La vostra presenza è un pericolo per le vostre vite Voci da Gaza. Di Samar Yazbek

Sellerio porta in libreria La vostra presenza è un pericolo per le vostre vite. Voci da Gaza, di Samar Yazbek.
Scritte nella prima persona di chi ha offerto la propria esperienza, le testimonianze catturano i crudi resoconti della brutale reazione di Israele. Sono racconti di donne e uomini palestinesi, dai tredici ai sessantacinque anni, che hanno assistito a quella che la storia futura ricorderà come una delle offensive militari più feroci dei nostri tempi. Ne emerge una cronaca sconcertante, in cui chi sopravvive porta dentro di sé perdite inimmaginabili: la rimozione del passato, la distruzione della propria casa e di ogni spazio pubblico, la profanazione degli ospedali che diventano simbolo dell’inferno vissuto dalle vittime, la scomparsa delle persone care, le mutilazioni del corpo e della mente, la cancellazione di un popolo.
La traduzione dall’arabo è affidata a Barbara Teresi.

Cattedrale vi propone un estratto dalla prefazione di Samar Yazbek che introduce il libro, per gentile concessione dell’editore.

Di
Samar Yazbek

C’è un caldo torrido. L’afa distorce la vista, trasforma gli edifici di pietra in braccia bianche che tremano nell’aria. Mi muovo in mezzo all’ampio viale, cercando riparo dal sole cocente di mezzogiorno. Pochi secondi e spalanco gli occhi, fissando un punto in fondo alla strada, da dove vedo avanzare in lontananza delle sagome scure, ombre che si muovono in modo strano, forme dai contorni indistinti che svaniscono nel miraggio, come se volassero. Sento di dovermi concentrare di più per capire cosa sta succedendo in fondo a questa strada così insolita.
In quel momento, ancora non so molto di quel luogo. Ne ho un’idea vaga, e la mia percezione di ciò che mi circonda è piuttosto confusa. Mi trovo, per una scelta ben precisa e ponderata, nel complesso di al-Thumama, in cui alloggiano oltre duemilacinquecento sopravvissuti al genocidio di Gaza, molti dei quali con gravi mutilazioni e condizioni di salute critiche e complesse, accompagnati dai loro familiari.
Questa scena surreale si svolge in una tranquilla città di nome Doha. In quegli istanti mi si palesano davanti agli occhi le immagini della devastazione delle città siriane, le stesse ombre delle vittime, gli stessi gemiti. Un’altra catastrofe.
Intorno a me non c’è anima viva: la canicola spietata e il sole appiccicoso mi bruciano la fronte, strani presentimenti cominciano a dibattersi dentro di me nel fuoco del deserto. Distolgo lo sguardo cercando di liberarmi di quei pensieri, poi torno a concentrarmi per cercare di distinguere quelle ombre nere: persone in sedia a rotelle che avanzano spinte da qualcuno dietro di loro. Mi volto indietro e vedo una donna vestita di nero spingere una carrozzina su cui siede una ragazza giovanissima. Allora mi sembra che il mondo intero sia diventato così: esseri umani mutilati, privi di arti, corpi a metà che sopravvivono ai margini della vita come relitti di un’epoca scomparsa. Ho la sensazione che ci troviamo a bordo di una nave sospesa in cielo, in bilico in un destino di impotenza e smarrimento, in mezzo a visioni e fantasmi che non riesco a mettere a fuoco. Il sole è accecante, e devo raggiungere gli uffici amministrativi per incontrare i responsabili della struttura. Un flusso di pensieri trasforma tutto ciò che vedo in scene immaginarie. Voglio scacciare queste scene di distruzione che si mescolano nella mia mente, quelle della Siria e quelle della Palestina.
Una strana tristezza inghiotte ogni cosa, come se la scena non fosse reale tanto è tragica: chi potrebbe sopportare uno strazio simile?
Non è un caso, quindi, che io veda quelle immagini, le carrozzine dei palestinesi, simili a stormi di uccelli neri, che trasportano il dolore assordante della realtà del popolo palestinese, un popolo sradicato dalla propria terra e sospeso in un limbo senza confini. Quelle ombre incarnano il simbolo di un’umanità a pezzi, come se i palestinesi fossero diventati siriani e i siriani palestinesi, alla stessa distanza dalla brutalità cui ho assistito e di cui ho scritto, seppellendola nel mio cuore.
