Tutti i racconti, di Beppe Fenoglio

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Per gentile concessione dell'editore, pubblichiamo alcuni brani estratti dalla prefazione al volume a cura di Luca Bufano.

 

In un saggio degli anni cinquanta del secolo scorso, che ripercorreva l’intero arco della narrativa italiana, da Boccaccio a Gadda, alla luce del binomio narrare lungo/narrare breve, Leone Piccioni parlava di Moravia come di un raro esempio di scrittore italiano che nasce con la vocazione del «narratore lungo», e indicava nella più diffusa vocazione al «narrar breve» un ostacolo alla costante e inappagata aspirazione al romanzo della narrativa italiana. Lo stesso Moravia, del resto, era pienamente cosciente di quali fossero le sue qualità di narratore: «È terribilmente difficile scrivere delle buone novelle» confessò in una lettera a Nicola Chiaromonte. «E poi a me, ogni volta che incomincio una novella, mi viene fuori un romanzo». Esattamente l’opposto succedeva a Fenoglio, il quale, quando decise di abbandonare la storia di Johnny per dedicarsi a una nuova raccolta di racconti, aveva già rinunciato al suo primo romanzo, La paga del sabato, per ricavarne due testi brevi. Similmente rinuncerà alla prima storia di Milton, il romanzo oggi noto col titolo L’imboscata, per ricavarne una seconda serie di racconti sul tema della guerra civile; mentre non ci è dato sapere quale sarebbe stata la sua decisione finale riguardo a Una questione privata, la postuma summa poetica dal titolo probabilmente redazionale. Forse erano le caratteristiche stesse del genere breve, a lungo studiate negli esempi dei grandi maestri (Poe, Maupassant, i più amati), a esaurirlo in una ricerca di perfettibilità senza fine: ricordarne alcune non sarà un esercizio accademico.
Nel romanzo prevale l’analisi, nel racconto la sintesi. Ma non si può dire che il racconto sia un romanzo in sintesi, né che un genere sia superiore all’altro. Paragonare le dieci o venti pagine di un racconto breve alle duecento o trecento di un romanzo è una leggerezza. Calvino scrisse il suo primo romanzo in poco più di un mese, ma impiegò tre anni a comporre il suo primo libro di racconti. Riprendendo lo spunto di Leone Piccioni, si potrebbe dire che la differenza fondamentale tra un genere e l’altro risieda nella direzione: quella del romanzo è orizzontale, quella del racconto, verticale; oppure, come i due modi della conoscenza secondo Galileo, che la prosa del romanzo è estensiva, mentre quella del racconto è intensiva. Anche per questo l’autore di racconti esercita uno stretto controllo sui personaggi e sul loro destino. Se agli autori di romanzi, come essi amano ripetere, accade spesso che i loro eroi si ribellino e agiscano secondo il proprio istinto dando origine a sviluppi imprevisti, nel racconto la situazione è diversa: l’autore è il padre padrone dei personaggi e non può tollerare obiezioni. La necessità dell’autore di dominare l’intreccio si traduce in tensione, ovvero in intensità. L’intensità di un racconto non è una conseguenza obbligata della sua dimensione breve, ma il frutto della volontà dell’autore che esercita una vigilanza costante sulle proprie emozioni. L’esercizio richiede una tecnica, e la tecnica è preponderante in questo genere letterario. In una lettera al critico Aleksej Suvorin, il quale lo aveva accusato di essere troppo «oggettivo» nei suoi racconti, indifferente al discernimento del bene e del male e privo d’ideali, Ωechov si difendeva indicando nel rispetto delle condizioni imposte dalla tecnica del racconto una necessità ineludibile: «Certo che sarebbe piacevole poter combinare l’arte con un sermone, ma per me personalmente è estremamente difficile, se non impossibile, dovendo rispettare le condizioni impostemi dalla tecnica. Per descrivere un ladro di cavalli in settecento righe devo costantemente pensare al loro modo e con la loro sensibilità, altrimenti, se introduco la soggettività, l’immagine diviene sfocata e il racconto non sarà compatto come tutti i