C.I.G, di Alessio Cappelli

C.I.G.

di Alessio Cappelli

In genere la cena finiva sempre che, appena ne avevo abbastanza di mangiare, mi veniva un po’ di torpore, e allora mi chinavo, andavo a poggiare la testa sopra le gambe di mio padre e lì mi appisolavo, lo stomaco pieno, il sonno che mi avvolgeva tutto.
Era estate, la finestra era aperta, si sentiva il verso acuto e si vedevano le traiettorie veloci ossessive delle rondini, il cielo ingrigiva ma lentamente, il crepuscolo si distendeva interminabile e avrebbe ceduto il passo alla notte ma solo molto più tardi, quando io sarei già stato giù, addormentato da un po’, così, come sempre, sulle gambe di mio padre in calzoncini, le ginocchia sempre coperte dal tovagliolo, un po' per buona educazione e un po’ per l’abitudine professionale di ogni cameriere.
Quell’estate, proprio quando io finivo la quinta elementare, dopo un lungo periodo di crisi dell'azienda per cui lavorava e in generale dell’economia italiana, lui era finito in cassa integrazione.
Io, in realtà, neanche lo sapevo, allora, e per lungo tempo questa situazione mi fu nascosta. Troppo difficile da spiegare, probabilmente, a un moccioso che aveva solo fame di pane e mortadella, di correre sui campetti di pallone e di rompere le scatole alla sorella maggiore.
Non lo seppi neanche quando, pochi giorni dopo quella sera, i miei mi portarono e per la priva volta a passare il resto della stagione, fino a che non fossero iniziate di nuovo le scuole, in campagna dai nonni, tra gli orti di patate e l’uva che maturava.
Nulla, e veramente nulla, era trapelato. Io avevo ben altri problemi cui pensare: in particolare, mia sorella era partita prima di me per andare in Inghilterra grazie a una vacanza studio organizzata dal Comune, mentre i miei cari amici del piano di sotto, fratello e sorella, si erano appena trasferiti in un appartamento irraggiungibile per me, lasciandomi solo, per la prima volta senza nessuno con cui giocare.
Anche quella sera, come da un pezzo, per la cena mia mamma non aveva cucinato. Si badava al risparmio, mi sono reso conto dopo, quando ho saputo quale fosse la situazione economica. Quindi come ogni sera avevano fatto la comparsa sul tavolo le rosette e gli affettati, e tra questi i meno costosi, la mortadella, la coppa, e poi un formaggio morbido e privo di sapore.
Dopo cena suonarono al citofono, mentre chino sul grembo di mio padre sentivo il cinguettio rotante delle rondini e, cullato dalla situazione, dai suoni e dal calore dell'estate, mi stavo avvicinando al sonno. Non avevamo citofono, noi, ancora c’erano molte case con solo il campanello al livello della strada, solo un bottoncino in fondo e un altoparlante in alto, al terzo piano, dentro casa nostra, che riportava il suono. Si apriva il portone pigiando un pulsante, ma non c'era interazione di voci. Si apriva, poi ci si affacciava al pianerottolo, e si gridava “chi è”, e mia madre, in vestaglia leggera a fiori, allacciata in vita, sbracciata, si affacciò e chiese “chi è”.
E io che non vedevo, immerso nel principio del sonno, con la testa che giaceva sulle gambe di mio padre, lo sguardo coperto dal lembo della tovaglia, sentivo però che la mamma tornava in cucina verso il tavolo non ancora sparecchiato: “Non rispondono, mica sai se deve venire qualcuno? L'amministratore, forse? L'abbiamo pagato, il condominio?”
Ma altro mio padre sapeva.
Sentii i suoi muscoli delle cosce irrigidirsi, al punto che mi fecero sobbalzare la testa, da quello che fino a un istante prima sembrava un morbido cuscino. Saltò letteralmente sulla sedia.
Poi: “L'amministratore? No, non è lui: sono loro” disse, e con un carezzevole spintone mi fece rotolare tutto sotto il tavolo, d'improvviso autoritario ma dolce, e poi vidi che il sipario della tovaglia che sporgeva dal bordo si abbassava, a coprirmi ancora di più la vista.
“Resta lì”, sentii sibilare, evidentemente al mio indirizzo, mentre il panorama spariva del tutto e riuscivo solo a vedere i piedi di mia madre, che calzavano delle ciabatte di plastica, arancioni, di quelle con la suola tutta piena di piccoli buchi, che si vendevano ai mercatini all’aperto.
“Che faccio, chiudo, chiudo?” diceva mia madre, molti toni al di sopra della suo normale tranquillo modo di parlare.
“Ormai è tardi, lascia che vengano” disse mio padre, e la sua voce, anche, era completamente diversa dal solito, completamente asciugata, rimbombante, come se venisse da una caverna, come quella di Polifemo, il mostro che avevo visto in tv quando cercava di uccidere Ulisse.
