Un ristorante in King Street, un racconto di Marco Medugno

Cattedrale è orgogliosa di ospitare due tra i tre vincitori del premio Match Point: il premio dedicato ad autrici e autori italiani residenti nel Regno Unito. Lasciamo la parola a Marco Mancassola, tra gli ideatori del Premio, per presentarvi il primo racconto pubblicato sulle nostre pagine.
Il prossimo potete scoprirlo, sempre qui, il il 3 Febbraio!|

Match Point è il titolo della chiamata letteraria organizzata dall’associazione londinese Il Circolo in collaborazione con Londra Scrive, il programma di scrittura fondato dal sottoscritto. La chiamata era per racconti scritti in italiano da autrici e autori residenti nel Regno Unito: per la prima volta, una piccola capillare mappatura di ciò che italiani e italofoni scrivono da questa parte della Manica.
La suggestione sportiva del titolo serviva a delimitare un tema – storie di ambientazione sportiva oppure, a livello più metaforico, storie che avessero a che fare con un “punto decisivo”, momenti in bilico, decisioni da prendere. Nell’atmosfera inquieta del Regno Unito di questi anni, ci è sembrata una suggestione interessante.
I tre vincitori, premiati in una serata all’Istituto Italiano di Cultura di Londra, hanno ricevuto un riconoscimento in denaro e la possibilità di un lavoro di editing per rendere i racconti ancora più tersi.

Sono felice di presentare dunque “Un ristorante in King Street” di Marco Medugno: un racconto sinuoso su due solitudini che si incontrano, su due uomini ciascuno davanti al proprio bivio, in una Londra notturna e quasi fantasmatica.

Marco Mancassola

 

Un ristorante in King Street
di
Marco Medugno

Se qualcuno avesse svoltato l’angolo di King St., e fosse passato davanti alla facciata edoardiana del Chez Pierre, avrebbe intravisto, spiando oltre le vetrate, una figura spettrale muoversi nella semioscurità dell’interno. Anche se il locale era chiuso, il personale assente e le tovaglie linde e immobili come plastici panneggi, prestando maggiore attenzione, magari strizzando gli occhi per coprire l’intero salone, il passante avrebbe notato un bagliore diafano provenire dal fondo, dentro le cucine. Avvicinandosi al vetro fino ad appannarlo, avrebbe intuito che la figura intravista nella penombra era un cuoco, intento a destreggiarsi con le portate. Se ne avesse seguito il tragitto, lo avrebbe visto appoggiare un paio di piatti sull’unico tavolo pronto, apparecchiato per due persone.

