La buona educazione, di Anna Lo Piano

La buona educazione

di
Anna Lo Piano

Sulla chat le sue amiche fanno a gara a chi ha avuto più storie, ma lei non scrive niente. Ieri sera Diego l’ha portata dietro le cabine, dove c’è sempre un odore di umido e sale, e di qualcosa di rancido, come nei bagni di scuola. Lui si è appoggiato su un’asse di legno ma lei è rimasta immobile, con la sabbia infilata a tradimento nelle scarpe. Allora lui le ha afferrato la mano e l’ha tirata verso di sé, e in quel momento si è sentito un trapestio in mezzo al canneto. Un’altra coppia era andata ad appartarsi poco distante. Il ragazzo ha detto qualcosa, e lei ha riconosciuto la voce di Antonio. Diego intanto le aveva infilato la lingua tra i denti e spingeva, e lei ha cercato di spingere più forte, e intanto pensava ad Antonio e alla sua ragazza, così vicini che poteva sentire i loro corpi strusciarsi. Poi Diego le ha sollevato la maglietta e ha piazzato le mani proprio dove comincia il sedere, e lei un po’ si è vergognata e un po’ le è piaciuto, e poi si è vergognata che le piacesse così tanto, e alla fine si è appoggiata a lui con tutto il peso e gli ha esplorato l’aspro della saliva, la consistenza sudaticcia della pelle sotto il cotone della camicia, e a occhi chiusi si è chiesta quanto mancasse ancora alle dieci, ora limite del suo coprifuoco.
”Ti è piaciuto?” Le ha chiesto Diego mentre tornavano a casa, ma lei non ha risposto. Si sentiva pizzicare la pelle come dopo una scottatura. Sì, i baci in fondo le erano piaciuti, ma lui, no, proprio non le piaceva, con quei capelli ricci schiacciati sulla fronte e gli occhi a spillo che si accavallavano sul naso. Non era sicura di volerci tornare, con lui, alle cabine, ma non sapeva come dirglielo, e intanto pensava ad Antonio. Con lui sì che ci andrebbe, ma tanto figurati, a stento la saluta, anche se abitano a tre metri e una volta hanno giocato a pallavolo nella stessa squadra.  Forse Diego stasera glielo chiede di nuovo, ma non deve sapere che è stato il primo e l’unico a baciarla, e soprattutto non devono saperlo le sue amiche. A settembre compirà quattordici anni e andrà al liceo. Non può mica arrivarci così, le serve un passato.
”Giulia! Mi vuoi ascoltare?”
Suo fratello le tira via le cuffiette dalle orecchie e la costringe a  guardarlo.
”Mamma ha detto che devi giocare con me”.
”Ma quando mai. Ha detto solo che ti devo controllare”.
”Guarda che glielo dico che non vuoi giocare”.
”Prova a svegliarla e ti ammazzo”.
”Provaci tu a fermarmi, se hai coraggio”.
Se i suoi genitori si svegliano, non la faranno uscire per una settimana.
”Dai, Tommy fa’ il bravo. Se vuoi, ti presto il telefono” dice tutto di un fiato, e subito dopo se ne pente, perché prima che possa rimangiarsi l’offerta, lui glielo ha già strappato di mano.
Bene, brava, proprio una bella idea. Così adesso lo stronzetto gioca a Candy Crush e lei non ha più niente per passare il tempo.
