L'Io inenarrabile, di Matteo Moca



di Matteo Moca

Nel Novecento, con fuochi prematuri che già segnano le opere di alcuni autori che vivono a cavallo tra i due secoli, il racconto di sé diventa, pian piano ma inesorabilmente, impossibile. Situazione paradossale, tragico specchio di un'umanità che non può più dire con certezza chi è.  Lo scrittore si scontra con un'impossibilità, quella di una scrittura in grado di rendere sulla pagina la sua storia in maniera completa o, quantomeno, soddisfacente. Il critico Peter Szondi è stato molto preciso al riguardo, mettendo in luce proprio l'incompletezza che segna questo tentativo di raccontare scrivendo che non è tragico “l'annientamento in sé”, quanto piuttosto “il fatto che la salvezza si trasformi in annientamento: la tragicità non si compie nel declino dell'eroe, ma nel fatto che l'uomo soccomba proprio percorrendo quella strada che ha imboccato per sottrarvisi”. Nel quadro così delineato, la salvezza auspicata da un racconto riuscito di sé, quella che Tommaso Landolfi chiamava “salvazione”, è la stessa strada dove lo scrittore, l'eroe a cui fa riferimento Peter Szondi, soccomberà per sempre. Se questo è visibile in larga scala nei romanzi che segnano l'epoca, una simile insufficienza è evidente anche nel racconto breve che si pone come significativo epifenomeno dell'intero processo di scoperta dell'incompletezza dell'io e che testimonia, come una spia lampante, come il tentativo di scrivere sé stessi necessiti di paradigmi nuovi. Emerge allora nelle narrazioni la necessità di appoggiarsi a qualcosa di diametralmente opposto alla razionalità geometrica del racconto di sé che abitava le opere dei secoli precedenti, la necessità quindi di uno spazio mediano, qualcosa in cui proiettare ciò che, direttamente, non si riesce più a vedere. Anche in questo senso quindi va inteso il ricorso all'immaginazione, al demone del distanziamento dalla realtà che abita i tentativi di scrivere sé stessi, un rimando a qualcosa che va oltre le spire del reale e che può assumere, di volta in volta, i caratteri di una narrazione quasi fantastica, di una narrazione che si situa al confine oppure che dal reale muove per cogliere proprio questa impossibilità. Un peso ovviamente decisivo all'interno di questo panorama frastagliato è imputabile alla rivoluzione portata dalle scoperte della psicoanalisi che smontano pian piano ogni certezza umana, anche quelle più intime che riguardano il conoscere sé stessi. Scrive Lacan al riguardo: “La scoperta freudiana ha esattamente lo stesso significato di decentramento che comporta la scoperta di Copernico. Essa può esprimersi abbastanza bene con la folgorante formula di Rimbaud – i poeti, che non sanno ciò che dicono, è ben noto tuttavia dicono sempre le cose prima degli altri – Je est un autre”. La folgorante formula di Rimbaud ripresa da Lacan è emblema della difficoltà ineludibile di raccontare il proprio Io, mosso da forze che lo stesso soggetto non riesce a conoscere. Lacan, all'interno del suo percorso di ritorno a Freud, si sofferma assai spesso su questo argomento, sottolineando ancora la portata di una simile rivoluzione: “Io so quel che dico è ciò che non posso dire. E questo precisamente da quando c'è Freud, e l'inconscio da lui introdotto. L'inconscio non vuole dire niente se non vuol dire questo: che qualunque cosa io dica e in qualunque posto mi sostenga, anche se mi sostengo bene, non so quel che dico”. Ciò che diventa complesso per lo scrittore è allora trovare una parola scritta capace di ricalcare la vita vissuta.


