Solo sole, un racconto di Danilo Tumminello

Cattedrale è orgogliosa di ospitare due tra i tre vincitori del premio Match Point: il premio dedicato ad autrici e autori italiani residenti nel Regno Unito. Lasciamo la parola a Marco Mancassola, tra gli ideatori del Premio, per presentarvi il primo racconto pubblicato sulle nostre pagine.
Potete leggere l’altro racconto vincitore qui!

Match Point è il titolo della chiamata letteraria organizzata dall’associazione londinese Il Circolo in collaborazione con Londra Scrive, il programma di scrittura fondato dal sottoscritto. La chiamata era per racconti scritti in italiano da autrici e autori residenti nel Regno Unito: per la prima volta, una piccola capillare mappatura di ciò che italiani e italofoni scrivono da questa parte della Manica.
La suggestione sportiva del titolo serviva a delimitare un tema – storie di ambientazione sportiva oppure, a livello più metaforico, storie che avessero a che fare con un “punto decisivo”, momenti in bilico, decisioni da prendere. Nell’atmosfera inquieta del Regno Unito di questi anni, ci è sembrata una suggestione interessante.
I tre vincitori, premiati in una serata all’Istituto Italiano di Cultura di Londra, hanno ricevuto un riconoscimento in denaro e la possibilità di un lavoro di editing per rendere i racconti ancora più tersi.

Sono felice ora di presentare “Solo sole” di Danilo Tumminello: un racconto scritto con sapiente economia, una breve parabola sul chiudersi e sul riaprirsi, una narrazione che lascia addosso qualcosa di caldo e grato.

Marco Mancassola

Solo sole
di Danilo Tumminello

Un raggio di sole mi puntò un occhio. Riconobbi a stento le forme della stanza. Il soffitto alto, a destra il muro con le fotografie, davanti a me la portafinestra con la serranda mezzo abbassata.
Lentamente riuscii a mettermi seduto sul letto. Toccai la benda sulla mano, guardai la portafinestra. La luce entrava da fuori, spezzata in linee parallele. Mi misi in piedi e andai ad alzare la serranda. Il caldo era ancora leggero, ma si sentiva che era pronto a ruggire di nuovo.
Uscii nel piccolo giardino curato. Al centro c’era una struttura in muratura simile a un pozzo, con un grande cespuglio di gelsomino che gli si arrampicava intorno.
In una delle piante dall’arbusto sottile riconobbi i fiori che c’erano sul comodino, affogati in un po’ d’acqua. D’istinto mi avvicinai ad annusarli.
Odoravano di miele.
“Si chiama pomelia.”
Sobbalzai. Da qualche metro di distanza, mia nonna mi guardava con un vassoio in mano.
“Buongiorno. Hai dormito bene?”
Non risposi e mi voltai verso la pianta.
“Non ce l’avete voi, vero? In Inghilterra”, continuò mia nonna.
Mossi leggermente la testa.
Lei si avvicinò.
“Ce l’abbiamo solo noi, qua dove fa caldo, forse da qualche altra parte pure, ma in continente no, non cresce, non ce la fa fuori da qua.”
Posò il vassoio su un tavolino in ferro battuto e si sedette su una delle sedie, appoggiandosi prima sulle ginocchia.
“È una pianta strana”, continuò, “a guardarla non è bellissima, anzi è brutta, secca secca com’è.”
Sorrise.
“Poi però fa dei fiori che sembrano finti per quanto sono belli. Pochi, non ne fa molti. Ma quelli che spuntano hanno un profumo bellissimo e fuori sembrano fatti di porcellana.”
Fece una pausa. Guardò lontano.
“Come quest’isola. Non promette niente a vederla da fuori. Ma se hai pazienza vedi i fiori belli che ci sono.”
Si fermò ancora. Mi guardò, come svegliandosi da quelle riflessioni.
“Amaro o zuccherato?”
Stavo ancora pensando a quello che aveva detto e alla bellezza del modo in cui aveva articolato le parole.
“No. Niente zucchero. Grazie”, dissi con troppa cortesia.