racconti devono essere». Il riferimento di Ωechov alla «compattezza» rinvia a un’altra necessità del racconto: quella della soppressione di tutto ciò che non è strettamente necessario all’enunciazione del fatto, particolari o digressioni che avrebbero l’effetto di allentare la tensione. Naturalmente lo scrittore deve avere piena consapevolezza di ciò che sopprime e, soprattutto, l’abilità di lasciarne l’eco nella scrittura: la parte omessa avrà così l’effetto di rafforzare il racconto e il lettore la sensazione di leggere oltre il breve enunciato. Questa, che potremmo chiamare tecnica dell’omissione, è una caratteristica primaria della moderna short story, peculiare cifra stilistica di colui che l’avrebbe rinnovata creando un modello per molti scrittori della generazione di Beppe Fenoglio. In Morte nel pomeriggio, romanzo-saggio che ha per tema l’arte di scrivere non meno che quella di uccidere tori, Hemingwayafferma: «Se un prosatore sa bene di che cosa sta scrivendo, può omettere le cose che sa, e il lettore, se lo scrittore scrive con abbastanza verità, può avere la sensazione di esse con la stessa forza che se lo scrittore le avesse scritte. Il movimento dignitoso di un iceberg è dovuto al fatto che soltanto un ottavo della sua mole sporge dall’acqua». La metafora dell’iceberg illustra perfettamente il racconto breve moderno: la sua dimensione apparente, la sua compattezza, nascondono dimensioni profonde; il non detto avrà eguale importanza che il detto ai fini di una piena intelligenza della storia, tanto più se nella dimensione del primo si trova l’antecedente al fatto. Esemplare, da questo punto di vista è Gli inizi del partigiano Raoul, dove la vita del giovane protagonista viene colta in un momento cruciale: il suo ingresso in una formazione partigiana. La forza del racconto risiede principalmente nel contrasto fra la vita del giovane studente di buona famiglia e quella del neopartigiano; e la prima è quasi del tutto taciuta. Corrado Alvaro, ottimo narratore breve, nel 1947 annotava nel suo diario il seguente pensiero: «Per la composizione di racconti brevi, trovare il momento culminante d’una vita, che lascia scoprire il passato e indovinare il futuro». È esattamente quanto avviene nei migliori racconti: di una vita colgono un momento di crisi o un frammento, ma un frammento capace di riflettere un’intera esistenza.  Intensità, sintesi, omissione: questi fattori fanno del racconto moderno un formidabile congegno destinato a compiere la sua missione narrativa con la massima economia di mezzi, a un ritmo incalzante. Più che il numero delle pagine, ciò che differenzia il racconto breve dal racconto lungo, è il suo ritmo. E il ritmo è stabilito dall’incipit. In alcuni casi, come The Cask of Amontillado, The Killers, Andato al comando e Il trucco,rispettivamente di Poe, Hemingway, Calvino e Fenoglio, il «fatto» viene sottratto all’attenzione del lettore, mantenuto nel fondo della narrazione, per essergli rivelato soltanto nel finale; in altri, come nella maggior parte dei Racconti romani di Moravia, Libertà di Verga o I ventitre giorni della città di Alba, viene rivelato immediatamente. Nell’arco della sua carriera Fenoglio ultimò due raccolte: Racconti della guerra civilee Racconti del parentado, ma nessuna di esse venne pubblicata con quel titolo e con quell’ordinamento. I ventitre giorni della città di Alba, suo volume d’esordio e unica raccolta a vedere la luce in vita, ebbe una gestazione sofferta, passata attraverso il rifiuto di due libri, lo smembramento, la riscrittura, quindi la loro parziale fusione: quasi un presagio del velo di problematicità che avrebbe avvolto l’intera sua opera. Anche il rapporto dello studioso con i racconti di Fenoglio, quindi, è risultato a lungo difficile. Hanno contribuito a questa difficoltà fattori oggettivi: lo stato e la storia interna dei testi; e fattori soggettivi: una spontanea disattenzione da parte del filologo agli aspetti tecnici e formali della narrazione breve, a tutto vantaggio dei contenuti. 