Starter. Dopo un brindisi al loro incontro, Gabriele liberò un sorriso e attese che Marco gli spiegasse il menu della serata. Davanti a loro stavano tre bruschette con mozzarella e crema di piselli, e altrettante con olive, tonno e harissa, profumate e invitanti; accanto, un pâté di fegatini con polenta fritta e un carpaccio con salsa di tartufi di mare, lattuga e caviale, giacevano sopra un piatto rettangolare di porcellana nera, posizionato in centro tavola con cura geometrica. Noncuranti della formalità dell’arredamento e dell’elaborata mise en place di posate e bicchieri, i due trascorsero i primi minuti a studiarsi con curiosità, cercando le tracce lasciate su di loro dal tempo. Gabriele lo aveva raggiunto da Edimburgo dopo un anno di assenza e Marco aveva deciso di cucinare per lui nel ristorante nel quale lavorava, ovvero nel luogo diventato, negli ultimi due anni, una forma di casa.
Aveva cominciato a lavorare al Chez Pierre come apprendista e gli avevano poi offerto di restare. In realtà, lo chef lo aveva voluto tenere a tutti costi perché era un fucking promising lad (pronunciato con la u chiusa del nordest). Malgrado l’aria elegante che irradiava il Chez Pierre, in cucina le parole volavano su toni meno raffinati. E malgrado le tirannie del suo capo, bizzarre come sanno essere le tirannie di qualcuno colmo di talento e altrettanto egoismo, Marco era riuscito a resistere e conquistarsi ancora di più la sua fiducia. In compenso, il suo mondo si era atomizzato e il Chez Pierre aveva assorbito tutto il resto. I turni asfissianti, insieme alla sua propensione verso solitudine e stacanovismo, lo avevano condotto a uno stato di rarefazione sociale nel quale aveva cominciato, suo malgrado, a sentirsi a proprio agio. Oltre a prendere la Central fino a St. Paul per arrivare al Chez Pierre, Marco si avventurava poco per la città. Londra, in fondo, era un parco divertimenti per turisti, costoso e troppo vasto, e lui non aveva tempo, né soldi, per goderselo. Appena arrivava al lavoro, si sistemava subito in cucina, dove già in tarda mattinata si respirava l’aria adrenalinica della sera. Nei rari momenti di pausa, sgattaiolava sul retro a sfumacchiare e restava seduto a terra con gli occhi chiusi e un senso sottile di estraneità rispetto alla complessità della vita che lo circondava, e le sue infinite possibilità. Lui era il suo lavoro e poco altro. I rapporti umani erano relegati in una dimensione virtuale composta da schermi e videochiamate. Gabriele stesso, che finalmente stava davanti ai suoi occhi, domani sarebbe tornato a essere una voce fuori campo.
Quando aveva una giornata libera, la passava a sonnecchiare rintanato nel suo ristretto appartamento arroccato sui tetti georgiani di Marylebone. Di notte sognava ricette e presentazioni di piatti e poi, al risveglio, le scribacchiava su tovaglioli o giornali per non lasciarsele sfuggire; ripassava ossessivamente tempi e tecniche di cottura di carni, uova e frutti di mare. Per il resto, le settimane erano ritmate dagli orari della cucina, proprio come la disposizione sui piatti era regolata dalla clock rule: il piatto era come il quadrante di un orologio, in cima c’era mezzogiorno, in basso le sei. Così quando lo chef urlava: «Foie gras at twelve, confit garlic at four!» non si poteva sbagliare e ogni ingrediente trovava la corretta sistemazione sul piatto.
L’unica persona alla quale non sottraeva la sua presenza era Filip, un fotografo svedese trasferitosi a Londra quand’era adolescente. Era un anno che si frequentavano come una vera coppia, senza che le rispettive carriere fossero ancora riuscite a consumare come creste d’onda il loro rapporto, o a farlo diventare stanco e patetico. Si erano conosciuti alla presentazione della prima mostra fotografica di Filip, Better to Reign in Hell, Than to Serve in Heaven, che esponeva scatti di celebri cucine e chef pluripremiati. Tra questi, c’erano anche il Chez Pierre e il suo capo, Martin Flay. Dopo aver chiuso il locale, Marco andava ogni sera da Filip, nel suo appartamento in Boswell Street con vista sul parco e, sfibrato, si accasciava sul divano accanto a Filip, che lo lasciava accoccolare e continuava imperturbabile a leggere o postare foto su Instagram. Al mattino, quando Marco si trovava addosso una coperta e notava sul tavolino le mezzelune lasciate dalle tazze di tè della sera prima, gli preparava una colazione di pancake aromatizzati con scorza d’arancia o limone, caffè lungo e uova alla Benedict con salsa olandese. Sapeva che l’altro si sarebbe svegliato fra poco e che lui avrebbe trovato sul cellulare il solito messaggio di affetto, laconico, una volta arrivato al Chez Pierre.
Questa era la loro ritualità, intessuta di passioni addomesticate, parole caute e piccole premure. Filip si preoccupava per la sua salute e da mesi gli ripeteva di riposarsi e prendere vitamine, perché lo vedeva deperito, smunto e con occhiaie croniche – e aveva ragione. Marco lo sapeva, ma non era arrivato dov’era grazie a una vita salutare, bensì con caffeina, sigarette, gastriti, insonnia e inguaribili ossessioni. Era per questo che ora lavorava al Chez Pierre, uno dei migliori ristoranti al mondo.