Mia nonna la notò, vidi una leggerezza breve inarcarle l’angolo della bocca, ancora carnosa nonostante le rughe che la contornavano.
Mi porse la tazzina da cui bevvi con due sorsi secchi.
Suonò il citofono e ne fui sollevato. Mia nonna andò ad aprire, io rientrai e andai in cucina.
Sentii un brusio arrivare dall’ingresso. Poco dopo entrò un ragazzo dai capelli scuri raccolti in un codino. Reggeva due sacchi.
Mi lanciò uno sguardo rapido. Non mi salutò.
“Dove li poso, signora Maria?”
“Mettili sul lavello Amir, fammi ‘sto favore.”
Il ragazzo posò i sacchi, mia nonna si informò sul costo della spesa e pagò.
Lui prese i soldi e li mise in tasca.
Alzò gli occhi e mi guardò meglio, notò la benda alla mano. Io chiusi le dita per riflesso.
“Questo è mio nipote Tommasino”, disse mia nonna. “Tommasino, questo è Amir, suo padre ha un negozio qua sotto.”
Il ragazzo mi allungò la mano.
“Piacere, sono Amir.”
Gli porsi la mia, quella sana. Notai la sua stretta dritta e forte.
“Tommasino viene da Londra, resterà qua per un po’”, continuò mia nonna, “magari potete andare a mare insieme qualche volta, che dici Amir?”
Mi voltai di scatto. La fulminai con lo sguardo. Lei non mi guardò.
Amir fece cenno di sì con la testa, senza sembrare troppo convinto. Poi improvvisamente gli si accese lo sguardo.
“È tua la borsa da calcio davanti la porta?”, disse.
Mi accorsi che aveva un accento diverso da quello di mia nonna. Esitai qualche secondo.
“Sì”, dissi poi.
“Giochi a pallone?”
Temporeggiai, ma Amir mi incalzò.
“Più tardi abbiamo una partita in spiaggia, e ci manca un panchinaro, uno che entra se qualcuno è stanco,
vuoi venire?”
“Non credo, ho da fare”, risposi subito.
Lui sorrise.
“Ma che devi fare in città co’ ‘sto caldo? Non sei in vacanza?” Guardò mia nonna. Anche io la guardai in cerca di aiuto. Speravo dicesse qualcosa.
“Non si fa niente qua, se non andare a mare e giocare a pallone”, continuò Amir.
“Ho da fare”, aggiunsi brusco.
Amir non rispose. Fece una smorfia e si spostò su un piede, pronto ad andarsene.
Mia nonna intervenne.
“Vacci Tommasino, io devo uscire, non puoi rimanere a casa.”
La guardai incredulo. Sospettai che stesse mentendo.
“Vabbè, non fa niente signora Maria. La saluto.” Amir faceva sul serio, non aveva l’aria di uno che insisteva.
“Tommasino…” mia nonna mi guardò con gli occhi che mi imploravano di andare.
“Ok”, dissi senza quasi controllare quello che dicevo.
“Okeeei”, mugugnò Amir, sbeffeggiando il mio accento.
“Alle cinque e mezza ti citofono e andiamo al campo.”
Non risposi.
Mia nonna fece un sorriso, arrotolò la pezza che aveva tra le mani e si diresse soddisfatta verso il lavello della cucina.
“Ciao, signora Maria”, disse Amir con educazione, poi, ignorandomi, andò verso la porta e uscì.
Ero furioso.
Mia nonna si avvicinò per prendere la tazzina vuota.
“Ti diverti, vedrai. Amir è un bravo ragazzo.”
Tornò verso il lavello. Poi, senza voltarsi: “Perciò Tommasino, a casa tutto a posto?”, aggiunse.
Eccolo, il momento del discorso era arrivato.
Si voltò e mi guardò la mano fasciata. L’aveva di sicuro notata prima, ma solo allora la osservò senza nascondersi.
Mi alzai.
“Vado di là nonna, grazie per il caffè.” Feci uno sforzo per trattenermi e non gridarle che quelli non erano fatti suoi. Né quelli, né se volevo o no fare amicizia con qualcuno.
