Scanazzato mai, di Noemi De Lisi

Scanazzato mai

di
Noemi De Lisi

 

Era sempre notte. Giusi correvano sfregiandosi le gambe a forza di botti, salti rasoterra, veloci sul catrame indurito, andavano dritto. A ogni passo, il corpo s’infrangeva precipitando a turno su un piede e sull’altro. Stavano tornando a casa. I colpi vicinissimi sulla strada buia, i tuffi di un macigno, tutto moltiplicato, veniva la grandine. L’umidità vaporizzata nello spazio davanti a loro gli bagnava i capelli e la faccia, gli pungeva gli occhi chiusi. Giusi però non erano stanchi, respiravano piano, avevano molta calma. Quando passavano, i palazzi bassi trasudavano fumo, la strada si lanciava indietro, una melma li avvolgeva, sott’acqua, rallentati, non sentivano più i loro passi, tutta la furia era nel sonno.
Giusi si sveglia chiamando sua madre,
«è duci ’sta cosa, cioè, che chiami ancora tua madre quando hai gli incubi.»
«nel senso che sembro una bambina?»
«no, no, nel senso che è vero, può essere un po' strano. però, ripeto, a me piace come cosa perché è una cosa solo tua.»
«è perché mi sono spaventata, mica lo faccio sempre. ho sognato di correre nel mio quartiere, al buio, volevo tornare a casa ma non trovavo la strada. però anche se ero sola, sentivo che c’erano altre persone sconosciute insieme a me. non le potevo vedere, però le sentivo accanto, facevamo tutti i movimenti uguali. alla fine era come se mi fossi sdoppiata, cioè come se quel gruppo di persone ero sempre io. certe volte non ti senti tipo frantumato in mille pezzi piccolissimi? come una spiaggia.»
nessuno la sente chiamare anche se i suoi genitori sono nella stanza accanto, la televisione ha il volume troppo alto. Quando dorme di pomeriggio le viene la nausea, poco fa ha sentito pure qualcuno sgracchiare dal palazzo di fronte, come quando sua nonna vomitava il catarro nel fazzoletto di cotone,
«che schifo, e poi chi lo lava?».
Sul letto si posa una chiazza brillante di polvere in controluce: Giusi ci passa la mano in mezzo e poi si piega in avanti, ci butta tutta la faccia, preme, spinge, fa una capriola e scende sul pavimento. Quando passa dal soggiorno, sua madre le chiede se ha sudato il letto; lei muove la bocca per risponderle, l’audio della televisione la riempie. Giusi è colata fradicia dalla testa ai piedi, la vuole smettere di dormire il pomeriggio, ora è anche in ritardo per colpa del sonno. Apre l’acqua della doccia bella fresca, s’insapona le areole giganti sul seno scarso, l’inguine ruvido con le puntine mature, s’impasta l’ombelico, gli addominali, il clitoride ricoperto di peli. Per lo shampoo ci sta due minuti, Vania dice che la invidia troppo per il taglio, che alla fine le stanno bene anche se pare un maschio, è sempre bella lo stesso anche da maschio. Per farseli così, Giusi è andata dal barbiere, per essere sicura di averli rasati bene come voleva lei; e quando è tornata, sua madre si è messa a piangere dicendole che sembra uno scanazzato. Chiude l’acqua della doccia e si mette a correre per casa grondante di acqua. Deve sbrigarsi per andare da Giovi, altrimenti, poi, non hanno tempo manco per guardarsi negli occhi.
Apre la porticina nell’androne del condominio, prende la bicicletta elettrica tipo scooter, la scende per due gradini ed esce dal palazzo. Suo zio gliel’ha regalata per un Natale, dice che è di seconda mano, che lei non si deve preoccupare perché non ha speso niente, e che tanto Vania non se la fida a guidare ’ste cose; per lui Giusi è come una seconda figlia, anzi un figlio, il primo, unico e solo. Si mette a cavalcioni sul finto scooter e parte senza nessun rumore, passa per le trazziere e le strade più larghe come un filo d’olio, traballa sulle buche, si ferma alla farmacia di via Volturno,
«oh ma sei una principessa. qualche volta ti potresti fare trovare direttamente a Piazza Principe, non che mi fai venire qua per poi tornare indietro.»
«eh la prossima volta vengo io, che ti devo dire? così ci sto mille anni e mi faccio scoprire piedi piedi. tu mica fai tutta ’sta strada, non ci stai niente col motore, è che ti devi lamentare per tutto. evvé?»
«seh, motore! ti piacissi…»
«maria, oh! motore, bicicletta elettrica, quello che è.»
Giusi schiaccia l’occhio per Giovi e lo chiama principessa, lui fa un cenno con la fronte, la ricopre di grinze, la butta in aria per un attimo, la riprende, sorride e sale a cavalcioni dietro la sua schiena.


