Lo scatto, di Maurizio Minetto

Lo scatto


di
Maurizio Minetto



Di gente ce n’era poca, lì sotto i portici di Piazza Vittorio. Stavano tutti davanti alla partita dell’Italia e faceva troppo caldo per andarsene in giro.
Quei pochi si erano fermati a guardare. Il vecchio giornalaio, da cui Gabriele andava sempre a comprarsi Alan Ford, era uscito dall’edicola e si era messo a filare la scena grattandosi il mento. Le quattro signore con le buste della tintoria lanciarono un grido quando Alessio e Gabriele scapparono passandogli in mezzo, col “bufalo” dietro, e la signora Comparoni tirò a sé la figlia e sbraitò «mori’ammazzati!». E il tabaccaio, che aveva appena messo fuori dall’uscio il panzone incamiciato e la sigaretta ancora da accendere, inchiodò giusto in tempo per non farsi travolgere.
Il fatto è che in quell’estate del 1982 Alessio e Gabriele non avevano niente di meglio da fare che sputare in testa a chi scendeva e saliva le scale della metropolitana di Piazza Vittorio. Era appena finita la scuola e avevano già esaurito i soliti passatempi, tipo quello di sfidarsi a toccare la Porta Magica, cosa che ormai non gli dava più nessuna emozione e l’avevano tirata fin troppo per le lunghe solo perché a Gabriele ogni tanto non andava di farlo e Alessio insinuava che fosse per paura.
Alessio detto Alessione aveva quattordici anni ed era di via dello Statuto. Gabriele, il Puffo, ne aveva dodici e veniva dal Quarticciolo, alla periferia est. Si era trasferito da due anni in via Giolitti, in uno dei condomini rialzati accanto alla Stazione Termini, perché il padre faceva il ferroviere e la cooperativa gli aveva assegnato una di quelle case. Andavano tutti e due alla Silvio Pellico, Alessio l’avevano bocciato e così erano finiti compagni di classe, e di banco.

La Porta Magica si trova, da almeno un paio di secoli, nell’area archeologica nel cuore di Piazza Vittorio, in una parte defilata del giardino centrale, fra gli alberi. Si tratta di una cornice di pietra bianca, delle dimensioni di una porta, incastonata in un pezzo di muro, e i ragazzini prima o poi ne imparano le storie. Alessione le sapeva tutte. Tipo che il marchese del Seicento a cui apparteneva era un alchimista e un giorno aveva ospitato un misterioso viandante, alchimista anche quello, che gli aveva inciso sulla Porta la formula magica per trasformare i metalli in oro ma poi era sparito o forse era morto di una morte misteriosa; o che se la toccavi in certi giorni dell’anno poi ti succedeva qualcosa e non eri più lo stesso. E c’è quasi da crederci, a queste storie, se ti fissi sulle statue dei vecchi con la barba ai lati della Porta, o sugli strani simboli della cornice, un gran numero di cerchi, triangoli e croci, formule ebraiche e latine. Mortuus, Draco, Occultum. E non ci si può mica entrare così. Se le guardie ti beccano che scavalchi possono pure arrestarti. Ma loro due, non li avevano mai beccati.
Non ci s’infilavano solo per sfidarsi a toccare la Porta, ma anche per starsene nascosti mentre Alessio fumava qualche sigaretta e raccontava al Puffo un sacco di cose interessanti su piazza Vittorio, di quelle che a scuola mica te le dicono. Tipo che è la piazza più grande di Roma, «più de piazza San Pietro e de piazza daa Repubblica!» gli aveva detto una volta con la mano aperta accanto alla bocca. «Aóh» aveva insistito, «solo er giardino centrale co’ le giostre, è già grosso come ‘na piazza ‘ntera! E poi c’è er marciapiede cor mercato! Tiè, guarda che robba. Ma ‘ndo ‘o vedi a Roma ‘nartro mercato così?! E poi c’è la strada,  e tutt’er porticato! ‘O sai quante so’ ‘e colonne? Ducentottanta».
Ma quel pomeriggio di sole il Puffo si era proprio stufato di starsene lì, e quando Alessione finì gli argomenti e tornò a sfidarlo a toccare la Porta Magica, lui tagliò corto: «Nun c’ho paura! Guarda». La toccò con tutte e due le mani, e la prese a calci, tanto da provocarsi una piccola storta con l’ultima pedata sul bassorilievo spigoloso di una croce. Ma fece finta di niente. Alessione parve soddisfatto: spense la sigaretta e gli propose il nuovo gioco.