Main course. Marco ritirò i piatti e si allontanò. Non avevano parlato molto; solo poche battute, sul tempo, sul costo della vita e, ovviamente, sugli antipasti. Lo sbirciò dalla cucina e contemplò il suo viso appoggiato sul palmo della mano sinistra, nella sua posa di attesa, e i capelli cresciuti ribelli. Non si erano persi; solamente, si erano allontanati, e questo sembrava il momento giusto per riavvicinarsi. Dopotutto, il vino, le portate e l’intero Chez Pierre erano solo per loro due, stasera, per celebrare il loro incontro. Immaginò Gabriele alle prese con la cucina scozzese, i piselli semicrudi dei fish&chips, le scorze delle patate lasciate in cottura, l’assenza di sale e olio d’oliva, e i clootie dumplings. Lo immaginò anche durante le sue corse serali sotto la pioggia a serpeggiare seguendo sentieri tra le colline. Lo immaginò perché non era mai riuscito a salire a Edimburgo. Dalla sua assunzione non si era allontanato un solo giorno da Londra, ma si ripromise di ricambiare la visita, nonostante gli impegni e il costo dei treni.
Lasciato solo nella sala, Gabriele intanto rifletteva sull’ultima volta in cui si erano incontrati, quando non erano quasi mai usciti dall’albergo dov’erano alloggiati, in Rue Trousseau. Quella volta, mentre la pioggia incessante rigava i vetri della minuscola stanza per ore, si erano aggiornati sulle rispettive vite. I loro incontri non perdevano mai lo smalto, come vecchia argenteria, e anche in quell’occasione i discorsi erano fluiti come le gocce lungo i vetri. Adesso, invece, i silenzi sembravano più densi e Gabriele non capiva come mai.
Quando Marco riapparve, Gabriele trasalì, quasi si fosse ricordato all’improvviso di essere al Chez Pierre. Appena tornò in sé – un petto di faraona scottato con salsa di fegato alla veneziana e capperi fumava sotto i suoi occhi – liberò uno dei sorrisi che si aprivano sul suo viso quando non riusciva a esprimere la sorpresa a parole. Rimasero a fissare il fumo dei piatti arricciarsi verso l’alto fino a dissolversi nel buio della sala. I primi bocconi furono immersi nel silenzio. Gabriele pensò che non avrebbe potuto permettersi nessuna delle raffinate portate sfilate davanti ai suoi occhi finora; una cena in un ristorante simile costava come il suo affitto e questo pensiero risvegliò in lui un sentore di precarietà che conosceva bene. Cosa avrebbe fatto l’anno prossimo, se non gli avessero rinnovato il contratto? Sarebbe stato ironico, per non dire spietato, se si fosse ritrovato ancora dai suoi dopo anni di studio e lavoro all’estero. Cacciò quel pensiero ma si accorse che Marco, ora, lo osservava con gli occhi socchiusi. Non doveva essergli sfuggita l’improvvisa incrinatura del suo umore. Il barlume di preoccupazione che gli velava lo sguardo, e quel luccichio triste nonostante l’aria tranquilla, erano qualcosa che Marco conosceva come la ricetta della salsa bernese. Certi dettagli, pensò Gabriele, non gli sarebbero mai sfuggiti, nemmeno a distanza di anni. Doveva essersi accorto che Gabriele stava pensando a casa.
Dopo un PhD in Filosofia Politica, l’insegnamento, una pubblicazione e un lavoro da Associate Lecturer, seduto in un ristorante stellato aperto solo per lui, Gabriele non riusciva a trattenere quel suo timore di essere, in fondo, un fallimento. Entrambi provenivano da una città sprofondata in una pianura sfigurata, i cui capannoni, vigne di prosecco e centri commerciali soffocavano i pochi terreni rimasti. Entrambi avevano sentito il bisogno di lasciarsela alle spalle, per tanti motivi, confusi, ma tutti validi. In quella città avevano consumato troppi anni nell’insoddisfazione e nell’attesa paludosa di un cambiamento. Gabriele aveva tentato di fare ricerca dopo l’università, ma non aveva mai vinto una borsa; si era invischiato in concorsi già assegnati e in campi di studio che non lo appassionavano affatto. Le strette di mano e i complimenti per la sua tesi magistrale erano stati smascherati per ciò che erano: la messinscena di una ritualità che elogiava il merito con molte parole ma nessun fatto. Mentre i dipartimenti di Geografia e Storia chiudevano per scarsità di fondi e interesse, in Germania, in Inghilterra e in Svezia gli stessi studi fiorivano mescolandosi con le scienze politiche, l’economia, la letteratura, la sociologia. Il solo lavoro temporaneo che aveva ottenuto era arrivato nell’unico modo che sembrava possibile: grazie a un contatto, una conoscenza giusta. Allora, Gabriele aveva capito di non volersi ritrovare nelle mani del burattinaio di turno e ricominciare daccapo, di volta in volta, da una posizione che non gli avrebbe garantito uno stipendio né un futuro. Contratti a tempo determinato, stage gratuiti e voucher risuonavano come i mantra della nuova sintassi della flessibilità.
Con angoscia, si era sforzato fino all’ultimo di non desistere, ma si era ritrovato in uno stallo, come se gli mancasse sempre qualcosa: non era abbastanza motivato, oppure troppo vecchio, o con poca esperienza. Non c’era stato altro da fare se non partire. In Scozia, certo, non era così diverso, non come aveva immaginato, ma almeno poteva permettersi di vivere e sperare di ottenere una posizione migliore in un futuro vicino. Doveva sperare, altrimenti aver lasciato l’Italia sarebbe stato vano. In fondo, quella era la cifra dei tempi, anche se a lui era restata addosso come una colpa privata.
Questo era il tono cupo dentro lo scintillio dei suoi occhi chiari, la piega triste che attraversava il suo viso e ne incrinava la voce. Marco lo sapeva; aveva ascoltato già i discorsi di Gabriele sulla lontananza e sul senso di fallimento di non essere riuscito a restare vicino casa.
Una volta, in una giornata immersa dentro l’azzurro diluito da cirri atlantici, Marco aveva percepito nitido, in Gabriele, quel senso di colpa per aver lasciato casa per pensare a se stesso. Ma mentre Gabriele si sfibrava tuttora per la delusione di non essere riuscito a realizzarsi nel luogo in cui era nato e cresciuto, Marco non ne poteva più di ascoltare la retorica di chi voleva tornare per chissà quale amore di patria, facendo sentire lui come un traditore. Anzi, nel tempo, la lontananza da casa aveva trasformato il suo cuore in un sasso. Con un disfattismo biblico e implacabile, aveva sperato di assistere allo sfascio della nazione intera, col suo macchinario di frivole ossessioni e provincialismo. Sapeva di aver preso una decisione dettata da fatti precisi. La prima volta in cui aveva provato a lavorare in Italia era stato a L’Albereta, nella sua stessa provincia, poi al Camilla e infine Da Remo, due ristoranti rinomati appena oltre i confini della sua regione. Ma era stato scartato da tutti. Al Casse-Croûte, un ristorante francese trapiantato a Londra, era stato assunto dopo un solo colloquio e la preparazione di un piatto. In Italia non sarebbe tornato nemmeno se l’avessero implorato. Per chi? E perché?
Una domenica – se lo ricordava ancora – mentre pedalavano sull’argine in un maggio caldo di parecchi anni prima, Marco era sbottato, dicendo di odiare quella pianura, il caldo umido, l’allergia e tutti quei cieli acquarellati dall’afa che sbiadiva l’orizzonte. Gabriele si era messo a ridere, perché per lo sfogo inaspettato Marco aveva perso l’equilibrio ed era finito dritto giù sulla golena. Una volta disceso anche lui dall’argine, si era seduto al suo fianco. C’erano famiglie, bambini, in gruppetti sparsi e allegri. Si erano sdraiati sull’erba pungente, vicini, quasi abbracciati, a osservare l’acqua lenta del fiume e la rete da pesca sollevata come una ragnatela sapientemente intessuta a mezzaria. I piumini dei pioppi levitavano rischiarati dalla luce come fragili invertebrati marini trasportati dalla corrente. Il profilo compatto delle fronde si delineava in lontananza, sfocato dal bagliore dorato del crepuscolo. Gabriele aveva guardato l’ansa del fiume, dicendo di sentirsi come un salgàro: tanto vicino alla corrente quanto incapace di seguirne il flusso. Disse che avrebbe voluto restare immobile e trascorrere così le ore fino al termine della notte, in una stasi pacifica, priva di perturbazioni. Ma poi, Marco si era alzato nervoso, di malumore. La tranquillità della sera si era spezzata dentro la sua testa.
Marco sapeva di avere sempre addosso, inscindibile da sé, la stessa sensazione di quel giorno. Era una forma d’insofferenza, che prendeva il sopravvento in corrispondenza del ricordo di casa. Dopo quella giornata si era ripromesso di andarsene il prima possibile, andarsene fortissimo, senza guardarsi alle spalle. Sapeva però che per Gabriele era diverso, che quel suo silenzio corrucciato era il modo per zittire il suo senso di fallimento e limitare così un’eccessiva esposizione al pensiero di ciò che si era lasciato alle spalle.

