Stacca e scappa, di Jacopo Marocco

Stacca e scappa

di
Jacopo Marocco

 

A Roberto

  

L’avevamo chiamato “stacca e scappa”, una specie di gioco che io e Daniele facevamo d’inverno, dopo la scuola. Nel pomeriggio ci vedevamo quasi sempre da me per fare i compiti, ma in realtà facevamo ben poco, presi com’eravamo dallo sfogliare qualche giornaletto porno di mio fratello, uno di quelli che si era dimenticato di aver nascosto chissà dove e che io, più per ricerche estenuanti che per caso, trovavo. Eravamo all’ultimo anno delle elementari e non sapevamo ancora come sfogare tutto quel groviglio emotivo che quelle immagini ci scatenavano. Così, una volta annunciata la fine dei compiti ai miei, io e Daniele uscivamo per il paese a staccare i contatori della corrente di qualche casa, per poi scappar via di corsa. Stacca e scappa.
Quel giorno però avevamo deciso di non creare problemi a nessuno perché a Daniele faceva male una caviglia: durante la ricreazione quello stronzo del figlio del bidello gli aveva dato un calcio, senza motivo. Proposi allora di riprovare a fare due tiri di sigaretta: stavolta avremmo provato con le Multifilter Extra Light di mia madre in modo da non strozzarci come con le Philip Morris marroni del padre di Daniele.
Eravamo usciti da poco, quando per strada incontrammo un ragazzo con una grossa macchina fotografica, una di quelle professionali, mica quelle compatte che avevamo in casa e usavamo solo al mare o per i compleanni. Fotografava una voragine, larga un paio di metri e profonda non so quanto, che si era aperta il giorno prima sulla strada principale del paese. Non era chiaro cosa fosse successo, ma tutti cercavano di non finirci dentro, perché nessuno ancora ci aveva messo una protezione intorno.
Daniele, che fino a un attimo prima non aveva fatto altro che bofonchiare cose contro il figlio del bidello, si zittì e fece un fischio vedendo l’obiettivo della macchina fotografica che si allungava e accorciava.
“Sembra l’uccello di un robot” disse sottovoce.
Il fotografo si girò verso di noi, fece l’occhiolino e tornò a fotografare la buca.
“Sei del giornale?” chiese Daniele.
Il ragazzo si voltò di nuovo e annuì.
“Ma che è muto?” domandò Daniele guardandomi.
Buttai un occhio al giornalista, ma quello aveva già ripreso a fare le foto alla voragine.
Iniziava a far buio e così prendemmo la strada che portava a ridosso del bosco, diretti verso uno spiazzo dove i ragazzi più grandi si ritrovavano la sera. A fare cosa, lo capii poco dopo. 

Daniele fischiò indicando qualcosa per terra. Guardai, ma non capii lì per lì. Additava una cosa che ne richiamava tante altre. Droga, pericolo, drogati, malattie, crimine, contagio, spacciatori. E altre cose ancora, parole che sentivo pronunciare di continuo e che non capivo mai in maniera chiara. Overdose, aiz, aidiesse, accaivu.
Non tirai fuori nemmeno le sigarette che avevo rubato a mamma. Dissi solo: “Andiamo via”.
“Hai paura?” chiese Daniele stupito. “Ma dai, quelli ci vengono la sera.”
“Non sto tranquillo.”
M’incamminai, convinto che Daniele mi seguisse. Dopo qualche metro mi girai e lo vidi fermo dov’era prima, intento a studiare la siringa che ora teneva tra il pollice e l’indice.
Urlai e iniziai a sudare freddo. Sapevo che la malattia o il diventare drogati aveva a che fare con l’ago: dovevi pungerti per trasformarti in un tossico o in un malato, o entrambe le cose. Ma per me bastava toccarla e diventavi subito uno di quelli.
Daniele ormai è spacciato, pensai. Rimasi dov’ero e gridai: “Butta via quella siringa, buttala via subito!”. A bassa voce aggiunsi: “Poi troveremo una soluzione per curarti”.
Daniele continuò a esaminare quell’oggetto con la stessa curiosità che riservava a qualche figura che vedeva sui giornaletti di mio fratello. Poi lo vidi abbassarsi e raccogliere qualcosa da terra.
“Il tappo!” disse soddisfatto. Si rimise in piedi, coprì l’ago e, con calma, venne verso di me.
“Non provare a toccarmi!”
Cercai di bloccarlo, ma lui riuscì comunque a sfiorarmi. Quando sentii la plastica della siringa sulla pelle, mi irrigidii e urlai, mentre lui non riusciva a smettere di ridere.
“Guarda che non ti succede niente così”, disse. “Ho visto una trasmissione dove parlavano di queste cose e non ti prende niente in questa maniera, se tocchi la siringa e basta che vuoi che ti succeda?”
Restai in silenzio e, insieme, ci incamminammo verso il paese. 

