Occhi, di Carmelo Vetrano

OCCHI

di Carmelo Vetrano

Gli occhi di mia madre sono bianchi e gialli. Non è vero, sono marroni.
«Ma’, hai gli occhi bianchi e gialli», le dico a volte dalla poltrona. Lei in genere è seduta sulla sedia di vimini – la testa piegata per un rammendo o per la lettura del Vangelo, o del volantino dell’A&O – solleva gli occhi e mi vede ridere. «Tu si’ scemo». Una ruga sulla sua faccia si aggiunge a quella del giorno prima, e di tutti i giorni passati. Non riesco più a contarle come facevo una volta.
In questo momento i suoi occhi sono addirittura neri, colpa della penombra nella quale viviamo per gran parte della giornata.
«Cammina un po’», dice.
Io sto con la schiena scomposta, le braccia che pendono dai braccioli. Vorrei tirarmi su, ma mi manca la voglia, e la forza.
«Sto bene qua.»
«Allora stai dritto, che mo’ viene il tecnico della lavatrice.»  
Quando non deve leggere, o fare altro, la tapparella della portafinestra la tiene sollevata a metà. Se va in bagno o in camera da letto io la abbasso, o la alzo, di pochi centimetri. La prima volta che l’ho fatto è tornata e si è accorta che l’asse attorno al quale gira il suo mondo aveva cambiato inclinazione, ma non sapeva ancora perché. Per un po’ si è mossa nervosa, dalla sala è andata in cucina, ha messo a posto pentole e ciotole rimaste ad asciugare sul lavello, e intanto aspettava che la sua mente rilevasse i centimetri che avevano messo in pendenza ogni cosa. Quando li ha scovati è venuta da questa parte, mi è passata accanto, si è fermata davanti alla tapparella e l’ha rimessa a posto. «Come hai fatto?», mi ha chiesto, dopo che era tornata a sedersi. Le rughe distese, la rabbia snebbiata per qualche secondo dalla speranza che io avessi potuto danzare fino alla portafinestra. Ho allungato il braccio dietro la poltrona e le ho fatto vedere che da lì posso gestire la vita della tapparella. La delusione è tornata sulla sua faccia e la pelle si è riaggrovigliata. Ha chiuso gli occhi, si è fatta scivolare in basso e ha appoggiato la testa allo schienale. «No’ lla toccare».

Stamattina mi ha chiesto se mi va di mangiare la carne. Ho inspirato forte, mi sono sollevato sulle braccia e poi mi sono lasciato ricadere. È la mia manifestazione di insofferenza più riuscita, quella che lei assorbe meglio, e per la quale ha già una risposta pronta: anche per lei, un respiro forte. Con un gomito ho fatto cadere una stampella da un bracciolo. Lei ha fatto un sussulto, l’ha guardata con indifferenza, ha detto che se poi mi viene fame sono cazzi miei. Quando i cazzi compaiono nelle sue frasi vuol dire che le emozioni le stanno facendo confusione in testa, ma solo lei è autorizzata a nominarli; se compaiono nelle mie, sono volgare. Comunque si è alzata ed è andata lo stesso a tirare la carne fuori dal congelatore. Da qui riesco a vedere tutto un lato della cucina. Una nuvola di vapore le ha avvolto la testa quando ha aperto lo sportello, ha poggiato le bistecche sul ripiano accanto al frigo, se le è fatte cadere dalle mani una alla volta. Toc. Toc.