Se si pensa al primo gruppo a cui si faceva riferimento, e quindi a una tangenza con la narrazione fantastica, può venire in mente il racconto di Tommaso Landolfi Cancroregina dove la narrazione diaristica, che farà poi mostra particolare di sé in Rien va, Des mois e LA BIERE DU PECHEUR, si contamina con la narrazione più apertamente fantastica creando una commistione formale da cui è difficile uscire. In questo racconto infatti, dopo la narrazione precisa e dettagliata dell'avventura che ha portato il protagonista a quel punto del viaggio nello spazio a bordo di un'astronave, il narratore fa seguire un diario che ha il compito di trasmettere al lettore il deteriorarsi della sua mente. Il narratore si trova solo nel ventre di Cancroregina, fantastica astronave, dopo aver ucciso l'inventore, e durante il viaggio verso la Luna tiene un diario. Si tratta per certi versi di un racconto fantascientifico strictu sensu, con lo scrittore che rispetta gli stilemi del genere per poi però improvvisamente caricarli di un significato ambiguo che porta il lettore a chiedersi chi sia a dire “io”, a maggior ragione quando si trovano nel testo del diario tenuto dal protagonista elementi che torneranno a fare bella mostra di sé nei diari dello scrittore Landolfi, dando probabilmente testimonianza di un ulteriore tentativo di diffrazione autobiografica, qui operata all'interno del racconto breve, quasi come prova generale di quell'insufficienza che i diari testimonieranno in maniera ancora più lampante.
Il ricorso ad elementi che rimandano al genere fantastico è presente anche in Anna Maria Ortese, scrittrice che ha infarcito la sua opera e i suoi personaggi di rimandi autobiografici, scegliendo un filtro immaginifico per poter sopportare di trascrivere il dolore e il male che vedeva nel mondo. Esemplare è da questo punto il breve racconto Folletto a Genova, dalla raccolta In sonno e in veglia dove figurano almeno altri due racconti in cui l'emergenza autobiografica trova risvolti magici, ovvero Sulla terrazza sterminata e La casa nel bosco, un racconto dove lo spostamento autobiografico operato da Ortese assume contorni ben definiti con la sua connessione con elementi onirico-fiabeschi. Il personaggio che dà il titolo al racconto è una creatura a metà tra bambino e folletto, un essere che condensa su sé la sofferenza che Ortese vede nel mondo e di cui sentiva personalmente le pene (basta leggere, oltre ai suoi romanzi, gli scritti raccolti per esempio in Le piccole persone), una sofferenza che risponde ai meccanismi inceppati della società. La vicenda si svolge in un clima complesso che mescola l'allucinazione con una descrizione precisa dei luoghi: la protagonista descrive il suo arrivo a Genova per una pratica all’ufficio del demanio, con tanto di orario di arrivo e di uscita dall’ufficio, con una precisione che è spesso elemento ricorrente nei racconti che appartengono al genere fantastico. La protagonista però non nasconde un sentimento di “smarrimento” che la porta a muoversi per la città in maniera confusa, a dimenticarsi di andare alla stazione per tornare a casa e a non distinguere nettamente ciò che si presenta alla sua vista: lo stesso accadrà anche con il folletto che apparirà immediatamente dopo, elemento che appartiene per eccellenza a uno stadio incerto tra sogno e realtà e il cui statuto, come succede nel racconto, è impossibile identificare con precisione e senza errore. Questo smarrimento nasce nella protagonista anche a seguito del clima politico che vive (“la gravità dei fatti politici è talora insostenibile. E dire politici è usare un eufemismo. Si tratta di una guerra, o stato di malessere, dell’incedere di una instancabile e martellante violenza che striscia come un fuoco su tutta la terra”), segnato dalle macchinazioni di paesi più potenti nei confronti di un paese più povero, una situazione che la invita a interrogarsi sul proprio privato e su come il pubblico incida nel privato, in un meccanismo che quindi porta un evento del mondo fenomenico, insostenibile per la sua violenza e per le conseguenze che provoca nelle esistenze individuali dei più fragili, a scatenare una scrittura che attraverso il filtro fantastico denuncia e critica una tale condizione: “La vita sulla Terra mi sembrava, a questo punto, non dirò insopportabile (tale stadio era superato), ma proprio priva del minimo interesse, come una pietra che rotoli dall’eternità verso un’altra eternità di pietra”. È chiaro quindi quale sia l’innesco di questa situazione, la violenza imperante nel mondo, un elemento che affonda con forza le sue radici nel reale, nell’universo politico contemporaneo”.

