Botho Strauß, l’ultimo erede di Benjamin e Adorno

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Perseverare in una strada a senso unico

 Botho Strauß, l’ultimo erede di Benjamin e Adorno

Io sono – significa che sopravvivo

in una bolla d’aria come il minatore nella buca inondata.

Botho Strauß

di Andrea Cafarella

La lingua è la più eloquente delle caratteristiche di una cultura, di un popolo. Per questa ragione cerchiamo nella letteratura dei popoli antichi le tracce per comprenderne la storia e la loro conformazione in società, nella Storia. La storia, d’altronde, è letteratura ed è fatta di lingua. Le lingue – complessi sistemi di comunicazione attraverso “segni” condivisi – sono il frutto ultimo della peculiarità che ci distingue dagli altri animali. La lingua, in fondo, è il nostro tratto caratteristico. L’essere umano è la lingua. 

Pertanto, vi sono, all’interno di ogni sistema linguistico, delle tracce particolari del sistema culturale di riferimento. Sono dei marchi, delle impronte che ci possono aiutare a comprendere profondamente alcune comunità, alcuni popoli, persino altri singoli esseri umani che, vivendo in una lingua differente dalla nostra, sono diversi in modo assoluto e quasi cromosomico. Cosicché per comprendere un essere umano che parla – e vive – una lingua X, facendo noi riferimento invece a una lingua Y, dovremo fare uno sforzo di avvicinamento a tutto un sistema culturale X. Non potrà bastare esprimerci in una lingua Z o affidarci a qualcuno che possa per noi trasporre i significati delle parole della lingua X nella nostra lingua Y. E questo è, in linea generale, il problema e la sfida della traduzione, soprattutto quella letteraria.

La mia avventura nel cuore della lingua tedesca inizia esattamente da questa idea, prende l’abbrivo da questo ragionamento. Ho sempre dato precedenza alle lingue neolatine, spagnolo e francese. Solo successivamente ho approcciato l’inglese e ho sempre tenuto da parte il tedesco (come pure tante altre lingue). Fino a scegliere, nonostante la vicinanza geografica e le conseguenti facilitazioni logistiche, di non visitare mai la Germania, se non di passaggio. E questo ha chiaramente influito anche sulle mie letture.

Tutto ciò fino all’anno passato. 

La storia più recente della Germania e di quei popoli immersi nella lingua tedesca, come tutti sappiamo, è centrale nella più generale storia europea ed occidentale dell’ultimo secolo. Questo comporta una produzione letteraria in lingua tedesca che ha dell’incredibile e sulla quale fondiamo le basi del tempo che stiamo vivendo e di quanto ci attende domani. Basti pensare a tutta la filosofia di lingua tedesca, oppure al solco lasciato da autori come Kafka, Walser, Karl Kraus; la poesia di Rilke, Hugo von Hofmannsthal o i drammi di Brecht. E si potrebbe continuare per pagine e pagine soltanto elencando i loro nomi. Potrebbe essere una bellissima poesia. 

È per questa ragione che ho scelto di analizzare – per comprendere e vedere – le mie resistenze verso questa lingua apparentemente così lontana, nella quale hanno vissuto, però, alcuni degli autori che più mi hanno segnato, nonché i fautori della letteratura più straordinaria della nostra epoca, sulla quale si fonda il nostro pensiero, il nostro presente. Uno per tutti: Friedrich Wilhelm Nietzsche. L’ho fatto poiché desidero superare i miei blocchi, gli stereotipi che mi allontanano da quei nomi a prima vista impronunciabili. L’ho fatto nel tentativo di avvicinarmi a Zarathustra, a Josef K. e a Simon Tanner. Per capirli meglio.