Si siede sul letto, e afferra il beauty di stoffa imbottita.  Dalla finestra entra un alito di peperoni arrostiti e citronella.  A quest’ora le persone normali sono in spiaggia, mentre lei, per colpa delle fisime dei suoi - a mezzogiorno via dal mare, all’una a tavola, poi si dorme – è chiusa qui dentro a fare la guardia a suo fratello.   Non è giusto, pensa, e intanto si tinge le unghie dei piedi di blu glitterato, dieci piccole scaglie iridescenti lasciate a seccare sull’asciugamano. Non è giusto per niente. Giulia si alza e gira la maniglia della porta. Tommy neanche si accorge di lei. Il corridoio è immerso nella penombra. Cammina in punta di piedi attenta a non fare rumore. Dalla camera dei suoi arriva un brusio sommesso. Non è vero che quei due dormono, dopo pranzo. È una bugia e lei lo sa perché il letto scricchiola e c’è sempre un avanti e indietro con il bagno. Questo silenzio obbligato è solo una vendetta contro lei e suo fratello, un modo per fargliela pagare per averli portati al mare un mese intero, e il broncio, e il telefono, la scuola, e quanto ci costate e lo stipendio che non basta.
Il soggiorno e la cucina sono un unico ambiente, e Giulia ci entra a passo di danza, e quasi va a sbattere allo spigolo vivo della vetrinetta che li separa. Odia le case in affitto. Sono sempre piene di mobili rimediati da vecchi traslochi, e questa è anche peggio delle altre, con le strisce di muffa sul battiscopa e il televisore che non prende i canali.  Si guarda intorno cercando qualcosa da fare. Sul divano c’è ancora il suo libro. Ha letto dieci pagine e ne mancano ancora duecento cinquantasette, non ce la farà mai a finirlo ma in fondo chissenefrega, tanto quest’anno nessuno le controlla i compiti, e se sua madre insiste, si leggerà il riassunto su Wikipedia e amen. Apre la porta finestra che dà sulla veranda. La bicicletta è appoggiata al muro, accanto allo stendino. Un giro, uno solo. Chi vuoi che se ne accorga.   Afferra il manubrio e spinge la bici sull’erba, con la mano sul campanello per non farlo suonare. Fa scattare il cancelletto e lo richiude alle sue spalle, poi si arrampica sul sellino e comincia a pedalare lungo il vialetto che porta all’uscita. Il brecciolino scricchiola sotto le ruote. Via, via. È fuori finalmente. Un sasso schizza nel canale che costeggia il lungo rettilineo d’asfalto.
In fondo, sospesa sull’orizzonte, balugina una striscia di mare. Se si sbriga forse riesce a raggiungere gli altri, forse vede anche Antonio. Prima però ci sono campi a perdita d’occhio, dove stanno accucciate contadine del Bangladesh con i fazzoletti in testa per proteggersi dal sole. “Buongiorno!” urla Giulia e saluta con la mano, e quelle alzano lo sguardo, ma solo una le risponde. Pedala e passa davanti alla chiesa, così striminzita che d’estate il prete dice la messa in cortile, e bisogna portarsi le sedie da casa. Cento metri più avanti, la strada fa una curva e scende restringendosi, e lei come al solito dimentica di rallentare, mentre dal lato opposto una macchina sta arrivando sparata. “Ehi ma che!” urla Giulia. Il manubrio le sfugge di mano e lei svelta punta un piede per terra. La macchina quasi la sfiora, poi rallenta fino a fermarsi qualche metro più in là. Un uomo con gli occhiali scuri sporge la testa dal finestrino e si gira verso di lei.  “La prossima volta vai piano” le dice “che puoi farti male”. Giulia vorrebbe rispondergli che si è già fatta male, si è graffiata la gamba su un cespuglio di rovi che cresce lì accanto, ma lui sta fermo e la osserva dietro quegli occhiali enormi.
Idiota, pensa, mentre si rimette sul sellino.
L’uomo riparte con una sgommata.
E che avrà avuto da guardarla, poi, pensa Giulia, questo non si capisce, anche se lo sa che agli uomini piace guardare, perché si fermano a capannello quando lei e le sue amiche escono da scuola, e a passargli davanti sembra sempre che tu debba inciampare, o sporcarti il vestito.
