Il racconto del sogno come rifugio archetipico della scrittura autobiografica

di Matteo Moca

Come può la letteratura raccontare la vita? Quali possono essere le tecniche e i punti di vista che uno scrittore sceglie per raccontare sé stesso? Quali i filtri che mascherano, offuscano o sfocano i contorni della vita reale nel suo passaggio sulla pagina? Sono questi solo alcuni degli interrogativi che la scrittura autobiografica può generare in chi volesse indagare il rapporto tra letteratura ed esistenza, tra arte e vita, provando a rintracciare quegli spiragli che naturalmente si aprono nel processo di fissazione della materia mobile quotidiana nel libro. In La coscienza di Zeno, opera che magnificamente mette in scena la cesura che esiste tra il racconto della propria vita e la realtà nel momento in cui la prima prova a essere scritta, c'è un passaggio particolarmente evocativo perché racconta come naturale la rinuncia a ogni successo e lo sgretolamento di qualsiasi fiducia nella scrittura quando questa dovrebbe raccontare la vita. «Una confessione in iscritto è sempre menzognera» scrive Zeno rivolgendosi al suo psicanalista: davanti all'accusa del dottore di aver falsificato il racconto della propria vita, Zeno risponde quindi che non si è trattato di una menzogna intenzionale perché se la sua confessione è intessuta di elementi menzogneri, questo si deve proprio alla scrittura che trasforma l'esperienza vissuta, poichè vita e scrittura sono due mondi che non possiedono il medesimo linguaggio. E lo stesso Zeno darà una spiegazione linguistica a questo fatto, paragonando vita e scrittura a due lingue differenti, sottolineando quindi i problemi intrinseci di traduzione.
Il racconto autobiografico sembra allora reggersi su un'impossibilità ontologica, parlare di sé stessi senza mentire è impresa irrealizzabile. La formula rimbaudiana «Je est un autre» e la scoperta freudiana di come la difficoltà di raccontare il proprio Io sia ineludibile - poiché questo è mosso da forze che lo stesso soggetto non riesce a conoscere - funzionano come meccanismi sincronici che allontanano lo scrittore dal racconto vero di sé. Ma se alla stessa tensione sono legate narrazioni estese e complesse (dall'operazione monstre di Karl Ove Knausgård a tutte quelle narrazioni dove la vicenda personale viene amalgamata con finzioni e riflessioni metaletterarie), identico discorso vale per le narrazioni breve, sottoposte quindi alla stessa condizione. Seppure quindi la letteratura non possa fare a meno di constatare questo inevitabile fallimento, gli scrittori non hanno comunque mai abbandonato la via del racconto di loro stessi sia perché, inevitabilmente, in ogni pagina scritta c'è un distillato, più o meno lampante, della vita di chi scrive, sia perché la narrazione autobiografica genera un'attrattiva intramontabile, negli scrittori per esempio per la sua possibilità curativa e per il suo afflato confessionale, nei lettori per l’opportunità di conoscere il mondo che si cela dietro lo scrittore. Se quindi la menzogna è inestirpabile dal racconto, alcuni autori scelgono proprio di utilizzare le possibilità offerte dalla letteratura per arrivare, attraverso percorsi più articolati e per niente lineari, al racconto, vero, di sé stessi.