Uscii dalla stanza senza aggiungere altro.
Andai verso la porta a prendere il mio borsone. Lo afferrai e lo maledissi per il guaio che mi aveva causato.
“Ma non mangi a pranzo?”, gridò lei dall’altra stanza.
“No”, dissi secco.
“Ora ti preparo le cose per giocare”, disse.
Chiusi la porta con rabbia.
Feci qualche giro intorno alla stanza. Mi guardai la mano, il sangue raggrumato si poteva scorgere in alcuni punti.
La fasciatura doveva essere rifatta, la ferita pulita.
Mi resi conto solo ora che avrei potuto usarla come scusa per non giocare.
Guardai il soffitto. Poi presi un libro. Cercai di leggere ma non ci riuscii. Decisi di uscire in giardino. Dovevo prendere aria.
Rimasi a guardare nel vuoto sentendo nello stomaco un nodo di tensione.
Poi il caldo si fece insopportabile e rientrai. Mi misi a letto e cercai di dormire, ma rimasi in una specie di spazio intermedio tra il sonno e la veglia per ore.
Sognai forse e se lo feci le immagini si accavallarono e sparirono senza lasciarmi la sensazione di essere state decodificate dal mio cervello.
Quando mia nonna bussò mi svegliai di botto.
“Ti ho portato le cose da gioco, erano quelle di tuo padre, penso che avete la stessa misura.”
Era affacciata sulla porta. In penombra.
“Scusami se entro, tra un po’ viene Amir.”
Feci un grugnito e mi rigirai nel letto.
La sentii entrare in stanza e poggiare qualcosa sulla sedia.
Poco dopo mi alzai e andai in cucina a bere. Mia nonna mi guardò ma non disse niente.
Sul tavolo c’era un piatto coperto che doveva essere il pranzo che non avevo fatto. Senza farmi vedere, presi della frutta da un recipiente e tornai nella stanza.
Sulla sedia, mia nonna aveva sistemato un paio di pantaloncini e una maglietta. Istintivamente li portai al naso e li odorai. Sapevano di naftalina.
Osservai la maglia, la girai tra le mani. Il completino in cui mio padre anni prima aveva sudato. Guardai ancora le foto appese al muro, la sua foto, il sorriso che mi sembrò di non conoscere.
Il citofono suonò poco dopo. Mia nonna andò a rispondere.
“Sì, Amir. Sì, sta arrivando.”
Mi alzai contro voglia dal letto e mi cambiai.
Andai verso lo specchio. Ora capivo il senso di straniamento che avevo avvertito in Amir. Ero pallido, avevo le occhiaie profonde e l’aspetto malaticcio.
Dallo specchio guardai alle mie spalle, oltre me. Il nuovo contesto di quella realtà faceva risaltare la mia inadeguatezza più del solito. La mia pelle pallida, in quello scenario pieno di sole, diventava quasi trasparente. Mi osservai le mani senza soffermarmi sulla ferita. Le mani grandi come quelle di mio padre. Non potei non chiedermi quale altro dono genetico proveniente da lui mi girasse in corpo. Era la prima volta che ci pensavo, che pensavo a una certa familiarità con lui.
Il citofono suonò ancora.
Una bolla d’aria mi si formò al centro dello stomaco, sentii quasi di vomitare.
“Tommasino, c’è Amir che ti aspetta.”
Diedi un ultimo sguardo allo specchio e mi diressi verso l’ingresso, quindi me ne andai senza salutare.
Mentre la porta si chiudeva mi voltai e vidi mia nonna appena fuori dalla cucina. Aveva la bocca aperta in un saluto che non ebbe il tempo di dire. La porta si chiuse sul suo sguardo.
Fuori dal portone, Amir mi aspettava seduto su un motorino arancione che sembrava più una bicicletta. Mi guardò storto.
“Me ne stavo andando, un minuto e ti lasciavo qua.”
Non dissi niente e abbassai gli occhi.
Lui mi osservò meglio.
“Minchia, co’ ‘sto completino pari mio nonno.”
“Era di mio padre”, mi giustificai e mi pentii subito di averlo fatto.