Appena cala la saracinesca, lei gli si butta contro, gli tira i capelli indietro e gli morde la gola schioccando la lingua sul pomo d’Adamo. Cammina e lo spinge, Giovi indietreggia seguendo i prossimi passi di Giusi, cade di spalle sul divanoletto impolverato, c’è il rivestimento bucato, si vede la gommapiuma gialla. Suo zio le ha detto che il garage dove tenevano il cavallo ora è suo, può farci ciò che vuole dopo che quelli della televisione hanno fatto bordello e gli hanno fatto perdere l’animale. È nel suo quartiere, in via Danisinni, troppo piccolo per metterci una macchina normale, è stretto e alto: c’è il divanoletto mezzo scassato, i tamburelli di Vania, le briglie, due selle, gli stracci, lo scatolone con la piscinetta gonfiabile che fa puzza di plastica marcia. Pure sua cugina ha le chiavi del garage, è una casetta segreta tutta per loro. Solo sua madre, all’inizio, aveva buttato voci, non le piaceva il discorso,
«e che dovete fare tu e Vania in ’sto garage si può sapere? non ce l’avete una casa?»
«ma è per stare fra di noi, così suoniamo i tamburi senza dare fastidio a nessuno, che dobbiamo fare?»
«c’è ancora puzza di cavallo, è una fetenzìa! ci dovete portare persone? dimmi la verità.»
«mamma, non ci facciamo entrare nessuno. al massimo Vania ci fa le feste di compleanno per il dopocena, visto che alla fine è più suo.»
«seh le feste di compleanno, lo so io che feste ci dovete fare… tu solo una cosa mi devi promettere: con uno scanazzato mai, hai capito? ti ammazzo se dai confidenza a uno scanazzato, hai capito?»,
poi si era calmata e non aveva detto più niente del garage, non aveva detto più niente manco su di lei: sui capelli rasati, sulle sopracciglia folte con la cicatrice finta fatta apposta dal barbiere, sui suoi vestiti larghi, sul suo vizio ti toccarsi sempre davanti per aggiustare le mutande pizzicandosi il pube; non aveva messo più bocca su niente, piangeva solo in bagno quando ci si chiudeva.