“Rassegnati. Hai cominciato a piacere”, le ha detto l’altra sera Melissa, mentre erano al pub a dividersi un cheeseburger maxi con le patatine.  Questa cosa di piacere ai maschi è una specie di superpotere che non si capisce bene come funziona. La prima volta che si è accorta di averlo è stata in primavera, quando il tipo del quinto piano l’ha chiamata «signorina» tenendo aperto l’ascensore per farla salire. Solo perché aveva un top con le bretelle e un po’ di trucco, quello l’aveva scambiata per chissà chi ed era tutto gentile. Però non funziona con tutti.  Uno come Antonio, per dire, se ne frega di lei, anzi manco la vede.
“Anche mio fratello ha detto che sei carina” ha continuato Melissa, e una briciola di pane le è schizzata sul piatto.
Suo fratello si chiama Andrea, ha quasi vent’anni e da qualche tempo se la incontra si ferma a chiederle della scuola e di quello che le piace fare, come se gli importasse davvero di saperlo.  A sentire Melissa che parlava di lui, Giulia ha tirato su col naso, e la cannuccia nel bicchiere ha fatto un gorgoglio da vergognarsi a morte.
Senza quasi accorgersene cambia direzione.  La casa di Melissa è quella bianca e azzurra. L’hanno costruita tanti anni fa. L’ultimo piano è ancora tutto da fare, per ora ci sono soltanto quattro spuntoni di ferro, ma a breve è lì che andrà a vivere Andrea. Che strano, da quando sa di piacergli il suo nome fa un suono diverso. Giulia lo immagina in bilico sulle travi, a piedi nudi, con il costume a fiori e l’asciugamano buttato su una spalla. Si sorprende di conoscere a memoria il colore del nastrino che porta alla caviglia e il tatuaggio cinese che si intravede sotto. Una volta, per salutarla, le ha dato un bacio sulla guancia, e un altro bacio sull’altra guancia, e intanto le teneva un braccio intorno alla vita, come per non farla scappare. E se la prossima volta girasse un poco la testa, che succederebbe? No, non deve pensarci. Pedala, e intanto immagina il sapore della sua lingua. Sarebbe diverso da quello di Diego, diverso anche da quello di Antonio, anche se non sa niente del sapore di Antonio. Ma con Diego è stato facile lasciarsi andare, perché ha la sua età ed è anche un po’ imbranato. Invece Andrea è quasi un uomo, e abita in una casa di studenti con una stanza che può chiudere a chiave, e se per caso c’è anche lei, in quella stanza, perché lui magari la invita con una scusa scema che però adesso così al volo non riesce a inventare, insomma se per caso succede, allora saranno loro due e nessun altro. “Fidati di me” le pare che le dica e poi la stringe tra le braccia e la bacia, e la sua lingua non è larga e goffa come quella di Diego ma è dolce, le esplora i denti, si ritrae, ritorna, e lei non si oppone, anzi si lascia andare. Andrea le solleva la maglietta, le poggia le mani sulla schiena, proprio dove inizia il sedere. E poi? Giulia si rimette a pedalare e prende il rettilineo in discesa senza mai frenare, e tutto si interrompe come con la pubblicità. La prima volta che è andata in bici senza rotelle aveva sei anni, e da allora appena sale sul sellino, quell’insieme di tubi e catene si tramuta in una carne viva, e mentre corre il bianco della strada quasi l’abbaglia. Andrea a poco a poco si scontorna, diventa una sagoma senza espressione, senza odore né sapore, un oggetto di plastica.  Come Ken di Barbie, quando alle elementari giocava a farli innamorare. Si chiudeva in camera, in quei pomeriggi, perché sentiva che c’era qualcosa di proibito nell’accanimento con cui schiacciava uno sull’altro i loro corpi di bambola, mentre quelli ostinatamente si ribellavano, frapponendo seni a cono, schiene rigide, e braccia puntate come baionette. Ancora non sapeva, anche se in qualche modo lo intuiva, che ciò che li separava davvero era la spianata deserta che avevano in mezzo alle gambe.