Per iniziare questo percorso mi sono rivolto ad amici che vivono da tempo nella lingua tedesca e ho seguito le tracce di un autore immenso e sconosciuto, Wolfgang Hilbig, fino a Berlino [di questo primo passo e della questione della ‘cortina di ferro’ verso la lingua tedesca e le sue parenti più prossime, ho già parlato qui]. Adesso ho iniziato a studiare il tedesco – con pochissima costanza – ma spero di poter leggere, presto o tardi, le poesie di Hölderlin in lingua originale. Prima che questo – lontanissimo – momento arrivi, tuttavia, ho deciso di affidarmi nuovamente a una delle germaniste più importanti in Italia. Ed è stata lei a presentarmi Botho Strauß, uno dei massimi scrittori tedeschi ancora in vita. Un vero e proprio monumento alla lingua tedesca.

 

«Mi sono trasformata (linguisticamente) in questo signore», così inizia l’e-mail nella quale Agnese Grieco mi ha suggerito la lettura dell’ultimo libro di Strauß pubblicato in Italia dal Saggiatore: Il perseverante. Poiché ogni cultura ha una sua lingua, anche ogni autore che si rispetti, creando un mondo, un universo a sé stante, ha una sua propria lingua. Una versione estremamente personale – autoriale, appunto – della lingua nella quale vive e scrive. E per essere tradotto come si deve il traduttore dovrebbe fare proprio quanto ha fatto Agnese in questa sua encomiabile ultima prova: trasformarsi (linguisticamente) nell’autore stesso.

In questo caso, mi avverte subito Agnese, ha avuto una grande responsabilità, «più che in altri casi», «dato che questo libro nasce e muore solo nella lingua (e se essa fallisce, il libro deve finire nel cestino)». Destino che alcuni testi straußiani, tradotti in italiano, hanno malauguratamente dovuto subire in passato. 

«Botho è un’anima romantica ed elitaria (nella vita un signore che ha appena compiuto 75 anni, piuttosto imponente nei modi di fare, galante, sensibile come un bambino o come una mimosa, come dicono i tedeschi)». Leggendo queste parole penso solo che un uomo così non può che essere un autore altrettanto imponente e sensibile. Uno che nella lingua costruisce la sua lingua con grande sapienza e immensa profondità. 

Per farci un’idea della veridicità di questa intuizione ci basterà analizzare i titoli di due opere fondamentali di Strauß (quelle di cui mi limiterò a parlare in questo testo): L’inizio perduto (Mimesis, 2013) e l’appena pubblicato Il perseverante. I titoli originali sono due parole di conio straußiano: Beginnlosigkeit (inventato «per analogia e contrasto con “Endlosigkeit”, ossia infinitezza o immensità – ci suggerisce Eugenio Bernardi nella sua postfazione) e Der Fortführer (letteralmente: il continuatore, il prosecutore). Scopriremo, proseguendo la lettura, quanto questa minuziosa attenzione per la parola possa sprigionare nuovi significati e generare effettivamente una nuova lingua: un intero universo. 

Il problema adesso torna a galla: come rendere in italiano una tale intraducibile ricchezza e complessità. Scegliere la magnifica traduzione “Il perseverante” significa cogliere ed esprimere qualcosa di diverso, qualcosa di più del semplice e letterale “colui che continua” qualcosa. Perseverare ha un significato molto più specifico e pregno di rimandi. C’è anche – almeno io lo sento così – qualcosa di disperato e insensato nell’atto di perseverare. È come un atto di fede, perseverare. 

Restituire al lettore italiano una profondità di significato così articolata e pregnante, vuol dire darci la possibilità di posare i nostri occhi sulla potenza della lingua originale. Leggere il tedesco, in italiano. Questo, in traduzione, significa perseverare. Per questo, seppure Il perseverante di Botho Strauß sia anche, inevitabilmente, La perseverante di Agnese Grieco, per riuscire a esprimere una tale concordanza di significato è importante, oggi più che mai, lavorare sulla traduzione in questo senso estremo e disperato, perseverare nella comprensione dell’altro, fino a trasformarsi.