“Sali”, disse lui.
Notò che mi guardavo in giro.
“Che c’è?”, disse poi.
“Dove sono i caschi?”
“Non ce n’è caschi, sali. Metti i piedi qua e qua”, tagliò corto.
Salii sul motorino e Amir mise in moto producendo un suono potente che non mi aspettavo. Poi spinse l’acceleratore al massimo e in un attimo arrivammo alla fine della stradina.
Senza curarsi di chi arrivasse dalla strada principale svoltò a destra e cominciò a infilarsi nei piccoli spazi lasciati vuoti dalle decine di macchine che, con lentezza, si muovevano nel traffico.
Ai lati della strada c’erano gruppetti di uomini che bivaccavano sui motorini, notai le loro facce scure e abbronzate.
Alcuni ragazzi, seduti sul muretto che costeggiava la strada, appena ci videro arrivare si alzarono.
“Tieniti e non ti muovere assai”, mi gridò Amir.
“Cosa?”, dissi, ma non mi diede il tempo di richiederglielo.
Con un colpo di schiena si alzò su una ruota. Io, attaccato al portapacchi con una mano e al sellino con l’altra, riuscii solo per istinto a non cadere all’indietro.
Amir continuò con colpi regolari d’acceleratore a mantenersi in verticale e a dirigersi verso quel gruppo. Sembrava volesse finirgli addosso. Strinsi più forte i pugni sui miei appigli. Stavo per gridargli di fermarsi. Ma proprio all’ultimo, quando sembrava che li avremmo investiti, cambiò direzione.
Qualche metro dopo averli superati, Amir diede un colpo in avanti e abbassò con rabbia la ruota anteriore.
“Suca, pezzi di merda”, gli sentii dire tra i denti.
Io mi voltai verso il gruppo e li vidi gesticolare e inveire contro di noi. Notai un ragazzo robusto che più degli altri sbraitava e sembrava promettere di farcela pagare.
Amir, incurante, continuò la sua corsa ondeggiando sulla strada e cantando a squarciagola. Poi, di colpo, si immise in un vicolo minuscolo con le mura gialle, i balconi di ferro battuto e i panni stesi ad asciugare.
Dopo una ventina di metri si fermò.
C’era una selva di motorini posteggiati. Amir quasi lanciò il suo nel primo buco libero.
“Amunì”, mi disse.
Sentii la testa come presa da una vertigine.
“Amunì, che è tardi”, disse ancora lui e mi scrutò come fossi un ebete.
Mi guardai in giro, ci trovavamo in un piccolo porto, con qualche barca da pescatori attraccata qua e là.
In lontananza vidi una folla di persone ammassate attorno a un campo di calcio. Era ricavato da una spiaggetta che dava sulle acque scure del porto. Due porte fatte artigianalmente con legno grezzo e reti da pescatore. Le linee scavate sulla sabbia.
Ci dirigemmo verso un gruppo di tre ragazzi. Uno di loro ci venne incontro preoccupato.
“Minchia Ami’, sta cominciando la partita, dove minchia eri?”
“Sono andato a prendere a lui.”
Tutti si girarono verso di me. Strinsi le dita della mano bendata, la nascosi dietro la schiena.
“È il nipote della signora Maria, viene da fuori, fa la panchina oggi.”
Mi guardarono ancora, confusi forse dal mio aspetto dissonante col resto.
“Va bene, amunì andiamo”, disse poi uno di loro.
L’arbitro mise fine alla partita in corso con tre fischi.
Ci muovemmo in gruppo verso il campo di sabbia dove, nel frattempo, era arrivata anche la squadra contro cui apparentemente dovevamo giocare.
Riconobbi tra loro il ragazzo robusto che ci urlava contro due minuti prima. Appena vide Amir si diresse verso di lui minaccioso. Amir si fermò, mise le mani dietro la schiena e lo aspettò tenendo gli occhi fissi su di lui, senza mostrare alcuna esitazione.
Quando quello gli fu fronte a fronte, cominciò a dirgli qualcosa con la fermezza di chi sapeva come fare paura alla gente.