I piedi di mia madre si allontanarono, andarono evidentemente verso la porta per ricevere quelli che arrivavano. Poi vidi altri piedi che si piazzarono davanti alla tavola; erano due persone e avevano delle scarpe nere a mocassino, un po’ impolverate. I calzoni, neri, erano lunghi, quasi a ricoprire le scarpe. Invece i piedi di mia madre, vidi scandagliando quel po’ di pavimento che riuscivo a vedere da là sotto, stavano più lontano, accostati alla porta. Erano un po’ lucidi, si erano coperti di un velo di sudore.
“Allora?”  sentii dire, doveva essere uno di quei due.
“Allora cosa?” domandò la voce di mio padre: ma tagliente, irriconoscibile. “Voi, voi siete venuti a disturbare” diceva, nascondendo la sua cadenza romagnola, per dare maggiore rigore alle sue parole. “Ora voi dovete dirmi cosa volete. Che ci siete venuti a fare, qui? Noi a quest’ora ceniamo.”
“Certo, certo” rispose la voce, tranquilla e, a quello che mi sembrò, insinuante. “Certo”, ostentatamente ironica l'altra che prendeva il comando del dialogo, “con i soldi nostri, cenate.”
“E avevi promesso che per ieri saresti venuto a riportarceli, te lo ricordi o no, questo?” Minacciosa, l’altra voce, doveva essere di quello a destra, che mentre parlava strusciava un piede indietro, come in tv avevo visto fare al toro che prende la rincorsa per la carica.
Ecco cosa sono quei mocassini comodi e logori, e quei calzoni neri, mi dicevo, devono essere camerieri colleghi di mio padre, anche lui si veste così prima di uscire. Non riconoscevo le voci, però, non so chi siano.
“Me lo ricordo certo. Insomma, ragazzi, non è che siamo sconosciuti. Abbiamo lavorato insieme per tanto tempo” diceva conciliante, ora, mio padre.
I piedi di mia madre erano zuppi, ne cominciai a sentire l’odore, ora che il sudore si impastava con la polvere della suola e con la plastica.
“Certo che abbiamo lavorato insieme. Ma tu adesso il lavoro non ce l’hai, sei in cassa integrazione, e noi no. E tu non hai reddito, e ci chiedi i soldi, e noi te li diamo, da amici. E tu che fai?”
L’altro, quello con la voce da tenore: “Ecco, tu che fai? Prometti di ridarceli, addirittura di venire a riportarceli, e invece te ne stai a casa, a godertela. E noi a lavorare. Tanto, i soldi che guadagniamo poi li regaliamo a dei debitori che manco ci pensano, manco si preoccupano di rimborsare chi glieli ha prestati, degli ingrati, insomma, degli stronzi come te.”
“Già, degli stronzi come te.”
E io non avevo neanche mai pensato che qualcuno avrebbe potuto dare dello stronzo a mio padre.
Di nuovo minaccioso, mio padre, la sua voce ringhiava, come Rin Tin Tin davanti al cattivo. “Ragazzi, soldi non ne ho, ora. Non venite dentro casa mia a fare queste scenate, eh.”
Intanto con una mano, che era rimasta sotto il tavolo, frugava intorno, frugava, e io la vidi, la mano, e mi avvicinai, e infatti cercava la mia testa, e quando la raggiunse, prese a carezzarmi i capelli forsennatamente, disperatamente, ma delicatamente, come se quella mano che provvedeva a me fosse qualcosa che apparteneva a una persona diversa da quella che si difendeva vigorosamente, lassù.
“No” saltò su il tenore, sempre preparando la carica coi piedi. “Noi non facciamo scenate. Ma tu ci devi dare i soldi. Noi te li prestiamo, ma tu non lo fai lo stronzo con noi, hai capito?”
“Ma io ho una famiglia, faccio il meglio che posso. Ve li ridarò, statene pur certi” disse mio padre, che alternava disperazione e grinta, e si capiva che voleva proteggerci, e si sentiva allo stesso tempo in colpa per la sua inadempienza. E mentre continuava a struffarmi i capelli, la mano nervosa e fuori controllo, eppure delicatissima, morbida come forse mai è stata mano di cameriere, cercava di aumentare il contatto con me, mi spingeva la testa verso la gamba. E fu così, accostandomi, che mi accorsi che le sue ginocchia tremavano.
Poi vidi i piedi di quello che caricava, del tenore, avvicinarsi di un passetto al tavolo, le punte dei mocassini entrare addirittura nella zona d’ombra, là in basso, creata dalla tovaglia che scendeva come una cortina fin quasi a terra. La tovaglia un po’ rientrava all’indentro, a mezza altezza, evidentemente per il contatto con le ginocchia di quell’uomo, che si stava sporgendo verso mio padre, sul tavolo.