Nel racconto poi queste relazioni sproporzionati tra stati si replicano nei rapporti che legano i vari personaggi: la narratrice raggiunge la casa della sarta Ruperta Ramo che vive una vita abbrutita con il marito Eulalio, un “matrimonio sbagliato” dove i due sono legati “oltre l’odio di lei e la mitezza di lui, dalla solitudine”, e assiste a un litigio tra i due che ha come oggetto la permanenza nella casa del folletto, di nome Stellino, “una creatura assurda, vestita di una mantelletta fatta di vecchi giornali” che prova ad avvicinarsi a Ruperta per essere ferocemente rifiutato: “fece per arrampicarsi penosamente verso l’oggetto dei suoi pensieri; ma la donna, toltasi una scarpa, gliela lanciò contro”. Nelle descrizioni della narratrice emerge come Stellino sia un piccolo essere indifeso che subisce le angherie ingiustificate della donna, intenzionata non solo a cacciarlo di casa, ma anche a ucciderlo, nello stesso modo in cui Ortese sentiva su di sé le sofferenze dei più fragili, come nella guerra di cui parla all'inizio. Non è infine casuale la scelta della città in cui è ambientato il racconto, Genova dove Ortese, che visse un’esistenza travagliata dal punto di vista economico e per i continui spostamenti geografici, trascorse parte della sua vita.
Se agisce dunque in Folletto a Genova questo meccanismo filtrante, che quindi porta il lettore a ricercare tra le maglie oniriche del racconto (che si chiude con una meravigliosa metamorfosi) gli elementi autobiografici ortesiani, e quindi i caratteri di una narrazione autobiografica che occulta sé stessa; un procedimento simile può anche abitare narrazioni che partono da un motivo autobiografico per poi pian piano abbandonarlo e tingerlo di mistero. È il caso del racconto Il ricordo della Basca di Antonio Delfini, scrittore sempre abitato da un dubbio, dalla continua oscillazione tra letteratura e vita reale: “pensai che era meglio scrivere di un giovanotto che si ferma in mezzo alla piazza, piuttosto che essere un giovanotto che fa ciò che si dovrebbe scrivere, e continua ad andare a zonzo”. Il protagonista del racconto, Giacomo Disvetri, personaggio delfiniano per eccellenza, “apatico e privo di simpatie. Senza titoli di studio e poco amante delle arti”, è un impiegato di banca che inizia ad avvertire la preoccupazione per la mancanza di una moglie. Dopo alcune infatuazioni, si innamora perdutamente della figlia di un docente universitario che conosce durante le vacanze al mare, Isabella, da lui soprannominata La basca. Nell'introduzione alla raccolta che raccoglie il racconto, Delfini dà al lettore notizia della reale ispirazione per la protagonista di questo racconto: “Fu in un giorno di primavera del 1937, alla stazione di Firenze mentre aspettavo il solito treno per Bologna. Non mi parve bella, ma ne scoprii subito una grazia indiscutibile. Lei, che ricordava, pur non somigliandole, quella Madonna del Greco, pareva essere, vivente all’improvviso e nell’infanzia, la più adorata signora della mia vita. Nel discorso potei raccogliere una parola: «entonces»”. Si tratta della stessa parola, “entonces”, che il personaggio di finzione da lui creato, Giacomo, sente dire da Isabel prima di scappare di fronte a lei, tanto e subitaneo è il suo innamoramento. Per Giacomo, così come per lo scrittore, è avvenuta una folgorazione, la Basca della stazione di Firenze è l’Isabel del racconto e così, in questo cortocircuito tra reale e romanzesco, fiorisce intorno a lei “una narrazione che non è più un ricordo ma una possibilità”. Nel racconto il Ricordo della Basca, dove una chiamata del passato sta al centro del racconto, Delfini presenta l’evento fattuale della sua vita, l’esperienza vissuta alla stazione di Firenze, ma lo fa trasformandola in qualcosa di molto più dolce e profondo, con la realtà reinventata che supera quella effettiva. In Delfini dunque, tutta la realtà è riassorbita dalla scrittura, tutta la vita si fa racconto.