Il citofono suona, spingo i gomiti sui braccioli, urto l’altra stampella e pure quella va a sbattere sul pavimento.
«Non fare casino», e va verso la porta.
Per terra ci sono adesso due bastoni di alluminio, dritti davanti a me; quando lei mi passa vicino i suoi piedi ne sfiorano uno e lo spostano un poco. Mi piego per raccoglierlo, poi cambio idea e lo lascio lì. Lo raddrizzo solo un po’ con la punta della scarpa e lo guardo per qualche secondo, il groviglio di polvere e pelucchi attorno al gommino, il manicotto fissato nella parte alta.
Dall’ingresso, oltre a quella di mia madre, arriva un’altra voce femminile. Se non è il tecnico, chi è? Mi tiro ancora su e stringo forte i braccioli; il respiro si ingrossa. «Di qua», sento dire a mia madre con il tono gentile che le viene solo con gli estranei. La immagino mentre si scosta per fare spazio. Ho il collo rigido, e vorrei non avere addosso la felpa della sagra della focaccia che ho comprato tre anni fa. Nella stanza entra una ragazza, non avrà più di venticinque anni. Capelli castani, lunghi, legati dietro con un elastico. Indossa una tuta da tecnico e regge la valigetta degli attrezzi con entrambe le braccia, gli occhi le si stringono al contatto con la penombra della stanza; anche i suoi sono marroni. Si accorge di me e fa un sorriso; vede le stampelle, un altro sorriso.
«Non ci aspettavamo una donna», dice mia madre con una voce allegra che una volta usava anche con me. Non ci aspettavamo, come se i miei pensieri fossero suoi.
«Un caffè lo prende?»
La ragazza scuote testa e spalle, la coda dei capelli si muove.
«Grazie, ne ho presi troppi.»
«Un succo?»
Fa una specie di inchino.
«E va bene.»
Alza lo sguardo alla foto sul muro dietro di me: dentro ci sono io che ritiro la coppa di un torneo di karate.
«Posso vedere la lavatrice, intanto?»
Si spostano in bagno, lei si tiene la valigetta in grembo e segue mia madre con impazienza; le sta addosso, come cercasse l’occasione giusta per superarla. Mi raddrizzo ancora sulla poltrona e mi schiarisco la voce, anche se non ho niente da dire. Loro invece di là parlano, le voci arrivano attutite ma non mi perdo quasi una parola. La lavatrice da due mesi crede di essere un elicottero. Al momento della centrifuga sbatte forte contro il muro e il lavandino, si solleva. Avesse due pale montate in cima prenderebbe il volo. Non mi piace il modo in cui mia madre spiega alla ragazza il problema, facile che possa confonderla. Prendo il telecomando che era finito sotto al culo a accendo la tv. Mia madre torna di qua, mi passa davanti e prosegue fino in cucina. Prende il succo dal frigo.
«Devi dirle che il motore sbatte.»
Si accorge che ho parlato, richiude il frigo. Solleva la mano libera fino alla credenza dei bicchieri e tende il collo da questa parte.
«Che hai detto?»
Glielo ripeto.
«Tutto tu, sai.»
Mette un bicchiere sul vassoio e svita il tappo del succo.
«Se non glielo dici non lo capisce che sono le molle.»
«E va’ tu, va’.»
Nel dirlo ha steso il braccio verso di me, dal cartone del succo è uscito uno schizzo, l’ho visto per un attimo quando ha intercettato la luce della finestra.
«Mo’ me lo fai buttare tutto a terra.»
Riempie il bicchiere e richiude il cartone, io cambio un paio di canali, quando mia madre passa di nuovo con il vassoio mi piego per afferrare una stampella, è a solo un paio di centimetri dai suoi piedi instabili. Esito, poi la raccolgo, la metto in piedi accanto alla poltrona e me la tengo stretta sotto al braccio.


