’idea di questa sinergia: scegliere con attenzione una parola rispetto a un’altra è una forma d’intelligenza, di affermazione riflessiva e attiva, a cui non dovremmo voler rinunciare con leggerezza, riducendola a un mero strumento comunicativo utile a raggiungere determinati obiettivi il più velocemente possibile. Questo è un utilizzo capitalista della scrittura, del tempo che siamo disposti a dedicare ad essa o alla comprensione di un testo, ed è qualcosa su cui dovremmo cominciare a riflettere in modo più strutturato e urgente.
Altro aspetto molto interessante di questi racconti è l’uso peculiare del tempo, del ricordo e della sua manipolazione, delle digressioni: ecco, è proprio dentro le digressioni che avviene la storia. Perché questa scelta, questo uso del tempo, quale il significato profondo?
Credo che l’utilizzo delle digressioni temporali offra una libertà emotiva sorprendente: mi capita di provarla da lettrice e mi sono accorta che anche scrivendo quelle sono le parti dove realmente sento che sta accadendo qualcosa, laggiù. Le sovrapposizioni spazio-temporali veicolate in primis dalla memoria più che correre parallele o scivolare dentro parentesi tonde invadono la storia principale, nel tentativo di generare immagini che sembrano esulare dal presente narrativo mentre paradossalmente lo vogliono rafforzare. In Selenide, non solo Luna ma anche tutte le altre e gli altri protagoniste/i alla fine si conoscono per rifrazione. La rappresentazione del tempo cerca di rendere evidente questo aspetto distorsivo: i personaggi stanno vivendo un qui e ora ben definito, eppure sembra sempre che le svolte determinanti e significative della loro vita siano da un’altra parte, in un’altra stanza, in un’altra epoca, nonostante continuino a pulsare e a sanguinare, rimanendo il cuore della loro esistenza. Si tratta di un tempo che non esiste più e che, in realtà, non ha mai smesso di esistere, ed è come se tramite la digressione lo realizzassero pienamente.
Luna, protagonista potentissima della raccolta, ma quasi mai presente sulla scena. Mi ha immediatamente fatto pensare alla Sofia di Paolo Cognetti. Come se volessi abbandonare la rappresentazione onnipresente dell’io, dell’autoreferenzialità (tanto delle nostre vite che della nostra letteratura contemporanea) per raccontare l’individuo e le sue innumerevoli sfaccettature attraverso un altro modo possibile, lo sguardo dell’altro. Che è inevitabilmente parziale e ci mette di fronte a un certo grado di imperscrutabilità delle persone che abbiamo accanto.
Assolutamente sì, questo è stato l’intento e sono felice nel caso in cui ci sia riuscita almeno un poco. Come ti dicevo all’inizio rispondendo alla tua prima domanda, m’interessava parlare dello spazio intorno al vuoto e non del vuoto stesso. Circumnavigare l’assenza, cercando di non allontanarmi troppo. Sofia ce l’ho ben presente, amo moltissimo Cognetti e la sua scrittura, e nell’elaborare l’architettura della raccolta ho temuto si pensasse che volesse assomigliarle troppo. Ma poi mi sono resa conto che stavo andando in un’altra direzione, forse più disordinata, ma vicina a quella frantumazione e a quella pluralità che tramite Luna stavo cercando di esplorare. Il punto è: chi è la reale protagonista di Selenide? Lei, l’eterna assente onnipresente, o tutti gli altri personaggi che le hanno orbitato intorno e mai smetteranno di farlo? Quanto siamo composti, noi, dei frammenti degli altri? Ancora, non esiste soluzione, o ne esistono moltissime, e sono tutte corrette.