Giulia spinge sui pedali, piede e ginocchio e poi l’altro piede, mentre la strada scorre sotto le gomme zigrinate della bici. Intanto il tempo è passato, ben più dei pochi minuti che si era ripromessa, ma non ha ancora voglia di tornare a casa, chiudere il giro con il clang del cavalletto e le gambe febbrili per lo sforzo.  Sulla bici si sente libera, con tante strade tra cui scegliere e il brecciolino che schizza sotto le ruote. Via, via, il mare è così vicino che può vederne il bagliore. Mancano le ultime traverse e poi è arrivata. Ora pedala come se fosse al rallentatore, uuuuno e duuuuue, un braccio lungo i fianchi, poi anche l’altro, e via senza mani, che non ce n’è bisogno, la bicicletta fa parte di lei.
”Buongiorno, mi scusi”.
Giulia nel voltarsi perde per un attimo il controllo, la bici sbanda, e lei è costretta a rallentare.
”Mi scusi”. Una macchina si è accostata a fianco a lei e dentro c’è un tipo che le sorride dietro gli occhiali scuri. “Scusi. Non volevo spaventarla”.
Giulia poggia le punte a terra, tiene stretto il manubrio. L’uomo schiaccia un pulsante e il finestrino si abbassa del tutto. Lo riconosce. È il tizio di prima, quello che quasi la faceva cadere.
”Solo un’informazione”. Dalla radio accesa arrivano le note di una canzone di Tiziano Ferro. Non le piace Tiziano Ferro. È da vecchi. L’uomo continua a sorridere e Giulia si ricorda che i suoi genitori non vogliono che esca a quest’ora perché è pericoloso, non c’è in giro nessuno. “Solo un’informazione” ripete l’uomo e lei sa che non si parla con gli sconosciuti ma anche che bisogna essere gentili e allora china un po’ la testa e dice “Prego”, perché lui ha uno sguardo strano, come se si fosse perso e forse è proprio così, deve essersi perduto tra quelle strade tutte uguali e ora sta girando in tondo, è già due volte che lo incontra.  L’uomo biascica qualcosa, ma Giulia non capisce. “Come?” dice, e pensa che forse è colpa della musica, che è troppo alta. Come si fa ad ascoltare Tiziano Ferro a tutto volume? È da cafoni. Ma lui le grida “Ehi!” e lei sbatte le palpebre come se l’avessero appena svegliata.
”Lo vuoi questo?” dice l’uomo.  Alla radio hanno cambiato canzone e l’uomo si è tolto gli occhiali e non sorride più come prima. Giulia guarda bene dentro la macchina e si chiede se è normale quello che vede. L’uomo ha i pantaloni abbassati e con una mano si tiene il coso e glielo mostra. “Insomma, lo vuoi questo?” insiste, ed è proprio scocciato, forse perché pensa che lei non abbia sentito, anche se è già due volte che glielo ripete. Ma lei ha sentito benissimo, solo che non sa proprio cosa fare, davvero non ne ha idea, e un po’ si mette a guardarlo, anzi lo osserva proprio nei minimi dettagli, perché in fondo è la prima volta che ne vede uno così da vicino, un cazzo, minchia, uccello, i nomi le sfilano in testa tutti insieme e non riesce a fermarli, sempre che non contiamo quello di suo fratello che però è di un bambino, pisello, pisellino, pistolino ed è sicuramente diverso da questo qui, e non contiamo neanche i cosi cazzi minchie dei video proibiti che ogni tanto girano a scuola e che bisogna guardare in finestre nascoste per non farsi scoprire. Ma un conto è un video, pensa Giulia, e un altro questo coso qua, che sembra muoversi da solo a scatti e ha una punta tutta rossa come se si fosse ferito. E poi quest’affare è attaccato a un uomo vero, che emana un odore di sudore e dopobarba e ascolta Tiziano Ferro, e ha una strana smorfia sulla faccia, come se sentisse un dolore. «No, non lo voglio. Certo che non lo voglio il tuo coso cazzo schifoso, rimettilo nei pantaloni, brutto stronzo». Ecco quale sarebbe la risposta perfetta a una domanda così idiota, ma Giulia guarda negli occhi dell’uomo e un po’ di quel dolore arriva addosso anche a lei. “No grazie” dice allora, perché è una ragazzina proprio educata, ed è così che le hanno insegnato a rispondere all’offerta di un adulto.