A ogni lato di Piazza Vittorio le scale della metropolitana emergono sotto al porticato, e alcune di queste uscite sono perpendicolari al marciapiede, ed è lì che i due si appostavano. Si appoggiavano alla balaustra, con le spalle alla strada e al centro della piazza, e facevano i vaghi, e quando nessuno li notava si sporgevano veloci e mollavano un paio di scaracchi su quelli di sotto. Il tempo di seguire la traiettoria, e tornavano a fare i vaghi e a strozzare le risate.
Il problema di non farsi beccare, veniva più da quelli che scendevano le scale, che da quelli che salivano, «perché quelli che scendono cell’hai proprio faccia a faccia, e invece quelli che salgono so’ de schiena e nun te vedono» spiegava Alessione.
Ed era necessario sporgersi per bene, anche col rischio di farsi beccare dalle vittime o dai passanti, e restare a guardare se il colpo andava a segno e la faccia del bersaglio, e solo allora essere veloci a tirarsi indietro.«Erichetto mica fa così. No, lui fa tutto de corsa» diceva Alessione. «Mica se sporge, fa finta, perché c’ha paura che lo cioccano. A sputa’, sputa bene: certi scaracchi. Però nun se sa diverti’. E nemmanco sputa insieme a me! Quanno sputo io lui se mette a fa’ er palo, e così se perde tutt’ermejo. Dice vabbè poi mo’o racconti. Sì, e allora venivo a sputa’ da solo!».
Spesso mancavano il bersaglio di poco e quello nemmeno se ne accorgeva. Il più delle volte erano altri, ad accorgersi che sputavano. Quella volta furono presi alle spalle da un vecchio grande e grosso. Gli era strisciato dietro nel momento preciso in cui Gabriele aveva colpito in testa un ragazzone coatto che saliva le scale tutto tronfio.
Dopo lo splash, loro due scoppiarono a ridere, il coatto alzò la testa e li guardò, si passò una mano fra i capelli a spazzola, la esaminò con gli occhi di fuori e prese a salire i gradini tre a tre. Loro a quel punto si voltarono per scappare e si trovarono davanti questo tizio sui cinquanta, grosso come Mario Brega. Bloccò subito Alessio, lo afferrò per la maglietta e gli diede un ceffone tra capo e collo così pesante che Gabriele si spaventò per il rimbombo. E Alessio, con tutto che era Alessione, a momenti cascava per terra. Ma quel vecchio lo teneva fortissimo per la maglietta e lo tirò a sé come uno yo-yo, e giù un altro schiaffone.
«Mortacci vostra!» ringhiava il vecchio.
«Ma li mortacci tua!» gli rispose Alessione, rincalcando la testa e agitando le braccia. Se le usava per proteggersi non poteva strattonare per liberarsi, e se invece strattonava non si proteggeva bene e si beccava un’altra scudisciata. Quel vecchio sì che le sapeva tirare: aspettava uno o due secondi, con la mano sospesa, che i movimenti impanicati del povero Alessione gli lasciassero intravvedere la collottola, e allora calava la tremenda cinquina. Poi ricaricava.
«Te la faccio passa’ io la fantasia de combina’ ste cose!».
Siccome il Vecchio li aveva presi alle spalle, loro due non erano potuti fuggire attraversando la strada, cosa pericolosa, certo, ma sembrava molto più pericoloso il coatto.
Si era posizionato a gambe larghe, naso da pugile spalancato e mandibola serrata, giusto a metà fra Mario Brega, con Alessio tra le grinfie, e Gabriele, che aveva aggirato la ringhiera delle scale fino a trovarsi con le spalle attaccate alla vetrina del tabaccaio. E sarà perché il povero Alessio veniva suonato come un tamburo, sarà perché questo faceva pensare che fosse lui il cecchino delle scale, fatto sta che il coatto lì per lì non intervenne e non se la prese col Puffo. Mario Brega però si mise a trascinare Alessio, tra un ceffone e l’altro, proprio nella direzione del coatto. «Mo te faccio mena’ pure da lui, mortacci tua!». Allora Gabriele se ne uscì con una trovata coraggiosa davvero, definita poi “geniale” per un sacco di tempo a venire.
Invece di darsi, il Puffo aspettò che fossero tutti e tre vicini, e tornò piano piano e penitente, a due o tre passi da loro. Poi mollò uno scaracchio terrificante in faccia a Mario Brega, e lo colpì in un occhio, e con un altro beccò il coatto dritto sulla bocca. Allora quello sgrullò la testa e si passò un braccio sulla bocca, Mario Brega si mise a tirare bestemmie, Alessio dette uno strattone con entrambe le mani e riuscì a liberarsi e a scappare, e proprio allora Gabriele incrociò lo sguardo del coatto, e fu come se a quello gli si fosse appena accesa la lampadina, che la saliva sul braccio era la stessa che l’aveva preso in testa per le scale. Il Puffo schizzò via col coatto alle calcagna.
Pareva un bufalo, aveva forse cinque o sei anni più di lui, e anche se non era tanto alto era un concentrato di muscoli, coi capelli corti a spazzola e una faccia quadrata e grossa e feroce di una ferocia brutta, da criminale. E infatti durante l’inseguimento sotto i portici, Mario Brega si arrese subito, ma quel bufalo continuò a correre. Era scatenato e ce l’aveva proprio col Puffo. Nemmeno strillava. Gabriele sentiva solo il furioso pestare di piedi e il fiato ritmico a un centimetro dalla schiena, e fu allora che per un istante, solo per un istante, provò una sensazione del tutto nuova e imprevista. Ma la percepì nettamente, pura: la concreta, reale presenza della morte. La sensazione durò solo l’attimo di fargli fare uno scatto da centometrista, che non avrebbe mai creduto di poter fare, ma tutto ciò che fino ad allora pensava di sapere sull’argomento ‘morte’ se lo lasciò per sempre dietro le piccole spalle, e cercò di riprendere Alessione con la stessa foga con cui la morte cercava di prendere lui, perché d’un tratto seppe che era la cosa più cattiva e dolorosa di tutte, e gli fu chiaro che non c’era altro da sapere.
Però quando arrivarono all’incrocio con Via Merulana si trovarono di fronte la più grossa comitiva di suore mai vista, che attraversava nel senso opposto, andandogli incontro. Gabriele pensò che fosse la fine. Si trattava di fermarsi o schiantarcisi addosso, e in entrambi i casi il coatto lo avrebbe preso e massacrato. Ma Alessione accelerò senza esitare, allora non esitò neppure lui. Alessione virò bruscamente all’ultimo, traversando l’incrocio in diagonale e buttandosi come un kamikaze tra le macchine – che per fortuna arrivavano rallentando per via delle suore – mentre faceva pure il verso di una moto da corsa, meeè-meeeeeè. Invece il Puffo perse l’attimo e non lo seguì, e dopo quella frazione di secondo poteva fare una cosa sola e la fece. Si lanciò a tutta forza contro le monache. E riuscì a dribblarle tutte e venti o quante erano, e appena fu dall’altra parte, incredulo, e saltò sul marciapiede imboccando Via Poliziano, esplosero grida di gioia dalle finestre sventolanti di azzurro e tricolori, e suonarono clacson e trombette da stadio da tutte le parti, e guardando alla sua destra, sul marciapiede opposto, vide Alessione che correva parallelo a lui e gli faceva un gran sorriso coi pugni levati al cielo, e capì che ce l’avevano fatta.
Solo allora si rese conto del dolore alla caviglia. Era stato lì per tutto il tempo malo sorprese, gli venne da pensare, proprio come la voce di sua madre alla decima volta che lo chiamava quando lui era in camera a leggere i fumetti.
Rallentando, si voltò: il muro di suore stava fermo in mezzo all’incrocio di Via Merulana. Nessuna traccia del coatto.