Precoce nacque in Fenoglio il desiderio di scrivere racconti. L’amore fu il suo primo tema e un’aula scolastica la prima palestra. Ma un avvenimento storico dalle dimensioni imprevedibili lo avrebbe per sempre distolto da quella materia intimista procurandogli una nuova coscienza. Più che negli studi liceali, compiuti in Alba sotto la guida d’insegnanti d’eccezione, o in quelli universitari, iniziati a Torino nell’autunno del 1940 e interrotti due anni dopo dalla chiamata alle armi, anche Beppe Fenoglio, come molti suoi coetanei cresciuti all’ombra del fascismo, visse con la guerra partigiana l’esperienza più alta e formativa. La Resistenza divenne il centro della sua vita, l’evento che lo rivelò a se stesso determinando il suo destino di uomo e di scrittore. Recensendo I ventitre giorni della città di Alba Giorgio Luti indicò in Soldier’s Home di Ernest Hemingway una fonte sicura di questo racconto, al pari di Nove lune nato dalla rinuncia al romanzo La paga del sabato. Proprio in Soldier’s Home, incluso da Vittorini nell’antologia Americanacol titolo Il ritorno del soldato Krebs, troviamo quello che potrebbe essere un ritratto fedele dell’ex partigiano Beppe nel difficile anno 1945-46:

Durante questo tempo, era estate inoltrata, egli restava a letto fino a tardi, si alzava, usciva a passeggiare per la città e andava in biblioteca a prendere un libro, pranzava a casa, leggeva sotto il portico finché si annoiava, poi traversava la città per andare a passare le ore più calde nella fresca penombra della sala biliardi. Gli piaceva giocare a biliardo.

Per molti ex partigiani gli appunti presi a caldo durante la guerra servirono da supporto a una narrazione che avrebbe preso la forma finale del racconto o del diario. Fenoglio, invece, sembra voler fare degli appunti un genere a sé: rielabora le proprie annotazioni a distanza di tempo dai fatti vissuti mantenendo il presente storico, la prima persona narrativa, il proprio nome, le osservazioni e i commenti tipici di una forma estemporanea. Ma sono l’inventività del linguaggio e una diffusa tendenza alla sintesi a gettare un ponte verso i primi riusciti racconti. C’è già negli Appuntila mano dell’artista che punta all’essenziale, alle sensazioni più segrete che si agitano nell’animo, così come la rinuncia a un piatto descrittivismo in favore di una rappresentazione espressionistica, a tratti allucinata, della realtà. C’è lo stile, c’è il lessico, ci sono i temi, manca la tecnica. È in questo cruciale momento che agisce la lezione dei grandi maestri del genere breve.
 

L’estate del 1954 segna un momento di profonda crisi nella vita di Fenoglio. Il suo secondo libro, La malora, è appena uscito col noto «risvolto» di Vittorini, pieno d’incomprensione e quasi denigratorio nel tono; sicuramente sentito tale dall’autore, che sei anni più tardi avrebbe confessato a Calvino: «Forse non ci crederai, ma il mio abbandono dell’Einaudi ha turbato me più d’ogni altro. E ancora mi turba, e vorrei non aver provato quello stupido risentimento per il risvolto di Vittorini. Il risentimento fu, debbo ammettere, infinitamente più sciocco del risvolto che lo provocò. Vidi, ecco l’errore, il risvolto unicamente con l’occhio del dirigente industriale che non si capacita che un altro industriale, l’Einaudi, svaluti il suo prodotto nella stessa presentazione». Nel tentativo di controllare le ansie e i dubbi che lo tormentano decide di fissare in un diario le sue impressioni quotidiane e inizia copiando, a modo di epigrafe, un pensiero del filosofo esistenzialista russo Lev √estov (Fenoglio segue la lezione francese «Chestov»): «Lo scrittore, fintantoché scrive, rappresenta un certo valore, ma al di fuori delle sue funzioni è il più nullo degli esseri umani». Quelle poche pagine di quaderno, che il lettore troverà riprodotte in appendice al presente volume, diventano per noi un prezioso documento che ci aiuta a ricostruire il difficile cammino dello scrittore verso la maturità. Durante la composizione del libro d’esordio Fenoglio era venuto esplorando una nuova materia da affiancare a quella della guerra partigiana. Erano così nati i primi racconti langhigiani e, subito dopo, La malora. Quell’antica ragazza e Pioggia e la sposa, rispettivamente ottavo e dodicesimo della prima raccolta, sono quindi da considerarsi gli incunaboli di questa nuova esperienza narrativa; e sarà particolarmente la strada indicata dal secondo, con la scoperta del narratorebambino, capace di esprimere con freschezza, al di fuori di frusti schemi neorealistici, la straordinarietà dei fatti, a condurre ai capolavori brevi fenogliani: Un giorno di fuoco, Ma il mio amore è Paco. Lo scrittore sta ora cercando un motivo unificante per i suoi nuovi racconti, tale da giustificare una nuova raccolta: «Conto di scriverne a fondo – scrive nel diario, – non so ancora in quale forma. Certo si è che il camposanto vecchio di Murazzano mi ha fatto potentemente invidiare il grande spunto di E. L. Masters». Pochi giorni dopo, sotto la voce Autocritica, ancora un appunto significativo: «Riletto la mia Malora; mi pare d’aver piantato i paracarri e non aver fatto la strada». Più che un cedimento alla critica di Vittorini, questo pensiero potrebbe interpretarsi nel modo seguente: con La maloralo scrittore aveva creato un linguaggio e un ambiente nuovi, un suo quasi perfetto strumento di scrittura e una realtà; ma di quella realtà non aveva colto i fatti profondi, i momenti catalizzatori capaci di rivelare i conflitti latenti nell’apparente immobilismo della vita paesana, quei fatti, insomma, che offriranno il tema ai migliori racconti «parentali».

