TITOLO: Rifiuto
Autore: Tony Tulathimutte
Editore: E/O
Traduzione: Vincenzo Latronico
PP. 288 Euro 19,50
di Fabrizia Gagliardi
Una relazione di ottimismo crudele si instaura quando qualcosa c
che desideri è in realtà un ostacolo alla tua stessa realizzazione.
Potrebbe trattarsi di un cibo o di un amore;
della fantasia di una buona vita o di un progetto politico. […]
L’ottimismo però potrebbe sembrare non ottimista. Questo perché l’ottimismo è ambizioso, e ogni istante può tramutarsi in qualsiasi cosa, e sembrarti persino nulla; paura, ansia, fame, curiosità…
Così Lauren Berlant apre Ottimismo crudele (traduzione di Chiara Reali e Giorgia Demuro, Timeo, 2025), una critica culturale che fotografa le illusioni contemporanee.
Nella mente avvezza agli hashtag più inflazionati di Instagram, subito risuonano gli #happyday, la #goodlife, l’#[inserire stagione]vibes, seguiti da reel che mostrano quotidianità improbabili, skin care che sarebbero meno costose se acquistassimo del platino liquido, cinnamon roll dalla fotografia in 4k, calda e accogliente, gite nel foliage sempre pulitissime e brandizzate.
Il gioco, però, è conoscere esattamente la malattia da cui si è affetti: una generazione intera è diventata bravissima ad autodiagnosticarsi il narcisismo, le dipendenze e l’ironia da stand-up comedy che commenta costantemente un individualismo dilagante. Una generazione che è stata deontologicamente racchiusa nell’etichetta di millennial, sta ora strabordando con un bagaglio di traumi e incertezze.
Un esempio è Rifiuto di Tony Tulathimutte (traduzione di Vincenzo Latronico, edizioni e/o, 2025) sette racconti che dalle prime pagine si rivelano essere uno degli osservatori più impietosi e stilisticamente dirompenti della condizione millennial e post-millennial.
La raccolta si colloca all’incrocio tra satira sociale, commedia nera e tragedia emotiva, disegnando un panorama umano che sembra generarsi direttamente dalle zone più tossiche e magnetiche dell’esperienza digitale. Tulathimutte non racconta semplicemente storie di persone rifiutate: racconta esseri modellati dal rifiuto, la cui identità, percezione del mondo e capacità relazionale sono state caricate, deformate e infine determinate dalla rete.
A colpire innanzitutto, e in modo quasi disturbante, è l’ampiezza con cui l’autore indaga ciò che chiama “rifiuto”: non soltanto quello sentimentale, né il banale rifiuto editoriale o professionale, ma tutte le sue declinazioni anoressiche, perverse, sociali, politiche. Il rifiuto diventa un prisma attraverso cui i protagonisti filtrano ogni esperienza fino a modellare una visione del mondo centrata sul fallimento e sul risentimento. I personaggi, introdotti spesso come individui comuni, senza particolari velleità – un trentenne goffo e vergine, una ragazza ossessionata da un amico che la “friendzona”, un sedicente femminista che precipita nell’inceldom – rivelano in breve la loro natura di individui incastrati, incapaci di abitare un’identità che non sia deformante e autolesionista.
Passati i trenta si sente troppo giovane per rinunciare ma troppo vecchio per cambiare.
La sua autonomia si è cicatrizzata in una solitudine che ricerca a tutti i costi
e custodisce gelosamente. Non riesce neanche a immaginare di dover condividere
lo stesso letto con qualcuno notte dopo notte, di rinunciare alla libertà di alzarsi
o leggere o andarsene da una festa quando gli pare. No, non è semplicemente solitudine.
La solitudine può andar bene, ma non quell’isolamento opprimente.
Non ha senso viaggiare per il mondo, andare al cinema o frequentare eventi culturali senza nessuno con cui condividerli, quindi sente che la sua vita non potrà andare avanti, no,
non potrà neanche dirsi realmente iniziata fino a quando non troverà qualcuno che ricambi il suo amore.
Ne Il femminista – il racconto che ha guadagnato viralità quando è uscito nel 2019 su n+1 – la parabola del protagonista, un ex alleato delle donne che, rifiuto dopo rifiuto, si radicalizza fino a diventare un moderatore di un forum misogino, mette in luce una dinamica verosimile fino all’inquietudine: il risentimento come carburante ideologico, l’incapacità di elaborare la frustrazione se non trasformandola in narrazione totalizzante. La satira è feroce ma mai semplice: se da un lato ridicolizza l’ipocrisia del falso alleato, dall’altro tratteggia la sua caduta non come destino ma come scelta reiterata, come rimozione costante della responsabilità.
Il fatto che la storia sia stata letta tanto come satira femminista quanto come testo incel dimostra l’efficacia dell’ambiguità di Tulathimutte. Aderire a uno dei poli opposti è la tentazione di oggi, tuttavia, come sottolineato dall’autore in un’intervista su Rivista Studio, la scrittura non può configurarsi come un vettore di tesi prestabilite. Il fulcro della narrativa non è schierarsi, ma riconoscere quanto chiunque possa appropriarsi del linguaggio del potere – e della lotta al potere –, per qualsiasi scopo, in un contesto comunicativo che non distingue più le intenzioni.