Giusi toglie la t-shirt a Giovi, ha il petto liscio satinato col sudore, l’incavo dello stomaco che si gonfia e risucchia mentre respira con la bocca aperta. Lei di solito non si toglie la maglietta, anche se lui la prega; stavolta deve farlo per forza altrimenti muore soffocata, sente la polvere del divano che le si appicca addosso mischiata alla saliva. Incastra le cosce con quelle di lui e si strica avanti e indietro sulla patta dei jeans, poi si piega in avanti e se lo ammucca, gli lascia lo sputo in bocca, lui ingoia. Il sudore le cola dalle tempie sulle guancie, le fa bruciare perché Giovi ha la barba che raschia e punge, sarebbe meglio se l’avesse anche lei: un elmo contro il mondo. Quando Vania ha fatto quella minchiata, invece, la pelle non si è arrossata dopo, è rimasta liscia e calda.  Non avevano manco bevuto così tanto chiuse nel garage: sua cugina si era messa a ridere perché le aveva detto che sembrava uno scanazzato preciso da quando si vestiva così, camminava così e guidava quello scooter; poi l’aveva guardata, si era buttata in avanti e l’aveva baciata in bocca. Giusi l’aveva spinta e aveva gridato, ma che schifezze stava facendo? Lui ha i capelli sudati appiccati alla fronte, gira gli occhi spesso, si vede il bianco; lei gli dice che non ce la fa più, è troppo gonfia: si divincola dall’intreccio delle cosce, lo strattona per farlo voltare di schiena, gli guarda il profilo affondato nella gommapiuma mentre lui si toglie i boxer. Giusi si sfibbia i jeans, si abbassa le mutande: il culo di Giovi è bombato, duro e ruvido, si piega in avanti e se lo ammucca, gli divarica i glutei e ci infila la lingua, è amaro. Lui fa dei lamenti striduli ogni volta che Giusi spinge dentro le dita. Le dita attaccate alla mano, la mano attaccata al clitoride, il clitoride attaccato ai peli: ogni pezzo di Giusi, uno dietro l’altro, la collegano a lui, e il corpo svestito di Giovi è mischiato all’umidità polverosa del garage, della loro casa, della città; non si possono più scegliere né distinguere dalle altre cose.

- La dobbiamo finire, Giusi.
- Sempre lo dici.
- Questa volta dico vero.
- Pure io la voglio finire, la responsabilità ce l’hai più tu. Che glielo devo dire io?
- Sei tu sua cugina, mica io. Alla fine io sono un estraneo.
- Seh un estraneo! Ora i fidanzati si chiamano così, mi pare giusto.
- Questa cosa non ha senso. Non ho capito cosa provi, insomma, tu ci vuoi stare con me o no?
- Non vuol dire niente questo discorso adesso. Tu hai la responsabilità perché l’hai tradita e punto. Glielo devi dire e poi si capisce cosa fare. Ancora appresso a queste cose dobbiamo stare? Basta, è una vergogna per tutto.
- Non è una vergogna, è capitato. Lo sai che ti amo, Giù…
- Io ho bisogno un attimo di sentirmi meno confusa, voglio solo una decisione completa, cioè una cosa tutta intera, senza parti che mancano e se ne volano. E un pezzettino di qua, un pezzettino di là, e dare conto e ragione a te, a mio zio, a mio padre, a mia madre…
Vania alza la saracinesca. Loro la riconoscono dalla metà inferiore del corpo, prima che lei li possa vedere; scattano in avanti con le braccia, si guardano attorno, stringono gli occhi, poi rallentano, si piegano verso il basso, si soffiano via. Giusi non può vedere sua cugina piangere, come quella volta che le ha dovuto dare uno schiaffo perché l’aveva baciata di nuovo e le aveva detto che si era innamorata di lei. Prende lo scooter, lo trascina fuori dal garage correndo, mentre Giovi tiene Vania dalle spalle e le dice di smetterla di gridare; ci sale a cavalcioni e se ne va, accelera senza fare nessun rumore. C’è sempre caldo anche se il giorno è finito, dietro la statua dell’Ave Maria, in piazza, il cielo è ancora scorticato di luce. Una macchina esce di botto da una trazziera e investe lo scooter, lei sale per un attimo in aria come una chiazza di fumo, poi precipita a terra e si frantuma in mille pezzi piccolissimi. Giusi stanno tornando a casa.

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Vivo a Palermo (dove sono nata nel 1988). Qui ho frequentato un corso di scrittura con Giulio Mozzi e Carola Susani organizzato dal Centro Studi Narrazione - Le città invisibili - a cura di Leonora Cupane. Nel 2017 ho seguito un corso di editing avanzato con Christian Raimo alla Scuola del Libro di Roma. Nello stesso anno ho esordito in poesia con la raccolta "La stanza vuota" (Ladolfi Editore). Poesie e racconti sono pubblicati su diversi litblog e riviste come: Nuovi Argomenti, Cattedrale, Colla, Vibrisse, ecc.