Se in questi casi un collegamento con la realtà rimane comunque presente, seppur trasfigurato in maniere diverse, ci sono anche casi dove nello scavo autobiografico del racconto breve, il materiale narrativo si trasforma in qualcosa di inafferrabile e scarno, che sembra aver cristallizzato qualsiasi legame con il vissuto. È il caso, per esempio, delle due novelle più latamente autobiografiche di Samuel Beckett, Compagnia e Mal vu mal dit, due opere in cui il processo di radicalizzazione nell'utilizzo della parola sembra raggiungere alcuni dei suoi vertici, dove l'astrazione della parola si accompagna a un processo in cui gli elementi autobiografici sono tutt'altro che diretti e immediatamente percepibili. In una situazione narrativa articolata in 56 capoversi, il flusso della voce di Compagnia che costituisce il cuore del testo viene continuamente interrotto e spezzato dalle transizioni prodotte dalla dimensione temporale della memoria. Anche nel testo di Beckett si resta impigliati in una sorta di cortocircuito in cui diviene molto difficile scindere l'autobiografia dalla finzione e individuare i confini dell'una e dell'altra. Il racconto, inoltre, assume un aspetto particolare che in parte giustifica lo statuto finzionale che alcune delle reminiscenze sembrano assumere. Lo scritto di Beckett infatti può essere ridotto a una struttura duplice che condensa due attività del pensiero: la memoria di ricordi infantili e adolescenziali che fanno luce sugli stati psichici e fisici dell'uomo attuale e un inventario autobiografico che segna le tappe significative della propria storia personale. Sotto questa duplice forza sono inseriti il lungo travaglio della madre e l'assenza del padre al momento della sua nascita, le lezioni di nuoto date dal padre e il tuffo dalla cima dell'albero in giardino per atterrare sui rami più bassi. La struttura che domina il racconto di questi due diversi modi di raccontare la vita dell'uomo è condensata nell'incipit dell'opera che espone la situazione in cui questi ricordi sono nati: “Una voce arriva a qualcuno nel buio. Immagina”. Si tratta di una voce che pare rivolgersi a qualcuno nell'oscurità, ma è difficile capire chi pronuncia la frase e a chi sia rivolta, un'ambiguità amplificata anche dal verbo della seconda frase, dalla peculiarità della lingua inglese che presenta in “imagine” un pronome intercambiabile e che quindi rende possibile interpretare il verbo sia come un imperativo rivolto al lettore sia come un'esortazione che l'autore rivolge a sé stesso. Il fatto eclatante, all'interno di un racconto che, come detto, si snoda sul ricordo della propria vita passata, risiede però nella scelta di Beckett di rifiutare esplicitamente di dire Io, di narrare in prima persona e quindi di mostrare la scrittura delle proprie memorie. Tale impossibilità è riferita immediatamente da Beckett, fin dalle prime pagine: “L'uso della seconda persona caratterizza la voce. Quello della terza quell'altro maledetto. Potesse parlare quello a cui e di cui la voce parla ci sarebbe una prima. Ma non può. Non sarà. Non puoi. Non sarai”. È in questo dolore che nasce la compagnia, nel tentativo che compie un soggetto di dire Io, di enunciare la sua presenza e attraverso la quale, come in uno specchio, possa affermare la propria esistenza.  Ecco che allora in Compagnia il percorso di astrazione giunge al suo apice, alla svolta che segna un punto di non ritorno, con la voce del protagonista definitivamente separata dal personaggio. Beckett paradossalmente utilizza un punto di vista esterno, poiché ormai è l'unico possibile, l'Io di Beckett, fin dall'inizio molto debole, fa gli ultimi passi verso la sua dissoluzione definitiva. In un racconto in cui la memoria falla e i ricordi sono avvolti in un vortice confuso, com'è possibile, viene da chiedersi, che esista ancora un Io, un Io senza memoria ovviamente.