 

Il pensiero “sregolato” di Botho Strauß

Botho Strauß è un autore, nato nel 1944, di cui purtroppo, per ragioni anche e soprattutto linguistiche, abbiamo davvero pochissimo in lingua italiana e il suo nome potrebbe non dire niente al lettore, nonostante sia considerato, in patria, già tra i più importanti autori viventi. 

Muove i suoi primi passi nel contesto del collettivo Schaubühne, accanto al regista Peter Stein. E si farà un nome nella Berlino Ovest come drammaturgo. Dal suo esordio con Gli ipocondriaci alla Trilogia del rivedersi, i suoi testi teatrali lasceranno un segno profondo nella grande drammaturgia del dopoguerra. Tuttavia, fin dall’inizio, a causa dell’uso peculiare della lingua e dei fortissimi riferimenti contestuali, le sue pièce avranno davvero poche rappresentazioni in Italia e restano un cimelio per i più esperti del settore. 

Alcuni dei suoi libri vennero tradotti in italiano nella preziosa e indelebile collana «Prosa contemporanea» che Franco Cordelli diresse per Guanda: Coppie, passanti (1984), La sorella di Marlene (1985) e La dedica (1982), dopodiché il silenzio. 

Nel frattempo, la sua fama cresce esponenzialmente, seguita da una bibliografia copiosa. In Italia, se escludiamo La catena delle umiliazioni (Leonardo, 1992), pubblicazione alquanto debole e insufficiente, non abbiamo notizie di Strauß fino al 2013, quando appare nelle librerie L’inizio perduto. Un nuovo inizio senza inizio, insomma, un fatto che mi sembra più che significativo. 

Sarà finalmente nel 2015 che il Saggiatore, tramite la sua “portavoce”, Agnese Grieco, prende in carico l’opera di Strauß, pubblicando Origine (2015) e Mikado (2016). Due libri molto diversi e molto simili al contempo che, assieme a Il perseverante, cominciano a darci un’idea dell’opera di questo autore multiforme e “sregolato”. 

Origine è un libro che ha scritto per suo padre, proviene dal silenzio, dalla voragine che ha creato la morte del genitore quasi quarant’anni prima. È un libro commovente, dalla densissima forza espressiva. Mikado invece è una raccolta di racconti in piena regola. Quarantadue, come le stecche del gioco di cui porta il titolo. Da estrarre delicatamente, rischiando di muovere tutti gli altri e perdere, quindi, il gioco. 

«Tutto può crollare di colpo in queste microstorie di sottrazioni, calcoli infinitesimali, scommesse ardite e fallimentari. “Silhouette, istantanee, passanti, profili che scompaiono, quelli solo citati e quelli solo messi in lista, tutti pretendevano una vita propria…”». (Enzo Di Mauro, «Alias», il manifesto, 16 ottobre 2016).

Il dato paradossale è che questa descrizione potrebbe essere usata per descrivere gran parte dei libri di Strauß. Ognuno con le sue peculiarità, con il suo vestito, muovendosi su un tema o verso una direzione, ognuno di questi libri è fatto di «microstorie di sottrazioni», di frammenti articolati in mosaici caleidoscopici che possono apparire, a prima vista, confusionari. Bisogna guardare meglio, in questo caso.

Nel saggio che fa da postfazione a L’inizio perduto, il grande germanista Eugenio Bernardi (voce italiana, tra gli altri, di Thomas Bernhard) definisce questa sua tendenza: «pensiero “sregolato”». Richiede una tecnica che forma spesso una «struttura per brevi tratti di racconto, citazioni, impressioni di lettura, allusioni, note di tipo diaristico, affermazioni sospese». Il pensiero “sregolato” di Botho Strauß – che troviamo alla sua massima espressione ne Il perseverante – pertiene a una modalità espressiva della lingua stessa – e non solo strutturale – che segue un dipanarsi del discorso «restio all’organizzazione, attratto dalla molteplicità dei punti di vista, e nello stesso tempo istintivamente sostenuto da un concetto di persistenza, permanenza, stabilità». 