“Ma quindi anche mia cugina Paola è una drogata?” chiesi a Daniele dopo un po’.
“Perché?”
“Be’, perché so che la sera va spesso in quello spiazzo, ho sentito che lo diceva a mio fratello.”
“Ah, magari allora la siringa è la sua”, buttò lì Daniele.
Forse avevamo una drogata in famiglia e solo io sapevo la verità. Paola malata, siringa nel braccio, sangue infetto, overdose, aiz, aidiesse, accaivu.
Passammo davanti alla casa del bidello. Il contatore era ben esposto sulla strada. Guardai Daniele che annuì tenendo ancora tra le dita quell’affare maledetto.
“Sicuro?” chiesi buttando un occhio alla sua caviglia.
Lui rispose forzando lo sportello dell’Enel. Io, rapido, tirai giù la levetta del contatore.  

Ci trovammo a riprendere fiato appoggiati a un albero davanti al bar del paese. Fuori dal locale non c’era nessuno. Dentro intravedemmo qualche vecchio giocare a carte e il giornalista che beveva qualcosa mentre parlava col barista. Era buio ormai, e il paese era già deserto.
Daniele tolse il tappo della siringa e la ficcò sul tronco dell’albero.
“Sei scemo?”
“Io devo andare e non so dove buttarla”, fece lui, salutandomi poi con un fischio.
Mi guardai intorno e vidi un secchio dell’immondizia. Feci per indicarglielo, ma sentii un tonfo. Vidi Daniele addosso al tronco dell’albero, immobilizzato dal braccio del bidello. Lo teneva per il collo e più Daniele cercava di liberarsi, più il bidello stringeva la presa. Mi ordinava di avvicinarmi.
“Giuro sulla Madonna che l’ammazzo se non vieni qui!”
Ma io non riuscivo né a muovermi, né a parlare o chiedere aiuto.
Diceva che eravamo delle merde a fare uno scherzo del genere, che se non fosse stato a casa sarebbe potuta andargli a male tutta la carne che aveva nel congelatore. Diceva che stavolta era andata bene a lui, e male a noi.
Nel frattempo Daniele aveva assunto un colore e un’espressione che nemmeno nei film avevo mai visto, e io non riuscivo a fare nulla. Se fossi stato al suo posto, addossato all’albero, lui si sarebbe inventato qualcosa. Io invece assistevo immobile alla sua morte.
Poi il bidello smise di parlare, di provare ad afferrarmi con la mano che aveva libera, di parlare della carne che rischiava di scongelarsi, dei danni che un contatore dell’energia elettrica staccato all’improvviso poteva causare. Smise di stringere Daniele per togliersi la siringa che lui gli aveva piantato nel collo. La tenne qualche secondo in mano, incredulo, poi la gettò veloce a terra, come se stesse per scoppiargli in mano. Daniele, tossendo e riprendendo un colore umano, venne di fianco a me.
Il bidello ci fissò a bocca aperta.
“Che m’avete fatto?”
“Tuo figlio è un gran coglione!” urlò in risposta Daniele.
Scappammo.

Sirene. Quella sera non feci che attendere il suono delle sirene. E non saprei dire bene a che ora, ma alla fine quel suono arrivò.
Avevamo corso fianco a fianco per un po’, ma a un certo punto Daniele si era fermato. Non me ne accorsi subito, e quando mi voltai per vedere dove fosse finito, lo vidi fermo sul ciglio della voragine. Non feci in tempo a dire nulla, potei solo osservarlo mentre schivava il bidello che arrivava lanciato contro di lui, facendolo volare diritto in quel buco nero. Ed eccolo Daniele qualche secondo dopo, che mi passava accanto salutandomi col suo solito fischio, andandosene come se nulla fosse.
Appena rientrato a casa, corsi in bagno a vomitare. A cena sbocconcellai qualcosa che rigettai poco dopo. Ai miei, mezzi addormentati sul divano, sussurrai un buonanotte e poi mi chiusi in camera in attesa delle sirene, dei lampeggianti, dell’irruzione dei Carabinieri, delle manette, del carcere. Della fine della vita.