A quest’ora, in tv, non c’è niente di buono, ma a volte avere davanti un estraneo che ti parla è rilassante come guardare una cascata di acqua limpida. I programmi migliori li fanno quando si presume che la gente non sia ancora uscita per andare al lavoro, o magari è già tornata. Il resto è intrattenimento per casalinghe, televendite e telefilm di un secolo fa.
Sento dei passi, poi la voce della ragazza che dice «Faccio presto, il furgone ce l’ho proprio qua sotto», e senza rendermene conto mi ritrovo a schiarirmi la voce un’altra volta. Vedo la sua figura che compare veloce nella sala e poi la schiena che sparisce nell’ingresso. Per qualche secondo la frustrazione di non aver potuto usare la voce tiene in ostaggio ogni forma di pensiero, ogni muscolo. Sento prurito sotto a una gamba, infilo una mano là sotto per grattarmi, poi mi aggiusto meglio sulla poltrona. Questa è l’ora in cui di solito mi viene un po’ di sonno, ma oggi non riesco nemmeno a tenere la schiena appoggiata alla poltrona. Il citofono suona di nuovo, mi aspetto di sentire mia madre che sciabatta di qua, ma ho perso le coordinate della sua posizione. Poi le ritrovo, insieme ai suoi passi asimmetrici.
«Potresti aprire anche tu.»
Raggiunge il citofono e dopo che ha aperto va in cucina. Sciacqua qualche bicchiere nel lavello e lo ripone nella credenza. Nell’ingresso di nuovo rumori, scarpe che strusciano sul tappeto. La ragazza ricompare nella sala.
«Eccomi.»
È come se stessimo ripetendo la scena del suo arrivo. Sorride meglio, stavolta. Sembra così a suo agio che la pinza le scivola dalle mani, c’è un doppio tonfo leggero, prima quello del metallo contro la mattonella, poi quello del manico gommato.
«Oddio», e si piega per terra.
Avrei voluto trovarmi lì vicino, abbassarmi insieme a lei per poter incontrare con il naso i suoi capelli. Lei afferra la pinza, resta piegata e strofina la mattonella con i polpastrelli.
«Mi sembra tutto a posto», dice, la faccia rossa e colpevole, a mia madre che si è appena affacciata nella stanza. Non credo che mia madre si sia accorta di quello che è successo, le vedo negli occhi la curiosità.
«Sì, non preoccuparti», dico. «Non è successo niente.»
La ragazza mi guarda – lo sguardo di chi si era dimenticato che ero lì – ma non è da me che vuole essere tranquillizzata. Mia madre si muove in silenzio, le mie parole l’hanno resa dubbiosa, vuole sapere, capire.
«Non è successo niente», dico di nuovo, ma nessuno mostra di avermi ascoltato.
La ragazza indica una mattonella.
«Mi è caduta la pinza.»
Mia madre strofina il punto incriminato con la punta del piede, la suola della scarpa si muove come uno scanner.
«Sì, è a posto.»
Ma non guarda lei, guarda me.
Il pavimento è salvo, nessuno si è fatto male, alla ragazza non resta che tornare di là a continuare il suo lavoro; però esita, come se aspettasse un’assoluzione che non arriva. Vorrei dirle, È mia madre, va’ e finisci quello che devi finire. Ed è quello che di sicuro sta per fare – è per questo che è venuta –, e invece con la pinza indica la stampella che svetta al mio fianco come la canna di un fucile.
«Cosa ti è successo?»
Mi sento addosso gli occhi di mia madre, so che è curiosa di vedere come me la cavo. Io mi schiarisco la voce ancora una volta e raddrizzo la schiena. Con il gomito urto la stampella, che finisce di nuovo a terra. La ragazza fa uno scatto in avanti per aiutarmi – non mia madre, che continua a occupare le stesse mattonelle di prima. Io dico «Non preoccuparti», e mi abbasso. Adesso succede, ci troviamo entrambi con la testa chinata e la faccia a pochi centimetri. Annuso più forte che posso senza farmene accorgere; dal suo collo arriva un odore di frutta. Mi distraggo e scivolo in avanti, sono costretto ad appoggiare per terra prima un ginocchio, poi le mani. «Lascia, lascia», dico. Con il corpo sono sopra al lungo bastone di alluminio, come un lottatore che tiene bloccato l’avversario. Più in là ci sono le gambe di mia madre, rigida e impassibile come una regina. Prendo anche l’altra stampella, le puntello entrambe per terra e mi sollevo un poco con molta fatica. Ho la vescica gonfia, ma posso resistere. Provo a sorridere, e forse ci riuscirei se lo sforzo non costringesse le mie labbra a contrarsi.
«Un incidente con la macchina.»
Conosco le maledizioni che in questo momento mia madre sta mandando alla persona che guidava la mia macchina, e alla cruda fiducia negli altri. Le braccia della ragazza offrono aiuto, ma sono sicuro che lei vorrebbe essere già fuori da questa casa.
«Ce la fa, ce la fa», sento dire a mia madre quando provo a muovermi. Mi dirigo verso la ragazza, l’orlo dei pantaloni struscia sul pavimento; un braccio non regge lo sforzo e vado giù, ma riesco a tenermi. Lei stavolta è più decisa, mi prende le braccia e mi aiuta a raddrizzarmi.
«Che bravo», dice mia madre. «Un attore, proprio. Un attore.»
Sulle labbra della ragazza compare un sorriso storto, i suoi occhi si riempiono di imbarazzo. Mi chiede se voglio sedermi, e questa dovrebbe essere, immagino, la soluzione migliore per tutti e due. Resto aggrappato al manicotto, la ringrazio, le spiego che ho come obiettivo quello di raggiungere una delle sedie del tavolo da pranzo.
«Allora torno di là.»
Annuisco e lei si allontana, ma si gira a guardarmi una volta. I muscoli delle braccia cominciano a farmi male e il respiro si sta trasformando in affanno; resisterò finché resisterò.
Mia madre viene verso di me.
«Quand’è che impari?»
La voce è più bassa e rauca di quella che aveva prima, le rughe si sono addolcite e gli occhi sono rossi. Si abbassa a fatica sui miei piedi e mi solleva l’orlo dei pantaloni. La chiazza rada al centro dei suoi capelli si è allargata, quelli senza la tintura hanno ripreso a sgorgare dal centro della cute. Con calma fa un doppio risvolto, si assicura che non si srotoli e si rialza tenendosi una mano sul fianco. Con uno strattone mi tira su i pantaloni. Dal bagno arrivano colpi metallici che sembrano rintocchi di un pendolo frettoloso. Ci guardiamo per un secondo o due, poi lei si allontana di nuovo. Il rintocco metallico scompare, ma continuo a sentirlo in testa. Lo prendo come un incoraggiamento. Guardo il tragitto che manca fino alla sedia, faccio un respiro e, quando riparto, perdo il controllo sulla vescica; sento i pantaloni che si bagnano. La ragazza è di nuovo nell’ingresso, ha in mano un grosso gancio metallico, la faccia arrossata, qualche capello sfuggito alla stretta dell’elastico. Mi chiede di mia madre e io spero che non si accorga del rivolo caldo che mi scivola lungo la gamba. Vorrei mettere le mani là in mezzo per fermarlo, ma non posso; se lo facessi, io perderei l’equilibrio, e mia madre la sua illusione. 

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Il mio paese d’origine è San Pancrazio Salentino, in provincia di Brindisi (sono nato in un ospedale dei dintorni nel 1975). Mi sono laureato in Lettere moderne all’università di Lecce e dal 2006 vivo a Verona. Alcuni miei racconti sono apparsi su Cadillac, Pastrengo, Reader For Blind, Purpletude, Grafemi e Risme.