Ciao Francesca, di Daniele Israelachvili

Ciao Francesca

di Daniele Israelachvili


Se sei un pendolare è molto probabile che tu trascorra poco tempo in famiglia, faccia poca attività fisica e anche poco sesso. Senza contare il fatto che passi poco tempo a giocare con tuo figlio; ma magari di questo non ti devi preoccupare, considerando il poco sesso che fai è probabile che tu un figlio non ce l’abbia nemmeno. A tutto questo bisogna poi aggiungere dolori, stress, obesità e insoddisfazione. Non lo dico io, lo dicono le statistiche.

Sono sei anni che esco di casa, cammino per circa due minuti, mi fermo e aspetto che arrivi l’autobus. Poi passo le fermate Sardegna, Bitone, Pontevecchio, Mazzini Stazione, Fermi, Laura Bassi, Alemanni, Albertoni, Porta Mazzini, Torleone, Strada Maggiore, Rizzoli, Indipendenza, VIII Agosto e, finalmente, Autostazione. Altri cinque minuti a piedi per raggiungere il binario dove, se non ci sono stati scioperi, guasti al motore o persone che si sono suicidate, mi aspetta il treno per Ferrara. Una volta arrivato scendo e mi incammino verso il parcheggio, dove recupero uno Zip usato sul quale farò il mio ingresso trionfale nel parcheggio dell’azienda. Durante le otto ore, più pausa pranzo, che passo in ufficio, fisso il computer, leggo mail, scrivo mail, archivio mail, rispondo al telefono, stampo fogli, butto fogli. Per svagarmi vado a prendermi un caffè alla macchinetta a metà mattina e un altro a metà pomeriggio, fumo una sigaretta dopo pranzo sul retro del magazzino e, unico momento di hybris che mi concedo, ogni quindici del mese aspetto che la mia collega esca dalla stanza per andare alla riunione denominata in maniera originale “riunione di metà mese”, poi mi masturbo. Quando termina il mio orario di lavoro, prendo lo Zip e torno in stazione. Lascio il motorino nel parcheggio e vado sul terzo binario, dove aspetto per circa dieci minuti che arrivi il treno che mi riporterà a Bologna, sempre che non ci siano stati scioperi, guasti al motore o persone che si sono suicidate nel frattempo. Dopo altri trenta minuti scendo dal treno e mi incammino verso l’Autostazione in attesa dell’autobus che farà lo stesso percorso della mattina, ma all’inverso: VIII Agosto, Indipendenza, Rizzoli, Strada Maggiore, Torleone, Porta Mazzini, Albertoni, Alemanni, Laura Bassi, Fermi, Mazzini Stazione, Pontevecchio, Bitone, Sardegna e, finalmente, Cagliari. Una volta arrivato, due minuti a piedi ed entro in casa.
Sei. Lunghi. Anni.

Nevica da giorni ormai. Questa mattina nel vagone ci siamo solo noi due, uno di fronte all’altra. Mi guarda di sfuggita e accenna un sorriso, prima di riabbassare lo sguardo sul libro. Prendo coraggio e mi alzo per sedermi accanto. Dopo un attimo di esitazione le scosto i capelli e la bacio sul collo. Lei dice solo “no, ti prego” ma con poca convinzione. Divento sempre più audace mettendole una mano sul seno, che lei prontamente stringe, senza però fermarmi. Il treno continua il suo viaggio in mezzo a una campagna ricoperta di neve, e a parte la voce registrata, continuiamo ad essere solo io e lei.  Ho voglia di te, qui e adesso le dico, poi le sfioro la guancia, appoggiando l’indice sulle sue labbra. Lei le schiude e per me è come ricevere un segnale. Mi sporgo in avanti e la bacio. Dopo un po’ si stacca e, con un filo di voce, mi dice no, ti prego, ma è un attimo e siamo già a carponi in mezzo alle quattro sedute. Abbasso i suoi jeans e finalmente sono dentro di lei. No, lì no mi supplica, ma ormai è tardi, e mentre con le mani le accarezzo
“Perché continui a fissarmi?!”
“No niente, è che stavo solo pensando…”.
“Ecco bravo, continua a pensare senza guardarmi allora.”

Ultimamente mi capita sempre più spesso di sognare ad occhi aperti. Proprio come ne “Il fantastico mondo di Amelie”, fuggo dalla realtà. Solo che invece di rifugiarmi nei piccoli piaceri, come rompere la crosta della creme brulè con la punta del cucchiaino, far rimbalzare i sassi sul canale Saint-Martin o tuffare la mano in un sacco di legumi, io mi masturbo compulsivamente. O meglio, mi masturbavo. Da quando la mia collega è tornata prima dalla “riunione di metà mese” ho detto basta e mi sono deciso ad andare in terapia. Francesca è stata comprensiva, all’inizio aveva pure fatto finta di non aver visto niente, anche se da quel momento in ufficio è calato un silenzio assordante.