E infatti Rifiuto non è un pamphlet né una satira ideologica: non è un libro “contro gli incel” né una celebrazione dell’egemonia femminista, non è un trattato sulla disfunzione sociale contemporanea e non è una denuncia dell’algoritmo. È, piuttosto, un dispositivo narrativo che amplifica l’ambiguità: ogni racconto è simultaneamente patetico e grottesco, tenero e repellente, ridicolo e spaventoso. L’impressione è quella di trovarsi in uno spazio dove i codici morali e culturali sono sospesi, dove ogni gesto può essere letto come affermazione o negazione, emancipazione o sprofondamento.
Questa ambiguità, tuttavia, non è un semplice gioco formale, ma è la manifestazione diretta della condizione digitale. I personaggi vivono in un ecosistema online in cui l’identità è costruita attraverso brandizzazioni, sovrascritture, maschere; dove il linguaggio progressista può trasformarsi in arma retorica o in un modo per accumulare punti-compassione piuttosto che per combattere reali ingiustizie; dove il corpo, pur negato, ritorna continuamente come scarto, come rovina, come limite.
Non sorprende allora che molti di loro cerchino di sostituire la concretezza del corpo con la malleabilità del testo. Quasi tutti diventano, in qualche modo, scrittori presso se stessi: moderatori di forum tossici, autori compulsivi di post, teorici improvvisati, troll professionisti, individui che usano la scrittura come arma o come confessione compulsiva. In questo senso, il libro è anche un grande discorso sulla scrittura come forma di auto-esposizione e auto-distruzione, e non più come riflessione che porta all’apertura, all’altro da sé.
L’intero libro sembra muoversi in una zona liminale tra internet come specchio e internet come incubatrice. Le storie non hanno quasi ambientazioni fisiche; la dimensione temporale è liquida, inconsistente; i personaggi parlano, soffrono, esistono quasi soltanto attraverso schermi e tastiere.
Un’impressione accentuata dal mimetismo stilistico di Tulathimutte, e perfettamente resa dal lavoro di traduzione di Vincenzo Latronico, che alterna registri, gerghi, idioletti, fino a costruire veri e propri pastiche digitali, come nel racconto Un futuro da sballo scritto interamente come un post Reddit da parte di un “optimization bro”, ossessionato da mindfulness tossica e auto-miglioramento performativo.
Il mio approccio è maxare tutto e subito, e vale anche nell’amore: ogni date
deve essere almeno dieci volte più profondo di quello di prima.
Potreste definirmi un accelerazionista romantico, in un certo senso.
Perché aspettare, se il feeling è tutto in bolla? Non è un caso se mi chiamo Max!
Quindi secondo appuntamento, cinque giorni dopo, bang!
Due biglietti per Barcellona, partenza di lì a sei ore.
Il culmine di questo processo è il personaggio di Bee, protagonista di Main character, che odia il concetto stesso di identità e che finisce per creare un vero e proprio “attentato identitario” digitale: un troll farm elaborato per dimostrare che nessuno può essere rappresentato davvero, che ogni identità è maschera, illusione, convenzione utile solo all’algoritmo. La disperazione di Bee non è psicologica ma metafisica: il desiderio di sfuggire alla gabbia delle categorizzazioni e la frustrazione di non potersi mai sottrarre davvero alla necessità di definirsi – anche solo per negarsi.
Leggendo ritratti così aderenti alla realtà le reazioni possibili sono due: individuare un certo nichilismo spietato nella scrittura di Tulathimutte e chiedersi che cosa aggiunge la nobilitazione dell’opera letteraria.
Per la prima incertezza è semplice smentirsi: l’autore presta ai suoi personaggi un’attenzione che nessun altro ha mai dato loro: la prosa scava lì dove nessuno vuole avventurarsi, nelle loro mutilazioni emotive e fisiche.
Persiste il secondo dubbio, la domanda se quello che stiamo vivendo riesce a guadagnare la pagina scritta non tanto in termini di prosa e stile, quanto in termini di aggiungere argomenti, creare dibattiti, porre le domande giuste, proporre soluzioni. La distanza critica dalla contemporaneità è tale da permettere di raccontarla? L’attenzione ossessiva su dinamiche auotocentrate, storie simili, non particolarmente memorabili, riesce ad andare oltre la riuscita di una battuta ben piazzata in uno spettacolo di stand-up?
Rifiuto ci prova anche se usa un espediente conosciuto, portandolo all’estremo: la rete è la cassa di risonanza che amplifica la paura di non essere visti, il desiderio di essere amati, l’odio che sorge quando quel desiderio non viene soddisfatto, la tentazione di nascondersi dietro identità curate, la tragedia di scoprirsi più soli, più fragili e più distorti di quanto avremmo mai creduto.