“Certo che ce li ridarai,” sentii dire, ma non dal tenore, dall’altro, con una voce dura e sibilante, spietata. “Anzi, certo che ce li ridai ora. La tua famiglia … tutti abbiamo una famiglia, io, tu, lui. Ma noi te li abbiamo prestati, e tu ora ce li ridai” e poi un tonfo forte sopra il tavolino.
“E questo cosa sarebbe?”
“Non lo vedi?”
“Sì che lo vedo, è un uccello morto” gridava mio padre, certamente riferendosi a ciò che il cameriere aveva deposto sul tavolo con quel rumore forte.
“E lo sai che significa?”
“Non lo so, non so niente dei vostri avvertimenti.”
“Non lo sai cosa significa una rondine morta?”
“Levate via questa roba da sopra il tavolino di casa mia” mugolava mio padre, schifato, e io ricordai come era rimasto per ore a cercare di uccidere una gallina, sul terrazzo, una di quelle che avevo vinto al luna park e poi era cresciuta troppo. L'aveva liberata per strada.
“Eh, tavolino di casa tua. Bisogna vedere se rimane casa tua per molto,” disse il tenore, poi nell'aria schioccò un rumore che riconobbi, era lo stesso di quando nei film western il cattivo pigiava il bottone del coltello a serramanico.
“Eh, che fate?” la voce sorpresa di mio padre, le gambe che guizzavano mentre con un salto faceva andare indietro la sedia. Poi un grido fortissimo, che spazzava tutto, il ronzio del frigo, le rondini, l’estate, la mia fiducia nella bontà degli esseri umani: “Fuori! Fuori! Io vi ammazzo a tutti e due, capito? Io non vi faccio uscire di qui, vi accoppo a tutti e due, vi faccio a pezzi, capito?” E le gambe lo sostenevano, tremanti, con la forza dello slancio nervoso mentre lui le teneva tese solo per metà, e fu evidente anche a me che doveva aver afferrato dal tavolo il coltello.
“Sono in cassa integrazione, ma non sono una mezza sega. So lavorare, e vi pagherò. Ma non ora, ora non ce li ho; ma non sono una mezza sega io, capito?” Tentava di scatenarsi, ma le parole in sé avevano poco senso, era il ruggito incontrollato a fare il suo effetto, mentre lui, mezzo in piedi e mezzo seduto, li minacciava con il coltello lungo, quello del pane, quello a cui non mi era mai stato permesso di avvicinarmi.
“Io vi scotenno! Come vi permettete, di venirmi a fare certe cose a me, qui in casa mia? Fuori! Maledette sanguisughe; e l’interesse che vi ho promesso? Ma io vi ammazzo”, ruggiva.
Allora vidi i piedi dei due, silenziosi, allontanarsi, oltrepassare quelli di mia madre sulla porta della cucina, e solo quando non furono più in vista, entrati nella zona invisibile dietro l’angolo dell’ingresso, sentii dire, “Stavolta ce ne andiamo, ma non è finita qui.”
“Ah, certo che non è finita qui. Torneremo, tu pensaci e stai in guardia.”
Sentii la porta che si apriva, e i loro passi sulle scale, vidi le gambe di mio padre, sempre tremanti, che si poggiavano di nuovo sulla sedia. Immediatamente la sua mano tornò a scandagliare sotto il tavolo, trovò i miei capelli e cominciò a scompigliarli di nuovo, affannosamente.
Fu allora, appena vidi i piedi di mia madre fare un passo verso il tavolo della cucina, letteralmente sguazzando nella plastica madida delle ciabatte, che sentii l’odore forte e acido, l’odore e poi il bagnato del piscio di mio padre che colava dai lembi dei calzoncini corti, nel buio sotto la tovaglia, mentre col braccio faceva come per allontanarmi, per evitare che ne rimanessi inzuppato; ma non ci riusciva, non riusciva ad abbandonare il contatto della sua mano con una qualsiasi parte di me.

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Alessio Cappelli, anni quarantasette, laurea in scienze politiche, impiegato di banca e lettore accanito. Nonché ciclista. Frequentatore della scuola romana di scrittura creativa Omero, ha pubblicato sul blog della scuola dei racconti brevissimi che sono poi stati pubblicati sulla rivista Linus e nella raccolta "Amori fantareali" a cura delle edizioni Omero. Nel 2015 è uscito per Zona Contemporanea "In Birmania". Nel 2017 è uscito per le edizioni Augh /Alterego il suo primo romanzo, “Abrivado”. Successivamente ha frequentato i corsi di Trenta Cartelle di Cattedrale; in questo ambito, a seguito della collaborazione con Scuola del Libro, suoi racconti sono stati pubblicati nelle raccolte “Lunedì 9” e “Passaggi”.