Sentii un brivido attraversarmi la schiena e per un attimo ebbi timore che se la prendesse anche con me.
Amir invece continuò a non fare una piega. Non disse niente, mantenne solo sul viso un sorriso beffardo.
A quel punto l’arbitro si mise in mezzo, li separò e i due, senza togliersi gli occhi di dosso, raggiunsero ognuno la propria squadra.
Amir mi cercò con lo sguardo, poi cercò il resto della squadra. Ci fece cenno di avvicinarci.
“Picciotti stiamo attenti che questi sono forti, e pure incazzati. Tu”, mi guardò, “dove giochi, davanti o dietro?”
Esitai.
“In difesa.”
“Ok, appena qualcuno è stanco esce ed entra lui.” Mi indicò, sembrava volersi ricordare qualcosa.
“Tommaso. Ehm. Tommi”, lo aiutai.
“Tommaso, questo è Lin, ma lo chiamano tutti Lino”, disse indicando un ragazzo dai lineamenti asiatici. “È portiere.”
“Questo è Sheik, gioca in attacco con me”, disse poi.
Sheik aveva la pelle scura e una lunga barba nera. Indossava una tunica. Lo guardai e mi chiesi come avrebbe fatto a giocare la partita vestito a quel modo.
“Piacere”, mi disse lui con un sorriso buono e un accento che mi confermò le sue origini arabe.
“Questo è Butera, lo straniero”, continuò Amir. Tutti scoppiarono a ridere.
Butera mi guardò. “Piacere Salvo Butera, isolano originale D.O.C.”
Amir strinse l’elastico che gli teneva raccolti i capelli e si sistemò il codino.
“Ragazzi stiamo accura e non facciamo minchiate, amunì”, disse poi.
Io mi diressi al bordo del campo con lo sguardo basso e mi sedetti sulla sabbia, sicuro che tutti mi stessero osservando.
Notai due ragazze. Erano sedute su un motorino blu e mi guardavano sorridendo e parlottando tra loro.
L’arbitro finalmente fischiò e tutta l’attenzione si concentrò sulla partita.
“Vai Amir!”, gridò una delle ragazze.
Amir si voltò verso di lei e le fece un sorriso. La sua amica guardò invece me. Io mi voltai altrove, verso il campo.
Il ragazzo robusto della squadra avversaria sembrava interessato più allo scontro fisico che a giocare. Puntava soprattutto Amir, che agilmente riusciva a sfuggirgli, ridicolizzando così la sua goffaggine.

Il pubblico sembrava tifare contro la nostra squadra. Gridavano al ragazzo robusto, che capii chiamarsi Gioacchino, incitandolo a essere più cattivo, con un misto di durezza e sfottò. Mormoravano ogni volta che Sheik toccava il pallone. Pensai fosse a causa del suo aspetto, della tunica. Apostrofavano tutti con nomignoli che evidenziavano il loro essere stranieri. Amir era “il Turco”. Lin, o meglio Lino “’u Cinìsi”, Sheik “Mohammed”.
Le ragazze sul motorino continuavano invece a incitare la nostra squadra.
La partita era fisica e resa difficile dalla sabbia che, oltre a rendere ogni rimbalzo imprevedibile, incoraggiava lo scontro e le entrate dure.
Quello che succedeva in campo non mi interessava molto, mi persi invece ad osservare la massa urlante che gli faceva da contorno. L’incitamento alla violenza, l’ironia spietata delle prese in giro soprattutto nei riguardi dei ragazzi della mia squadra.
La partita era sul finire quando loro segnarono. Il pubblico esultò. Io mi sentii sollevato al pensiero che non avrei giocato, ma durò poco. Butera infatti, subito dopo il gol, si diresse verso di me.
“Entra che non ce la faccio più.”
“Sicuro?”, chiesi.
Lui mi guardò quasi senza capire cosa volessi dire e si sedette sulla sabbia senza rispondermi.
Io mi alzai, insicuro sulle mie gambe bianche. Sentii calare le grida del pubblico. Tutti mi guardarono.
Anche volendo ormai non potevo tornare indietro, feci un respiro ed entrai in campo. Gioacchino mi notò in quel momento.