È il caso delle raccolte di sogni che, nella loro brevità e nel loro affondare nei luoghi più profondi dell'Io, possono essere annoverate tra le possibilità che il mezzo letterario offre per raccontare sé stessi, narrazioni in cui gli itinerari onirici sfociano e combaciano con quelli autobiografici, anzi si tratta forse degli unici momenti in cui l'autobiografia, inconsciamente, emerge senza filtri sulla pagina. Molti scrittori si sono dedicati alla trascrizione dei propri sogni, alcuni continuando linearmente ciò che la loro opera già suggeriva (per esempio Georges Perec o Franz Kafka), altri invece ritrovando nel racconto onirico una possibilità di libertà e di racconto autobiografico che le altre opere non erano in grado di rivelare (è il caso, per esempio, di Graham Greene). Parlare di questo tipo di narrazioni pone il lettore davanti a una materia impossibile da definire in maniera univoca, perché il sogno stesso si trasforma in mezzo letterario e quindi si sogna anche per scrivere (in Sono nato lo stesso Perec parla di questa diffrazione, scrivendo come all'inizio i suoi sogni trascritti sulla pagina fossero “impacchettati con troppa cura, troppo levigati, troppo puliti, troppo chiari”, lontani da un'esperienza di “sola scrittura”) e il sogno viene plasmato dalle stesse fisionomie e forme che caratterizzano il racconto. Ma non per questo, cioè per la forza onirica che fa emergere, come ha rivelato Freud, ciò che è più vero e nascosto del nostro Io, il racconto del sogno deve essere considerato come una narrazione lontana dalle possibilità autobiografica, mentre deve essere compiutamente interrogato come uno degli strumenti che gli scrittori utilizzano per piegare la narrativa breve alle forme più segrete e autentiche del racconto autobiografico.
Georges Perec per esempio, che in Sono nato non a caso cita la frase di Svevo riportata in precedenza («“una confessione in iscritto è sempre menzognera”, all’epoca mi nutrivo di Svevo» scrive Perec) e la cui opera è quasi continuamente un tentativo di scrivere sé stesso e riempire i vuoti della sua esistenza attraverso la scrittura, ispirato dalla pratica dello scrittore Michel Leiris, raccolse tutti i sogni che affollarono le sue notti tra il 1968 e il 1972 in un volume La boutique obscure, tradotto in italiano da Ferdinando Amigoni per Quodlibet. La bottega oscura contiene 124 sogni di Perec minuziosamente annotati e che, nel loro complesso, offrono al lettore l'intero itinerario onirico-autobiografico di uno scrittore che, per tutta la sua vita e in tutta la sua opera, intrattenne con l'inconscio un serrato corpo a corpo. Passato da bambino dall'analisi con François Dolto e, da adulto, dallo studio di Jean-Bertrand Pontalis, Perec assegna al sogno e all'universo che esso costruisce la stessa importanza dell'opera narrativa, costruendo in questo libro una vera e propria raccolta di racconti che continuamente comunica con la sua vita razionale e con i suoi altri libri: ecco allora che il lettore potrà avvicinarsi alle manie e alle ossessioni dell'autore leggendo una sua biografia dell'irrealtà dove, ovviamente, dovrà tenere conto della diffrazione tra il testo, cioè come il racconto viene rievocato e trascritto dal sognatore, e il sogno in sé. Ma anche questo vuoto si rivela interessante perché se il lettore darà ascolto ai piccoli spazi bianchi che si creano tra ciò che della biografia viene rievocato nel sogno e quella reale dell'autore, verranno a galla i temi caratteristici e le parti più interessanti della sua opera, oltre che la natura più profonda di questa scrittura autobiografica breve. Ci sono, per esempio, dei sogni che rimandano ai campi di sterminio nazisti, quello in cui perderà la vita la madre che fu deportata appena prima di affidare il piccolo bambino alla zia, ci sono ricordi di relazioni amorose più o meno felici, così come il ricordo di amici e scrittori frequentati nella Parigi degli anni Sessanta e Settanta, ma anche i dubbi e i dilemmi che affollano la mente dell'uomo adulto o l'edificazione della città di una vita, Parigi, di cui questi sogni costruiscono una cartografia onirica segnata dai luoghi più importanti della sua vita razionale. Ecco quindi che questa raccolta di sogni rappresenta per l'autore un tentativo di ricostruire, in maniera indiretta, ma non per questo meno autentica, la sua insostenibile vicenda personale segnata dalla ferita originaria, dal bianco dell'abbandono della madre che occuperà ogni spazio della sua vita e della sua opera. Questi racconti, perché alla fine per la loro compiutezza di questo si tratta, offrono l'opportunità di costruire un'autobiografia notturna compiuta, che proprio attraverso i meccanismi del sogno e della narrativa breve, più appropriata per indagare i momenti fuggevoli del ricordo e dell'inconscio, permette di avvicinarsi a quell'indicibile che ha segnato la vita e l'opera di Perec.