Mi ritrovo davanti a quelle carrozzine e davanti ai sopravvissuti alle atrocità del genocidio, spinta dal desiderio di provare a comprendere il dolore che abita gli altri, fedele alla mia identità di scrittrice che usa le parole e la narrazione come strumenti di empatia, come mezzo per tentare un cambiamento e, soprattutto, per cercare di decifrare il mondo pericoloso che ci circonda e immaginare per gli esseri umani un futuro migliore.
Ho sempre inseguito queste idee, e le inseguo tuttora: è questo a spingermi verso quegli uomini e quelle donne, mi stanno a cuore. In un modo o nell’altro la Siria, in quel momento, è lì davanti a me. E sono fermamente convinta della necessità di non lasciare sole le vittime: mobilitarsi, agire e sentirsi coinvolti sono condizioni essenziali della nostra esistenza e tratti imprescindibili della nostra umanità.
Un pensiero mi passa per la testa, improvviso come un fulmine, e mi spinge verso di loro: cosa è successo agli abitanti di Gaza scampati al genocidio? Possiamo davvero considerarli «sopravvissuti»? Dove va il dolore umano quando la giustizia viene meno? Come hanno perso parte dei loro corpi, trasformandosi in nuove forme di esistenza? Come possiamo rapportarci alle loro sciagure? Come può la vita di persone comuni, che per anni hanno vissuto in una prigione a cielo aperto, essere svanita per sempre da quel famigerato 7 ottobre? C’è qualcosa nella rapidità di questa scomparsa, una devastazione e una brutalità all’ennesima potenza, del tutto incomprensibili, che si sono abbattute su questi esseri umani. Perché continuiamo a parlare delle loro vicende con slogan così distanti dalle loro sofferenze personali come individui?
La domanda è ardua, ma in quel mezzogiorno desertico raccolgo tutte le mie forze e vado loro incontro. Rivolgo un saluto, e la risposta mi arriva sotto forma di deboli sorrisi e sguardi timidi. In quel momento capisco che rimarrò lì, che vivrò con loro, toccando con mano le loro vite e vivendo da vicino le loro sofferenze. Quelle stesse sofferenze che mi permettono di riconoscerli come eroi e persone di grande dignità che resistono per continuare a vivere.
Perché sono tornata a scrivere sulla guerra? E perché la memoria adesso torna a farsi più insistente che mai?
Nel raccontare la verità, tra dubbi e certezze, dobbiamo accostarci all’ombra del linguaggio e ai suoi spettri, e ascoltare le voci delle vittime. Proprio ora, il linguaggio deve inchinarsi davanti a questa corda tesa sulla nostra anima, che supera la capacità della nostra mente di comprendere le maledizioni che hanno colpito i nostri paesi. Cosa fare di queste storie spaventose? In queste condizioni disperate, il silenzio della lingua può offrirci una via d’uscita? Trasformare la lingua in silenzio di fronte a fatti sanguinosi forse ne rivela l’incapacità di avvicinarsi all’orrore umano. Sì, gli esseri umani sono capaci di una brutalità che sfida la stessa facoltà espressiva del linguaggio.
Da anni rifletto cercando un nuovo modo di riscrivere e approfondire le storie delle persone e dei luoghi da cui proveniamo. È un tentativo di ricostruzione che non si limita alla letteratura né alla documentazione, ma che rivela una narrazione diversa, che indaga il dolore e la tragedia nel nostro mondo. Ora più che mai, la catastrofe sta riscrivendo il nostro mondo, lo sta scrivendo per immagini e in digitale, e lo sta cancellando dalla coscienza collettiva degli esseri umani, per renderlo un prodotto di consumo istantaneo, facendo svanire quei significati autentici nel caos dell’attimo presente.
Ci siamo ritrovati smarriti di fronte ai cambiamenti che le guerre di sterminio hanno imposto ai significati e al linguaggio, dopo aver distrutto gli esseri umani.
Noi, figli della guerra e della tragedia, parliamo degli orrori e della capacità del male umano di distruggere il mondo. D’altra parte, siamo in grado di vedere il momento della distruzione, di affrontarlo e lavorare per superarlo, anche se dall’interno della tragedia stessa. Certo, c’è chi non vede più alcun senso nella vita. E altri che ora concentrano il senso della propria vita sul ricordo di chi non c’è più, su coloro di cui sentono la mancanza. La violenza è inenarrabile, incredibile, al punto che siamo incapaci di descriverla. Ma questi sopravvissuti sono lì, sono vivi, nonostante tutto, in ogni senso della parola, con le loro domande, con il loro desiderio di capire ciò che è accaduto, con la loro incapacità di comprenderlo. Sono esseri umani che hanno attraversato l’inferno e fatto ritorno.