“E chistu da dove viene?”, disse.
Molti scoppiarono a ridere. Spinsi i piedi sotto la sabbia, sperai per un attimo di sprofondarci dentro.
Il gioco riprese e loro ci attaccarono. Gioacchino venne verso di me, a palla lontana mi assestò una gomitata secca sotto le costole. Mi mancò il fiato e mi accasciai.
L’arbitro fermò il gioco.
Amir venne verso di me, mi sollevò da terra.
“Com’è? Come stai?”, mi chiese.
“Ok, diciamo”, risposi con un filo di voce.
“Vacci duro pure tu se no ti fai male. Entra duro”, disse lui.
Mi rialzai, mi scrollai di dosso la sabbia, soffiai sulla benda. Stavo per chiedere ad Amir di uscire ma alla fine non lo feci.
Quando il gioco riprese loro continuarono ad attaccarci e Gioacchino venne ancora verso di me. Cercava il contatto in tutti i modi. Io mi opponevo col corpo come mi aveva detto Amir, ma continuavo a subire.
Quando mancava un minuto alla fine, qualcuno lanciò la palla verso Gioacchino che, proprio prima di cominciare a correre per raggiungerla, mi diede un’altra gomitata nello sterno. Io subii il colpo, ma qualcosa mi offuscò la vista e appena prese la palla mi buttai con entrambe le gambe sulle sue.
Ci fu un silenzio gelido.
Eravamo entrambi a terra, lui si rialzò e mi afferrò la maglietta con la mano sinistra mentre con decisione stringeva la destra in un pugno massiccio che sentivo già abbattersi sul mio naso.
Gli altri ragazzi corsero a dividerci. L’arbitro chiamò il rigore, e questo sembrò distrarre Gioacchino.
Sputò a terra vicino a dove io piano piano mi stavo rialzando. Prese il pallone e si diresse verso la porta.
Non riuscivo a respirare. La rabbia, l’adrenalina, il caldo, la sabbia che avevo ingoiato mi facevano ribollire.
Gioacchino sistemò la palla su un dischetto immaginario e si allontanò per prendere la rincorsa.
I miei compagni di squadra mi guardavano contrariati, probabilmente perché avevo reagito e causato quel rigore.
Io stavo in piedi, fuori dai bordi dell’area, e guardavo quasi intontito la gente attorno al campo che urlava e incitava.
“Gioacchino spaccaci la porta, ammazzalo a ‘u Cinìsi”, gridò qualcuno.
L’arbitro fischiò e Gioacchino partì nella sua rincorsa.
Tirò dritto e potente, ma Lino toccò leggermente il pallone, quel tanto da farlo battere sul palo.
Fu un momento in cui sentii una sorta di stallo. Vidi il pallone dirigersi dritto verso di me. Divenni uno spettatore di me stesso. Mi vidi allungare il piede per fermare la palla. Mi vidi alzare gli occhi, Amir accendersi nello sguardo e cominciare a correre verso la porta. Mi vidi calciare la palla e vidi questa raggiungerlo con precisione.
Poi vidi Amir stopparla a cinque metri dalla porta e calciare di controbalzo, per lasciare al portiere solo il tempo di guardarla entrare alle sue spalle.
Aveva segnato, avevamo pareggiato.
Sentii le due ragazze sul motorino gridare di gioia. Da sole tra tutti.
Vidi Amir voltarsi verso di me, con un grande sorriso, il primo che gli vedevo fare, e iniziare a correre con le braccia aperte.
Io rimasi bloccato, fermo. Nel silenzio generale. Nel silenzio di un inizio, l’inizio di un me che in quel preciso momento mi precipitò addosso. L’inizio di quell’estate che cambiò tutto.
Fermo, anche quando ci trovammo tutti abbracciati a esultare, senza che riuscissi a pensare a niente, senza curarmi della mia ferita, delle mie ferite.
Fermo, anche quando, coperto dai miei compagni di squadra, tra l’odore acre di sudore e umido, mi scappò un sorriso che mi fece male agli spigoli della bocca.