Dessert. Il tavolo, rischiarato da un discreto faretto sopra di loro, sembrava irreale. Loro due, stagliati nell’oscurità della sala, erano simili a comete sperdute dentro l’immensa profondità del cosmo. A volte si erano sentiti proprio così, soli dentro il buio, vicini tra loro ma distanti dal mondo, dall’ambiente nel quale avevano vissuto e da quello che li aveva accolti. Per alleviare la malinconia, Marco parlò del progetto di aprire un suo ristorante: non sapeva dove, ma entro una decina d’anni avrebbe voluto possederne uno. Lo avrebbe voluto arredare con classe. Aveva in mente l’atmosfera di un locale à la Hong Kong anni Settanta; le immagini nella sua testa erano più precise rispetto alle parole che stava usando per renderlo chiaro agli occhi di Gabriele, il quale commentava non senza ironia. Risero sulla scelta del nome, sull’esotismo di scelte dialettali, come Porcoefora oppure Boiacàn, o sulla preziosità superficiale di Golose porcherie o Il testamento del bove, indecifrabile per chi non sapeva l’italiano.
Marco si alzò per tornare in cucina. Serviva una degna chiusura per la cena. Portò un tortino al cioccolato e pepe nero con sorbetto di latte di mandorla e granita al caffè, e un gelato alla vaniglia bourbon con un macaron al cioccolato e un tocco di liquirizia. Sul piatto dava l’effetto sperato e Marco ne fu soddisfatto. Gabriele sembrò apprezzare il sapore intenso della liquirizia, che emergeva dalla cremosità del macaron, mentre la vaniglia ne bilanciava l’amarezza.
Il vino li aveva resi euforici e svagati, così non si accorsero dell’ora né del diluvio che fuori si alternava a raffiche di vento. Si ripromisero di vedersi a Edimburgo, verso l’estate. Ma era già tempo di andare? Cosa si erano detti, dopotutto? Marco sapeva di Caterina e di quella fase conclusa della vita sentimentale di Gabriele, rimasta sguarnita. Si erano rivisti? O anche lei si era aggiunta all’elenco dei sommersi? Gabriele gli disse, come parlando di sé, che non doveva lasciarsi sfuggire Filip. Aveva ragione. Ma Filip sarebbe partito per occuparsi del suo documentario. Il progetto era piaciuto e aveva ricevuto fondi europei. La destinazione era la Norvegia, con una ONG, per mostrare i primi risultati di un programma sulle energie rinnovabili in un luogo impraticabile come il Circolo Polare. Chissà quando sarebbe tornato. A quanto pare non sarebbe neppure stato facile comunicare. E Marco pensava di non avere le forze di sopportare un altro distacco e restare in attesa. Quanto tempo sarebbero resistiti? Quanto tempo potevano passare davanti a uno schermo, prima di stancarsi? Il mantenimento dell’affetto a distanza sarebbe stato faticoso, così come accontentarsi dei pixel e accorgersi, poco alla volta, dell’inaridirsi dei discorsi, dei riferimenti non còlti e dei contesti ormai impossibili da comprendere. Questa possibilità schiudeva in lui una sensazione simile all’abbandono, ma in una versione edulcorata e attutita. Forse, era solamente la spia del giro definitivo del tempo: sarebbe tornato al principio, quando era da solo, senza Filip, senza amici, e il lavoro era tutta la sua vita.
Marco sapeva che questi pensieri lo avrebbero accompagnato, una volta finito di ripulire la cucina, fuori dal Chez Pierre e lungo le strade vuote, rischiarate dalla cupola spettrale di St. Paul; lo avrebbero seguito per l’intera nottata e il mattino successivo e poi ancora, a casa di Filip e fin dentro il sonno. Gabriele, a sua volta, sul treno per Edimburgo, avrebbe passato ore e ore, inquieto, a rimuginare sul ciclo di eventi che da qualche anno lo stava separando sempre più da casa, dal ritorno, dalle persone con le quali voleva stare.