Come Perec, anche Franz Kafka ha disseminato tra le sue opere a carattere maggiormente personale come lettere e diari, racconti di sogni. Come nel caso di Perec risulta difficile distinguere anche in Kafka quanto il sogno venga addomesticato dalla scrittura (potrebbe valere per lui quello che Perec scrisse rispetto ai suoi racconti: «credevo di annotare i sogni che facevo: mi sono reso conto, assai presto, che sognavo solo per scrivere i miei sogni»), ma è indubbio come la permeabilità nella sua opera tra i vari stati della coscienza tinga di un grande interesse questi racconti che, in alcuni casi, sembrano offrire una limpidezza e una decifrabilità maggiore rispetto ad altri suoi racconti brevi. Questo probabilmente deriva anche dallo statuto particolare della scrittura kafkiana, sempre sommersa dentro un materiale metafisico che sembra lontanissimo dalla realtà pur abitandovi dentro (lo stesso Kafka noterà tale natura: «Da un punto di vista letterario, la mia sorte è molto semplice. La capacità di descrivere la mia sognante vita interiore ha fatto cadere tutto il resto fra le cose secondarie e lo ha orrendamente atrofizzato»), che in questi sogni (raccolti in un libro unico, purtroppo fuori catalogo, da Sellerio con la cura di Gaspare Giudice) finisce per occupare una zona diversa, più decifrabile appunto perché, come nel caso di Perec, si situa tra la scrittura “razionale” (quella dei racconti e dei romanzi) e la vita. «Lo scrivere un'autobiografia sarebbe una gran gioia, perché procederebbe con tanta facilità come la scrittura dei sogni» annota Kafka nel suo diario nel 1911, mettendo in evidenza come il dettato onirico possa offrire quindi la stessa materia autobiografica di un racconto della propria vita a cui però lo scrittore deve riuscire a dare ascolto («Non posso dormire. Soltanto sogni, niente sogno»). Nella folta raccolta di racconti di sogni di Kafka, così come in Perec, emergono importanti elementi autobiografici che come fantasmi tornano ad abitare l'inconscio dello scrittore (la madre attraverso un paio di occhiali, occasione che gli offre il sogno per tornare sull'ambiguità del rapporto con lei, gli animali e gli uomini-animali, esseri simbolici portatori per natura di un'idea di fuga, ma anche simboli di una certa esperienza del mondo o la letteratura con un sogno abitato da un'opera di Schnitzler, autore per il quale Kafka non aveva particolare simpatia); oppure l'esplosione degli affetti e dei desideri irrealizzati della vita diurna (come i sogni con protagonista Emma Bauer, sorella di Felice a cui era molto legato, oppure la presenza di Napoleone nel mondo notturno come simbolo di tutto ciò che a Kafka in vita è negato). Assumono poi un'importanza fondamentale, anche per la loro lunghezza e natura articolata che davvero fa dimenticare che si tratti di materiali onirici, i racconti che hanno come protagonista l'amata Felice Bauer, analizzati anche da Blanchot, dove emerge per alcuni tratti l'incomunicabilità e i sentimenti che le lettere non del tutto sono in grado di raccontare.