E alcuni dicono che noi emergiamo da un mare di storie,

in cui di nuovo sprofonderemo. Ci si accorge tuttavia che

sempre più qualcosa viene alla luce, si vede sulla fronte e 

scorre come una didascalia di notizie sullo schermo. E molte 

cose vengono dette senza che le si capisca: cose che un 

tempo tutto sapevano. Gli esseri fatti di spazzatura. E il loro 

desiderio di comprendere assomiglia alla fame di fuoco di 

un’anima infiammabile. (da Il perseverante)

Il perseverante è diviso in due parti: «Tra adesso e attimo» (costituito da quattordici sezioni numerate) e «Il perseverante» (una singola sezione, molto breve, che chiude il testo). I frammenti che lo compongono sono organizzati in versi e disallineati nella pagina. In ognuna delle sezioni della prima parte, la più consistente del libro, veniamo avvertiti della loro imminente fine da un segno grafico cui seguono gli ultimi brani. Le sezioni non hanno tra loro una concordanza, un tema che le lega, una successione. Si muovono, però, tutte sotto lo stesso sole, espresso nell’epigrafe (che ha ispirato il titolo di questa prima parte) tratta da Meister Eckhart: «Un pezzo di tempo/non è né il giorno di oggi/né il giorno di ieri./Un attimo invece racchiude/il tempo tutto». In pratica ognuno di questi «attimi» li racchiude tutti. Ognuno dei passi e delle indentazioni (che anche Bernardi, parlando de L’inizio perduto, sottolinea come altamente significative: «quel bianco può essere una trappola, offrire pensieri da proseguire per conto proprio») ogni momento del testo tende ad avere un significato assoluto, o meglio: a provocarlo nel lettore. 

Quel «mare di storie» che Botho Strauß mette in scena, potrebbe sembrare insensato. Un magma caotico senza scopo. «Si potrebbe ora parlare pressoché di tutto concludendo» ci suggerisce lui stesso verso la fine del libro. Eppure «ci si accorge tuttavia che sempre più qualcosa viene alla luce», come una soluzione, una fiammella alla quale anelare costantemente per tirare fuori da quel mare gorgogliante di «notizie sullo schermo», una soluzione. Un groviglio nel mezzo del quale è possibile scorgere una verità, la Verità, nascosta in quelle «cose che un tempo tutto sapevano».

  

L’eredità, l’Origine – la Strada a senso unico

Capiamo subito che descrivere questo libro (e venderlo, di conseguenza) risulta impresa ardua. Nel mare di “romanzi” nel quale siamo immersi. Eppure, paradossalmente, come vedremo, esso rappresenta la tradizione più pura. 

«Con inopportuna approssimazione si potrebbe evocare – per analogia tecnica e strutturale – lo «Zibaldone» leopardiano. Mentre per una maggiore equità si dovrebbero ricordare certi diari di poeti-scienziati del primo Ottocento tedesco, mossi dalla «libido scientiae» e magistrali nella loro manieristica farraginosità (sia lecito pensare a Novalis o, prediligendo la finzione, a Faust)».

Guglielmo Gabbiadini, parlando de L’inizio perduto (in questo pezzo uscito su Doppiozero) suggerisce un accostamento – «con inopportuna approssimazione» – allo Zibaldone. Accostamento che viene ripreso anche nella bandella in cui si presenta il testo nell’edizione saggiatoriana de Il perseverante. E che anche Agnese Grieco ha utilizzato per descrivermi il libro. Tuttavia, si tratta pur sempre di un’“approssimazione inopportuna” che serve solo a darcene subito un’idea strutturale. Bisogna dire che le annotazioni straußiane vogliono cogliere una visione ampia, fatta da punti di vista diversi e disparati, sono «contro l’unità, l’uno e l’unicità; a favore di una dispersione proliferante – le coordinate ideologiche che orientano il discorso straußiano sono palesi ad ogni sua pagina». E, secondo me, qui Gabbiadini coglie davvero l’eredità di Strauß, quando cita Walter Benjamin e il suo «Il narratore». A proposito de Il perseverante, in luogo dello Zibaldone, si potrebbero citare infatti, per esempio, Minima moralia o altri testi adorniani (come suggerisce anche Enzo Di Mauro nel suo succitato «Botho Strauß. Adorniano, letteratura ingovernabile»), oppure la Strada a senso unico di Benjamin, un testo eterogeneo, una wunderkammer postmoderna della Berlino di inizio secolo, «giudicata dal filosofo Ernst Bloch come un autentico “bazar” filosofico sull’esempio dello “stile di pensiero surrealista”». 

