Devo dirvi una cosa, di Vincenzo Giuffrida

Devo dirvi una cosa
di Vincenzo Giuffrida

“Mamma, papà, devo dirvi una cosa”. “No, così non va bene”, pensò Luca. Da giorni cercava le parole giuste ma non riusciva a trovarle, “Vi devo parlare”, “Ho una cosa da dire”, “Sento un’urgenza dentro”. No, neppure così suonava bene.
Si è alzato dalla sedia e si è messo a camminare al centro della stanza in linea retta e poi in cerchio, alternare quelle due forme lo aiutava a pensare: “Possiamo parlare un attimo?” Troppo remissivo, più deciso: “Sedetevi che dobbiamo parlare”. Troppa enfasi, meglio smorzare: “Ora che siamo tutti insieme, ne approfitto per dirvi una cosa”.
Da settimane si sentiva teso e spaventato, e non riusciva a studiare, come avere un corpo estraneo incastrato in gola. S’è sdraiato sul letto e il soffitto mansardato scendeva dolcemente come una carezza sulla guancia: “Mi avete partorito voi, sono il vostro frutto marcio”. Sbagliato, non era colpa di nessuno: “Ho bisogno di voi, aiutatemi”. È balzato in piedi, “La vita è mia e ne faccio quello che voglio”. “La vita è la mia, ma voi dovete starmi vicino”. “Non ci credereste mai, ebbene”.
“No, non ci siamo”, s’è detto. Nessuna di quelle era la frase giusta. Avrebbe dovuto usare parole semplici e incisive. Scendere in profondità con leggerezza. Andare dritto al punto, ma introducendolo con cura. Avrebbe esordito così: “Mamma, papà, quello che sto per dirvi in realtà non vi riguarda affatto. Ve ne parlo perché sono egoista e perché devo proteggermi”.
Diretto e sincero: “Nella mia vita avrò bisogno del vostro supporto costante, emotivo ed economico. Vi chiamerò nelle notti di solitudine: se sarà panico mi calmerete, se piangerò mi asciugherete le lacrime, se vi racconterò una storia l’ascolterete. Avrò bisogno di soldi e me li dovrete dare, anche quando sarò troppo grande per chiederveli. Un lavoro me lo troverò, certo, un lavoro qualsiasi. Mi siederò alla scrivania a fare tutti i giorni le cose che non mi interessano. Ma vi dico già che non avanzerò di carriera. Non asseconderò i miei capi, né stringerò legami con i colleghi, e non escludo che potrebbero licenziarmi, più e più volte.
Nelle pause caffè con gli altri fingerò di essere come loro, per tutelarmi. Ma in realtà sarò sempre qualcosa che non conoscono. Cadrò, e dovrete rialzarmi con soldi e parole sincere. Perché per quelli come me non c’è un manuale di istruzioni, siamo un finale che non è stato raccontato”.
Forse stava esagerando, ma oramai non poteva più tirarsi indietro: “L’avrei voluta anche io una casa con tante stanze, una famiglia tutta mia con cui programmare figli, mutui e vacanze. Invece credo che vivrò solo, con cani e gatti. Certo, non escludo di incontrare qualcuno lungo la strada, ma non sarà facile, perché ho l’impressione che la maggior parte di noi viva nascosto, fingendo di essere altro. E poi, anche a trovarla una persona, sensibile e comprensiva, temo che i rapporti saranno difficili, ostacolati da vanità e competizione, tutti i giorni alla ricerca di qualcosa di nuovo. Perché forse è così che siamo noi, sempre desiderosi di passare da una storia all’altra”.
Luca ha sentito finalmente la spinta giusta e si è deciso ad andare di sotto a parlare con loro. Un gradino dopo l’altro pensava a come concludere il suo discorso: “Perché quelle brutte facce, cosa state pensando?” Il soggiorno compariva alla fine della scala, “Tranquilli”, dalla cucina arrivava rumore di piatti, “Volevo dirvi che”. Alle sue parole il padre avrebbe reagito sbattendo un pugno sul tavolo, la madre con le lacrime agli occhi avrebbe detto: “Ma che abbiamo sbagliato con lui?” Oppure sarebbe rimasta zitta, lasciandolo solo. “È anche colpa tua”, avrebbe detto il padre accusandola, e lei non si sarebbe difesa. Avrebbe invece osservato padre e figlio litigare feroci, preparandosi un caffè in silenzio.
“Via da questa casa!”, gli avrebbe urlato, mentre lei avrebbe goduto nel punire quel figlio per tutte le aspettative disattese.
Arrivato in cucina Luca ha guardato il soffitto dritto e distante, la cena pronta sul tavolo, e ha sentito il fiato mancargli nel petto, la testa svuotarsi di tutte le parole.
Ha deciso che non avrebbe detto niente. Troppo presto. Avrebbe aspettato altri due, tre, forse quattro mesi. Si è seduto al suo posto, ha portato la forchetta alla bocca, e ha osservato i suoi genitori immobili e opachi nel riflesso della portafinestra, attraverso loro, fuori, il cielo scuro. Ha deglutito: «Mamma, papà».

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Sono nato in Sicilia e oggi vivo all’estero. Ho più di trent’anni e meno di quaranta, per lavoro scrivo codici, nel tempo libero scrivo storie. Ho frequentato l’edizione 2020/2021 di «Trenta Cartelle». Questo racconto è contenuto nell’e-book Vie di fuga, che contiene tutti i racconti degli allievi del II Modulo del laboratorio.