Continuarono a scappare fino a via Ruggero Bonghi, e poi verso il parco del Colle Oppio, all’ombra del Colosseo, e alla fine Alessio si fermò ansimante al cancello del parco, e Gabriele pure. Erano fradici,  il Puffo aveva la gola completamente secca e la caviglia che gli andava a fuoco.
Respirarono forte un paio di minuti senza dire niente. Le cicale frinivano sugli alberelli bianchi e rosa tra le palazzine silenziose di via Mecenate e via Bonghi, e sui rami degli alti pini di Colle Oppio, al di là del cancello, dove ai tavolini del bar di Nunzia non c’era ancora nessuno.
«Lo sai chi era quello?» gli domandò Alessione, quando ebbe ripreso un po’ di fiato.
«Chi, er coatto?» chiese il Puffo.
Alessio fece di no con la testa.
«Er vecchio?».
Fece di sì.
«Chi era?».
Alessio restò imbambolato col sorriso. «Mi’ padre, mortacci sua».
Poi tirò fuori il pacchetto di sigarette, ne accese una, diede una boccata e la passò a Gabriele perché glie la reggesse. Il Puffo la prese, e fece il suo primo tiro, guardando l’amico chinare la testa e passarsi le dita dietro al collo. Ce l’aveva tutto rosso, e in un punto spellato.
«Sai stasera che me combina?» mormorò Alessione.
Gabriele gli porse la sigaretta. «Annamo a beve alla fontanella!». Sentiva la caviglia gonfia premere contro l’elastico del calzino. Erano i vecchi calzini che ormai gli andavano stretti. Proprio quelli doveva mettersi, quel giorno. Li avrebbe buttati appena tornato a casa.
Alessione lo guardò con un gran sorriso e non prese la sigaretta. Gli mise il braccio intorno al collo, a morsa. «Aóh, sei stato geniale a sputaje ‘n faccia. C’hai avuto du’ palle così!» e varcarono il cancello mentre al di là del parco il Colosseo continuò a invecchiare sotto al sole per qualche altro minuto.

 

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Sono nato a Roma nel 1978. Ho pubblicato racconti sulle riviste Pastrengo e inutile. Nel 2019 ho vinto il Premio Zeno nella sezione racconti lunghi.