Adesso possiamo avere un quadro più completo.

Il pensiero “sregolato” di Botho Strauß, altro non è che il pensiero surrealista, in lingua tedesca e, in quanto trasformato in un’altra lingua e filtrato dalla voce di Strauß, risulta pregno di quei tratti che coinvolgono Wittgenstein come Hitler. Heidegger come Horkheimer. I suoi “personaggi” – o meglio: i suoi punti di vista –vedono il nostro mondo dai nostri stessi occhi – in quanto siamo noi stessi – e ce lo rigettano indietro in forma di immagini pulsanti di vita e piene di tutti questi significati combinati in un abbaglio che si staglia sulla marea di dettagli della quotidianità. 

D’altronde lo confessa lui stesso, nelle prime righe della seconda parte de Il perseverante. Scrive: «Siamo il perseverante – oppure non esistiamo». Torna a capo, lasciandoci quello spazio bianco di cui si diceva prima e specifica: «Il poeta persevera nel solco tracciato da i poeti che lo hanno preceduto». Pur senza un inizio ma con una strada a senso unico da dover percorrere a tutti i costi – perseverandovi con la costanza dell’«autore-eremita», del credente, dell’impavido brillante prosecutore di quella illustre tradizione che Wolfram Eilenberger ha denominato «degli Stregoni».

 

Dall’uccidere l’inizio al perseverare fino alla fine 

Uccidere l’inizio significa trasmettere un comando “enzimatico” attraverso l’organismo complessivo del pensiero, soffocare sul nascere ogni formarsi di un concetto collegato a un elemento iniziale…in qualsiasi punto della coscienza deve esistere tutto. (da L’inizio perduto)

Come possiamo vedere e potremmo leggere, aprendo delicatamente Il perseverante, quella di Botho Strauß è una filosofia coerente che si è sviluppata negli anni attraverso questi suoi libri ibridi, pieni di storie di vita, teorie, aforismi, pensieri slegati, critiche selvagge, momenti minuscoli e osservazioni infinitesimali. Possiamo trovare tutto in una singola frase. E ogni frase tende a contenere tutto in un lampo di comprensione. Poiché l’inizio non esiste, in ogni passo è condensato tutto il percorso. 

Dobbiamo prenderci carico di questa locuzione in modo “enzimatico”, quasi ontologico: «Non è ipotizzabile che nel primo secondo di vita in noi ci sia qualcosa di essenziale che non sperimentiamo» scrive ancora ne L’inizio perduto, «È l’essere-tutto-nello-stesso-momento l’esperienza da cui proveniamo». Leggendo una frase del genere ci potrebbero venire in mente le filosofie più diverse. In questo solco, Buddha e Einstein si compenetrano. È una frase imperfetta, chiaramente. Poiché conserva un’ambiguità, un punto di vista personale, presuntuoso anche. «Piuttosto imponente nei modi di fare», come diceva Agnese. Strauß è un autore con il quale non si può essere d’accordo su tutto. Eppure, il disaccordo che genera la parola di Strauß è un disaccordo prolifico, che ci fa pensare. 