Nella villetta di fronte un cane abbaia. L’uomo fa un’altra smorfia strana e mette in moto. Forse, pensa Giulia, se ne sta andando perché quel dolore è troppo forte, o perché non si aspettava che lei dicesse “No grazie”. O forse se ne va solo perché il cane si è messo ad abbaiare e a nessuno piacciono i cani che abbaiano, specialmente se hai i pantaloni calati.
Però intanto si allontana e lei si sente sollevata di non avere più a che fare con qualcuno che si contorce su un sedile per riuscire a spogliarsi. Questa sì che è una cosa da raccontare alle sue amiche, ma più ci pensa più si rende conto che non ha voglia di dirlo a nessuno quello che è successo, e intanto le tremano le labbra e le viene un po’ da vomitare.
Questa è l’ultima volta che lascia il telefono a suo fratello, che non le venga in mente mai più. Chissà se quel tizio l’ha capito che lei non l’aveva mai visto un uomo senza mutande, e in nessun modo avrebbe mai immaginato che la prima volta sarebbe stata così, su una strada verso il mare, mentre lui diceva «lo vuoi» come se fosse un oggetto che si può regalare. Forse avrebbe potuto suggerirgli di darlo a Ken, invece. Lui sì che avrebbe apprezzato l’offerta. «Grazie» avrebbe detto tirandosi giù i calzoni, (risente anche lui dell’ottima educazione familiare), e si sarebbe piazzato quell’affare in mezzo alle gambe, al posto della spianata di plastica. «Grazie mille. Adesso sì che si comincia a ragionare», avrebbe detto, e poi avrebbe chiamato Barbie e le sue amiche che si vantano di essere così esperte, per fargli vedere lui come si fa.
L’uomo dopo un centinaio di metri accosta la macchina sul bordo della strada, e  spegne il motore.
Giulia si sente le ginocchia che diventano dure.
Si aspetta di vederlo scendere e venire verso di lei,  invece rimane seduto, con i finestrini aperti. Adesso lei se fosse davvero coraggiosa dovrebbe fregarsene e passargli davanti con aria di sfida. Voleva andare al mare e ci andrà. Magari lui è solo uno di quelli che aspettano le ragazze fuori dalla scuola, che si accontentano di vedere i loro sguardi smarriti quando bisbigliano certe parole.  Ma se ti avvicini e li provochi, ha detto Melissa, se ne vanno con la coda tra le gambe, e se lo ha fatto Melissa può farlo anche lei.
Ferma in mezzo alla strada, Giulia fa oscillare il manubrio a destra, poi a sinistra.
Come vorrebbe essere a casa, in questo momento, sentire il clang del cavalletto e le ruote che strisciano sull’erba, l’odore di citronella e peperoni. Ma forse è quello che lui vuole, che lei si volti e cominci a pedalare. Vuole lasciarle l’illusione di averla scampata, per poi raggiungerla quando meno se lo aspetta. Non è forse la cosa più divertente del mondo, giocare ad acchiapparti quando sai di essere il più veloce?
Ma se torna a casa, dovrà dirlo a qualcuno, quello che è successo. E se lo dice, le toccherà confessare che è uscita senza permesso.  E se le fanno domande precise? Se non basta dire senza mutande? Se deve elencare tutti i nomi che le sono venuti in mente e fare un identikit dell’uomo, anzi no del suo cazzo? Non può parlare, non può farlo per nessuna ragione, e poi se parla si agiteranno tutti e non la faranno più uscire, non potrà neanche più andare dietro le cabine a baciarsi con Diego, né scoprire se è vero che piace un po’ ad Andrea.  Le diranno che avevano ragione a ripeterle di finire il libro invece di andarsene in giro da sola, anche se giura e spergiura che non è successo niente, che l’uomo non è neanche sceso dalla macchina e forse se tutto va bene non scende più, lo vedi se ne sta lì seduto buono al suo posto di guida, con il coso tra le mani.