La mattina dopo mi trascinai verso la fermata del pulmino. Avevo la nausea ed ero stravolto dalla notte passata quasi insonne. Nei pochi istanti in cui ero riuscito a dormire sognai mia cugina Paola che mi guardava in silenzio mentre dei vermi corti e tozzi le uscivano dal naso. Il resto del tempo fu un logorante rimuginio. Se non lo ha ucciso la caduta, lo avrà ucciso l’aiz o l’aidiesse o magari l’accaivu, pensavo. Quando poi sentii le sirene, mi feci piccolo piccolo sotto le coperte e desiderai di essermi punto io con quella siringa.
Allarme droga nella frazioni. Era il titolo di una delle locandine che lessi passando di fronte all’edicola. Sotto, la foto della siringa a terra davanti al bar. Nessun accenno alla voragine. O al bidello.
Alla fermata Daniele non c’era e di solito arrivava prima di me. Lo staranno interrogando e tra poco toccherà a me, pensai. Vomitai di nuovo, di fronte allo sguardo schifato degli altri ragazzini presenti. Quando vidi il pulmino arrivare, mi girai e tornai a casa.
Mia madre, vedendomi in quello stato, mi spedì a letto senza fare storie.
Mentre mi spogliavo, il telefono squillò. 

“Stai chiamando dal carcere?” fu la prima cosa che chiesi a Daniele.
Lo sentii ridere dall’altra parte del telefono. Io ero serio, e lui rideva. Io credevo davvero che poteva trovarsi in galera, e lui rideva. Io stavo morendo, mangiato dentro dall’ansia, dall’angoscia e dal senso di colpa, e lui rideva. Mi raccontò che la sera prima, appena tornato a casa, aveva trovato la madre che lo aspettava con in mano uno dei giornaletti che gli avevo dato io. “Il bidello, me l’ha dato il bidello” la incalzò subito Daniele. Sua madre, senza indagare oltre, andò subito in città a denunciare la cosa in caserma. 
Non so cosa faccia Daniele ora, ma sono quasi sicuro che si occupi di uno di quei lavori in cui serve velocità nel pensare per inventare balle e pararsi il culo. Forse è un politico oppure un avvocato o forse direttore marketing di qualche multinazionale. 
"Che razza di pervertito è uno che fa vedere certe cose a un bambino?" disse in falsetto, imitando la voce indignata della madre. "Era furiosa, avresti dovuto vedere le facce dei Carabinieri mentre gli diceva quanto fosse porco, maiale e schifoso il bidello, quasi ci stavo per credere pure io", disse soddisfatto. Poi aggiunse: “Così ora quello stronzo di suo figlio ci penserà due volte prima di darmi un calcio”.
Riattaccai. 
Il bidello sarebbe sopravvissuto all'aiz, all'aidiesse, all'accaivu e anche alla caduta nella voragine. Ma non a quell'infamia, a quel sospetto che ormai passava di bocca in bocca come un virus. 
Quando i conati di vomito, quella mattina, sembrarono darmi una tregua, andai a letto. Rimasi a contorcermi sotto le coperte per tutto il giorno, senza mai uscire dalla mia stanza, senza mai uscire da quel silenzio, senza mai avere il coraggio di dire a qualcuno ciò che era davvero successo. 

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Mi chiamo Jacopo Marocco, ho 34 anni e vivo a Spoleto. Amo scrivere, viaggiare, andare a funghi e pescare a mosca. Da grande vorrei gestire un allevamento di Chupacabra. Scrivo da quando avevo vent'anni e i primi racconti li ho pubblicati sull'ormai scomparso myspace.com. Ho partecipato a un laboratorio di narrativa tenuto da Matteo Pascoletti nel 2017 e, tra marzo e maggio 2019, al seminario "Io scrivo, tu scrivi" organizzato da Cattedrale - Osservatorio sul racconto, con Teresa Ciabatti, Davide Orecchio, Gaia Manzini, Francesco Pacifico e gli editor di Racconti Edizioni.
Alcuni miei racconti sono stati pubblicati su Verde Rivista, Umbria Noise e Settepagine Rivista. Altri racconti sono pubblicati sul mio blog
https://jacopomarocco.com