Ieri pomeriggio mi sono fatto coraggio e ho provato a spiegarle come mi sono sentito in questi ultimi mesi, a dirle che ci tengo alla nostra amicizia, ma di tutto il discorso che avevo preparato mentalmente, alla fine mi sono incartato nel tentativo di rassicurarla sul fatto che non mi ero mai masturbato pensando a lei. E niente, si è risentita ancora di più. Così ho deciso di scriverle:

Ciao Francesca,

questa è l’ennesima email che provo a scriverti, dopo averne cestinate non so quante. Ogni volta che le rileggo mi sembra sempre di non riuscire a centrare il punto, che voglia solo giustificarmi, come se avessi fatto qualcosa di sbagliato. Beh, innanzitutto, voglio che tu sappia che masturbarsi al lavoro è più comune di quanto si creda. Il mio terapeuta dice che almeno il 40% degli uomini lo fa in ufficio o nei luoghi dove svolgono le loro mansioni. Il 40% è una bella cifra, potrebbero esserci dentro anche tuo padre o il tuo ex. Non voglio metterla sul personale, è che quando ti sei arrabbiata e mi hai dato dell’animale, mi hai fatto male. Anche se in un certo senso avevi ragione. Tutti i primati praticano atti di autoerotismo, usando qualsiasi mezzo come le mani, la bocca, i piedi, le code prensili nel caso di scimmie o anche oggetti. Pensa che i delfini e le orche nei parchi acquatici si arrangiano strofinando il pene contro le pareti della vasca o su corde e getti d’acqua, mentre in natura sembra cerchino apposta acque basse con ciottoli arrotondati per strofinarcisi su, cullati dalle onde. È un bisogno talmente impellente che cavalli, asini, buoi, cervi e persino elefanti, non potendo contare né sulle mani né sulla bocca né sulla spinta di galleggiamento dell’acqua, devono invece adottare un’altra tecnica: fanno rimbalzare il pene contro l’addome. Si masturbano saltando, capisci! Quello che voglio dire è che non è stato il mio comportamento ad essere patologico, ma l’assenza di controllo rispetto quel determinato comportamento. E se entrando in ufficio avessi visto che mi incidevo la pelle con un coltello, in quel caso, avresti avuto pena di me? Mi avresti considerato un animale, o un uomo che soffre? Perché di questo si trattava… Adesso penserai per sempre a me solo come quello che si fa le seghe in ufficio, ma ricordi quando Paolo ti ha lasciata ed erano tre giorni che non uscivi di casa? Sono venuto da te truccato da Ronald McDonald e ti ho convinta ad andare a mangiare quell’orribile panino di pesce che, non so come sia possibile, ti piace così tanto. E gli avanzi di parmigiana che a volte ti porto, quella che fa la mia mamma e che ti fa impazzire? Beh, sappi che mia mamma non sa cucinare. La compro nella rosticceria sotto casa. Oppure ti ricordi quando mi hanno promosso e per festeggiare siamo andati a fumare in quel narghilè bar sulla statale? Ti sei addormentata e quando hai aperto gli occhi e mi hai chiesto perché non ti avessi svegliata, ti ho risposto che mi ero appisolato anche io, te lo ricordi? Non era vero. Ero rimasto lì tutto il tempo, fermo immobile, a guardarti… Lo vuoi sapere perché mi hai beccato quel giorno? Tenevo gli occhi chiusi, ecco perché. Non lo avevo mai fatto. Le altre volte avevo sempre guardato un video sul mio computer, in modo da non perdere di vista il corridoio. Ma quel giorno no, pensavo a te. Eri così bella quella mattina, o forse lo sei sempre stata, e io ero solo troppo depresso per accorgermene. Quel giorno non vedevo l’ora che andassi a quella riunione per poter chiudere gli occhi e rimanere solo con te. Avrei potuto dirtelo, chiederti di uscire, fare qualcosa che non fosse fare quello che ho fatto? Sì, avrei potuto, ma non l’ho fatto. Quindi ecco cosa volevo dirti: quando ho detto che non pensavo a te, in realtà era una bugia. Non faccio altro.

Dopo averla riletta un paio di volte, tiro su la testa perché sento il treno rallentare. Guardo fuori dal finestrino e penso: “VIII Agosto, Indipendenza, Rizzoli, Strada Maggiore,…”, poi riabbasso lo sguardo, leggo “Ciao Francesca” e cancello l’email.

 

Comincio a scrivere i primi racconti durante le lezioni di Microeconomia all’università, ma non lo dico a nessuno perché ai miei occhi è come se suonassi l’ukulele nudo. Ancora oggi, due volte alla settimana mi metto la tuta e scendo in cantina a scrivere, dicendo a mia moglie che vado a correre. Alcuni racconti sono apparsi su ’tina, RISME, Rivista Blam, Bomarscè, Clean, Split, L’Irrequieto, Narrandom, l'Inquieto e Malgrado le mosche.