Ma il racconto del sogno può essere anche un elemento sorprendente rispetto al resto dell'opera di uno scrittore, che non si immaginerebbe frequentatore così assiduo del mondo onirico considerando la natura lucidissima della sua opera diurna. È il caso di Graham Greene che in Un mondo tutto mio (pubblicato recentemente da Sellerio con la traduzione di Chiara Rizzuto) ha raccolto poco prima di morire, il libro è l'ultimo pubblicato in vita da Greene, una selezione dei sogni che per decenni annotò ogni notte (e anche qui, come nei casi precedenti, si genera quel meccanismo per cui diventa non sempre facile distinguere tra il sogno sognato e il sogno trascritto: «Una volta che ci si educa a tenere una matita e un quaderno vicino al letto», scrive Greene, «si sogna per lo meno quattro o cinque volte per notte»). È vero che, come annota Vittorio Lingiardi nella sua prefazione e la compagna di Greene Yvonne Cloetta nell'Introduzione, il sogno ha in realtà spesso una funzione decisiva nelle sue spy-story (si pensi per esempio a ciò che accade in Il console onorario), ma il lavoro su molti quaderni con la trascrizione dei propri sogni rappresenta un passo ulteriore in Greene, perché è la prova plastica di come il suo interesse fosse rivolto verso un mondo onirico capace di riempire dei vuoti che la veglia invece deve lasciare aperti. Anche in Greene il sogno si compone attraverso una precisa natura narrativa, come una storia breve che, pur con tutte le sfumature del sogno, ha un inizio e una fine: «Sono come sceneggiati a puntate, vanno avanti per settimane. Alla fine formano un tutto. Se si riesce a ricordare un sogno per intero, il risultato è un senso di divertimento pronunciato al punto da illuderti di essere catapultato in un mondo diverso». A differenza dei sogni di Perec o di Kafka, quelli di Greene non sembrano immersi in un universo fumoso e confuso, mentre si nutrono della stessa chiarezza che caratterizza la sua opera romanzesca, ma di quel mondo costruiscono un universo parallelo, il «mondo tutto suo» che figura nel titolo e che Greene riprende da una citazione di Eraclito riportata in esergo («I desti hanno un mondo unico e comune, ma ciascuno dei dormienti si ritira in un mondo tutto suo»). Il legame con la realtà è sottolineato dallo stesso Greene che nella sua introduzione scrive che questo libro «in un certo senso è un’autobiografia» sottolineando come tra il mondo segreto del sogno e quello reale esisteva una demarcazione molto sottile e sfumata. Diviso in sezioni che organizzano e ordinano il materiale differente e composito (sono assenti le parti che hanno a che fare con l'amore e la sessualità, ma ci sono comunque Alcuni scrittori famosi che ho conosciuto, Capi di stato e politici, sogni di guerra, i viaggi che hanno costellato tutta la vita dell'autore, Animali parlanti o Malattia e morte), questo libro offre, per usare la definizione di Lingiardi, «un’autobiografia della propria irrealtà, piena di realtà» e rappresenta, ancora una volta, quella possibilità di raccontare senza filtri, anche se in maniera obliqua, la propria vita scegliendo la narrativa breve.
Nei casi quindi di Perec, Kafka e Greene, ma molti altri si potrebbero trattare, da Dolores Prato a Arthur Schnitzler, da Antonio Tabucchi a Borges, emerge bene come il sogno che nella trascrizione sulla pagina assume la forma di una composizione breve, di un racconto, funzioni da un lato come luogo di esplosione di quelle tensioni autobiografiche che non riescono a trovare pieno compimento nella produzione di altro tipo, ma dall'altro acquisisca anche la funzione di rifugio radicale e primordiale dove provare a fissare una sostanza altrimenti intangibile, volatile, pronta a scomparire («Il tempo – scrive Gadda in una splendida pagina del Pasticciaccio – in cui diremmo si distendano i sogni ha viceversa la rapidità diaframmante d’uno scatto di Leika, si misura per fulgurativi tempuscoli, per infinitesimi del quarto ordine sul tempo orbitale della terra»). L'impressione è che la scrittura del sogno agisca come rifugio archetipico della scrittura autobiografica, luogo in cui la materia fulminea dell'onirico che offre improvvise rivelazioni allo spirito di chi sogna prova a essere fermata perché, forse, in grado di sciogliere i nodi più complessi della vita diurna, i traumi e i segreti che ne caratterizzano lo scorrere.