C’è una frase che Fenoglio scrive più volte negli ultimi quaderni, una frase che evidentemente occupa la sua mente in quei giorni d’attesa. È un passo del Coriolano di Shakespeare, e la sua  vicinanza al manoscritto dei Penultimiè stata interpretata come la volontà di farne una sorta di epigrafe per il nuovo libro annuciato nella lettera del 20 novembre al fratello: la storia dei «Fenoglio di Monchiero negli anni della prima guerra mondiale». La stessa frase, però, figura anche sul foglio di guardia del quaderno contenente i quattro racconti già ricordati; il suo significato potrà perciò riferirsi a tutti i lavori degli ultimi giorni. È la frase che il portavoce dei ribelli plebei, decisi a condurre uno sconsiderato assalto al Senato, rivolge a Menenio Agrippa quando questi, nel tentativo di calmarli, chiede di poter raccontare loro una storia: «Well, I’ll hear it, sir. Yet you must not think to fob off our disgrace with a tale. But, an’t please you, deliver». «Bene, l’ascolterò, signore. Non crediate di farci dimenticare la nostra disgrazia con una storiella. Se comunque vi fa piacere, raccontatela pure». E Agrippa racconterà il celebre apologo delle membra del corpo che si ribellarono contro lo stomaco accusandolo di starsene pigro, senza partecipare al duro lavoro degli altri, ricevendo in risposta, dallo stomaco stesso, un’alta lezione di democrazia. Qual è il legame coi nostri racconti? Forse una risposta indiretta alla sfida che «il Fenoglio» protagonista della Licenza, lo zio Amilcare dei Penultimi, lancia ai borghesi riuniti nel più bel caffè di Alba, «il caffè dei signori»? Ma la ribellione dei plebei del Coriolano sullo sfondo della guerra coi volsci troppo superficialmente si collega a quella dello zio Amilcare sullo sfondo della prima guerra mondiale. Forse la citazione va letta come uno sfogo privato, un pensiero che Fenoglio rivolge soprattutto a se stesso, alla sua coscienza di uomo e di scrittore. La disgrazia che ti ha colpito, sembra voler dire, dovrebbe farti pensare ad altro che a raccontare storie. Ma se questa è la tua natura, se questo il tuo nutrimento, va’ pure avanti, racconta! È nota la frase con cui Fenoglio, nel pieno della maturità, concluse un raro commento autobiografico: «Scrivo with a deep distrust and a deeper faith». Nessun’altra sua opera, come questo volume, testimonia una fede profonda nelle risorse della parola. 
 

© 2007 e 2018 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

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