Check. Erano le due di notte e Marco, inquieto, aveva trascorso ormai una decina di minuti in un silenzio grave, lontano dal salone, lasciando da solo Gabriele, intento a sua volta a riflettere sul futuro. Stava sistemando la cucina, in modo da trasformarla in un luogo asettico e limpido, come una sala operatoria. Appena si delineò sul pavimento un’ombra, Marco capì che Gabriele era in piedi sull’uscio, appoggiato con una spalla allo stipite. Gli occhi bassi di tanto in tanto lo guardavano. Era immobile sulla soglia del tempio, del tutto indifferente alla sua sacralità. Gabriele si mosse e si avvicinò in silenzio; Marco gli legò le braccia intorno alle spalle. Sospirò, sentendo ricambiare la stretta. Gabriele avvertì la magrezza irreale del suo amico e dubitò, percorrendone la schiena, della sua esistenza. Cos’era rimasto della sera? Del loro incontro? Marco, inquieto, gli confidò di non voler affrontare un’altra partenza e, con tutto l’affetto che possedeva, fino al limite ultimo dell’orgoglio, prima della supplica, gli sussurrò di restare per la notte e aspettare insieme il mattino. Sarebbe stato magnifico averlo con sé per poche ore ancora, sparse disordinatamente nella notte come una manciata di sale, tra il sonno e la veglia, nel tentativo di esorcizzare il futuro. Gabriele rimase in silenzio, stringendolo appena, prima di sciogliere la presa.

Quando le luci del ristorante si spensero, e il buio della notte calò risoluto all’interno, due figure uscirono dal Chez Pierre e s’incamminarono lungo King St., verso un Tamigi quasi immobile. Vicine una all’altra, avanzavano nella stessa direzione cercando riparo dalla pioggia e dal vento, dentro la notte.