Chissà, magari ci ha ripensato davvero. Si è reso conto di aver fatto un errore, una cosa proprio stupida di cui subito si è pentito, non sa neanche perché l’abbia fatto, forse neanche se lo ricorda più, non è sicuro che sia mai successo, e ora si è rivestito e ha la zip dei pantaloni tirata fino in cima, e legge il giornale, si gode il paesaggio, o sta scrivendo un indirizzo nuovo sul navigatore.
Però Giulia lo sa che non è così.
Dalla sua posizione gli intravede la nuca, un’ombra scura piegata da un lato, come la stesse spiando dallo specchietto retrovisore.
Lo sente che lui non si è rassegnato e che sta solo aspettando che lei faccia qualcosa per poter dire che alla fine è stata lei, che è tutta colpa sua.
Scende dalla bici e gli va incontro sbilenca, tenendo il manubrio con le due mani, e i pedali le sbattono sul polpaccio. Glielo vorrebbe proprio chiedere, che cosa ha in testa, che cosa cazzo vuole da lei, ma le parole in testa fanno un rumore di ruggine.  Lui sta immobile come un rapace in agguato, mentre dalla sua radio arrivano le note di una canzone che non conosce e questo per qualche motivo la fa sentire ancora più a disagio. Annusa l’aria e si guarda intorno a scatti, come se cercasse una via di fuga. È strano non sapere cosa fare, non avere neanche una minima idea di cosa fare. La gente normale, sì che lo sa, invece, perché in giro a quest’ora non c’è nessuno, sono tutti al mare tranne loro due. E lei di sicuro oggi al mare non ci andrà, e forse neanche domani, perché all’improvviso le è passata la voglia di tutto, e l’unica cosa che le martella la testa è che «no grazie» non era la cosa da dire a un uomo con una smorfia di dolore sul viso e un cazzo che sembra una salsiccia. Le viene quasi da ridere a pensarci. Ma neanche ridere è la cosa giusta. L’unica cosa giusta l’ha fatta il cane che si è messo ad abbaiare, e forse adesso dovrebbe abbaiare anche lei, e mostrare i denti ringhiando, tanto non se ne accorgerebbe nessuno, stanno tutti sotto gli ombrelloni o chiusi nelle loro stanze in un silenzio obbligato, a sospirare nella penombra e nella polvere.
E l’uomo sta sempre nascosto dentro la macchina.
E allora Giulia comincia a correre, e si fionda verso di lui con il manubrio stretto tra le mani, urlando come se volesse strapparsi le corde vocali e lanciargliele addosso, invece gli lancia addosso la bici, e colpisce la macchina di striscio, sul retro, e fa un rumore di ferraglia e molle, e sembra che la strada e i campi e persino la luce si mettano a vibrare mentre la bici rimbalza all’indietro e rimane sospesa su un filo invisibile, ondeggia, sbanda, poi una ruota si prostra in avanti, e l’altra cede trascinandosi dietro il manubrio con tutto il peso della carcassa. Si schianta sull’asfalto e per qualche secondo i pedali girano all’impazzata, cercando aria. Poi tutto tace.
Intorno c’è solo un frinire ossessivo di cicale.

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Sono nata a Palermo nel 1966 e mi sono trasferita a Roma quattro anni dopo, l’inverno che ha nevicato. Nella vita ho soprattutto viaggiato e imparato lingue, oltre a fare quasi tutti i mestieri che hanno a che fare con le storie e le parole: traduttrice, giornalista, producer, copywriter, editor e insegnante. Ho pubblicato libri per ragazzi e racconti in antologie. Ho seguito i due moduli e la Masterclass del laboratorio Trenta Cartelle. Attualmente sto terminando una raccolta di racconti.