A un certo punto, ne Il perseverante, parlando di Eureka di Edgar Allan Poe, sembra come volerci spiegare, per analogia, il senso del suo testo, suggerirci una strada. Lo analizza partendo dall’inizio: «l’autore annuncia nella prefazione che nel libro verrà risolto il mistero dell’universo». Che, se vogliamo, in un modo decisamente elegante, che affascina molto, è esattamente quello che prova a fare Strauß. «Nel romanzo tuttavia non viene presentata né una teoria né la soluzione dell’enigma del mondo. Piuttosto viene affastellata una quantità incontrollata di idee, dimostrazioni e speculazioni, in mezzo a cui, probabilmente, una soluzione è mescolata in modo così poco identificabile come l’ago nel pagliaio». Questa, invero, è una puntuale descrizione dei suoi stessi libri, pensandoci. «Anche se nascosta tra le righe, da qualche parte la soluzione, come promesso, deve ben essere indicata e spiegata! È anche possibile che nella sconfinata indagine in cui si perde il romanzo la soluzione sia stata, in un dato passo, appena accennata per poi, in seguito, venire alla luce in tutto il suo stupendo rigore formale». Qui ironizza, si comporta da lettore. Strauß sembra quasi pretendere, assieme a noi, che nel libro di Poe, come promesso, debba esserci una Verità, espressa in termini scientifici e comprensibili, divulgativi. Eppure, non deve essere semplice trovarla, quindi per incoraggiarci Botho Strauß si rivolge direttamente a noi, «Abbi pazienza!» esclama. E continua a dare altri indizi, «è stata forse sistemata in una parabola, che facilmente leggendo si sorvola» oppure «addirittura è stata inserita quale merce teoretica di contrabbando priva di dichiarazione». Non ha importanza «Cercala! – grida tutto il libro. Cercala!».

In questo senso, l’autore è “il perseverante” ma anche il lettore deve essere “il perseverante”. Questo è un libro da leggere con l’attenzione di un archeologo. L’apertura mentale alla diversità di un antropologo. La cieca pervicacia di un alchimista.

Leggere Il perseverante significa diventare un inseguitore, un lettore a caccia. «Come se dovesse sbarazzarsi di un inseguitore, egli schizzava fuori da sé spirito impenetrabile, come fa il polpo con la sua nuvola di inchiostro. Non vuole essere né compreso né riconosciuto, vuole solo restare protetto». Non è facile – e non deve essere facile – scovare il polpo-Botho in mezzo a quel mare sterminato di parabole, di racconti brevissimi, lampi di genio, analisi concettuali o puro manierismo. Frasi che lasciano il fiato sospeso e per le quali bisogna chiudere un attimo gli occhi e sentire lo spazio bianco come una pausa, un momento di stasi prolofica. 

Come questo frammento: «Quando quello che non c’è, cancella tutto quello che c’è, quando per esempio una persona di cui senti la mancanza riempie tutto il tuo presente più di quanto potrebbe mai fare la sua presenza» (da L’inizio perduto). 

Qui vediamo il vero Botho Strauß, quella sua sensibilità, come di mimosa. «Il paradosso del testo intimo è la sua metamorfosi in una stoffa non trasparente che copre la nudità dell’autore», si faccia tuttavia attenzione, coprire significa velare o ri-velare, velare due volte. Per rivelare la nudità-verità – la soluzione di cui parlavamo prima – bisogna che essa sia ri-vestita di quella stoffa non trasparente, ovvero: il mare di storie di cui siamo fatti e di cui è fatto il mondo, la lingua. Solo così avremo la possibilità di denudarla. E per svestire la lingua e svelare la Verità, bisogna cercarla, bisogna essere lettori attivi e curiosi, saltare le pagine e tornare indietro, e leggere poco a poco, e godere del silenzio. Questo è un libro che bisogna leggere lentamente, meditando, meditando della vita offesa, perseverando nella ricerca – cogliendo i gerundi leopardiani e riempiendoli del suo infinito, in una prospettiva adorniana, che guardi alla vita come a un’infinita catena di attimi che racchiudano, ognuno, «il tempo tutto». Ognuno, tutto.