Che vergogna, di Paulina Flores

di Paulina Flores Marsilio editore Traduzione di Giulia Zavagna pp. 234 Euro 16

di Paulina Flores
Marsilio editore
Traduzione di Giulia Zavagna
pp. 234 Euro 16

di Marina Bisogno

Ci sono dei momenti di irreversibilità nelle nostre vite. Colpa di un dispiacere, di una delusione, della corrente dei giorni che forza gli argini, scompone gli equilibri. Stare in mezzo a questo moto perenne vuol dire esistere, ed esistere comporta dei graffi sul cuore, talvolta di finire sul limite di una crepa. Dentro la crepa ci sono i ricordi, le eco di voci lontane, le visioni oltre la razionalità, ciò che siamo stati, quello che abbiamo amato. In piedi, sul ciglio, guardiamo l’essenza dell’essere umani. Paulina Flores, scrittrice cilena, classe 1988, che ha esordito con la raccolta di racconti Che vergogna (Marsilio editore, traduzione dallo spagnolo di Giulia Zavagna) scrive dei graffi sul cuore, delle crepe e di quello che ci finisce in mezzo. Un libro introspettivo, emotivamente maturo, cosciente, a tratti sarcastico, senza risposte, attraversato dalla meraviglia di chi non ha imprigionato la propria parte bambina e sa come interagirvi. Sono nove storie che, per quanto a sé stanti, condividono temi, stati d’animo. È come se ci fosse un narratore super partes a tenere le fila, e ogni racconto sostenesse un’idea più vasta, una specie di messaggio generazionale che stilisticamente mixa il mistero di Silvina Ocampo e la nitidezza espressiva di Lucia Berlin. Non a caso, con questo libro, la Flores si è aggiudicata il Premio Bolaño, attirando l’attenzione di pubblico e critica. Ci sono molti bambini tra le pagine. Crescono o sono cresciuti in periferia, in famiglie umili, e almeno una volta hanno sentito parlare della dittatura di Pinochet. Sono bambine, ad esempio, le sorelle del racconto che apre la raccolta e le dà il titolo.
In un’estate implacabile, accompagnano il padre a un colloquio di lavoro che si rivela una truffa, e anche il detonatore degli umori negativi che opprimono da un pezzo l’intera famiglia. La prima figlia, molto sensibile, ricordando i sorrisi e le attenzioni del padre, ormai intristito dalla disoccupazione, si dà da fare per trovare un annuncio adatto alla personalità del genitore. Il colloquio tradisce le aspettative non solo del capofamiglia, ma anche della bambina. Bellissimo e verosimile il passaggio in cui lei ricorda a memoria le battute de La sirenetta rievocando un periodo diverso, più spensierato. Sono continui, invero, anche negli altri racconti, i riferimenti ai cartoni animati, che puntellano il vissuto e l’immaginario di quanti pescano a piene mani dall’infanzia.
Oltre ai cartoni animati, tra le ancore di salvezza da traghettare dall’età dei giochi a quella adulta, ci sono i libri, come nel caso del ragazzo, voce narrante, di Ultime vacanze.

 

Attraverso la cugina Javiera, in campeggio, scopre il potere della lettura e delle storie Il piccolo rituale di leggere ogni sera iniziò a piacermi, e allora quasi aspettavo con ansia che la giornata in spiaggia finisse in fretta e che Javiera avvicinasse la luce della lampada e ci infilassimo nella tenda. Mentre leggevo accanto a lei succedeva qualcosa; si creava un’atmosfera diversa, una specie d’intimità.

 

La vacanza diventa iniziazione alla vita e la rivelazione, per il tempo a venire, che uno sguardo anticonvenzionale, alimentato dalla letteratura (chiarissimo il desiderio dell’autrice di omaggiare Čechov, citandolo ripetutamente nel racconto), può essere risolutivo in molte circostanze. Il racconto Zia Tata è invece interessante per la psicologia della protagonista, che, anche da adulta, resta la bambina che si nascondeva sotto il letto per trovarvi rifugio e protezione dal dolore per lo sguardo frettoloso della madre e le troppe baby sitter. Ma pure per l’elemento del tempo, che in poche pagine si dilata fino ad abbracciare venti anni di storia della voce narrante. Sul finale, da adulta, come in un circolo emotivo, la protagonista tende la mano alla sua infanzia e alla sua giovinezza e si lascia andare ad una riflessione amara, tuttavia consapevole:

 

Pensavo di poter abbandonare la mia famiglia, abbandonare chiunque fosse necessario, tagliare per sempre i ponti e ignorarne le conseguenze. Avevo la speranza di poter dimenticare. Desideravo la libertà di un’eroina, una vita tutta mia, felice.

All’epoca mi ergevo in modo ridicolo di fronte al mondo, convinta che avrei potuto batterlo e uscirne illesa.

 

L’illusione di crescere, di stare al mondo senza ridimensionarsi, compromettersi, è anche il motivo di Spirito americano. Due ex colleghe si ritrovano a distanza di anni nel posto dove hanno lavorato come cameriere. Ai tempi, sgobbare in un ristorante era sopportabile. La voce narrante, che studiava letteratura e non faceva che parlare di politica, poesia e cinema, aveva la certezza, sfacciata, di tagliare la corda e di non avere nulla in comune con quanti lavoravano nel locale con lei. La conosciamo adulta, incredula nei suoi panni, contenuta, senza quella spavalderia innocente che la rendeva scintillante. All’amica, che nel presente narrativo, le sembra soltanto una conoscenza circostanziata, tace l’insoddisfazione per ciò che non riesce a realizzare, mentre l’altra sfoggia i suoi traguardi, come se volesse sbatterglieli in faccia. Il non detto, i pensieri della voce narrante (che riesce ad essere franca con sé stessa, ma non con l’interlocutrice) sono l’impalcatura del racconto, che si chiude così:

 

Immagino che la nostra mente funzioni così. Non si tratta di essere ingenui, quello che facciamo è ingannarci. Ingannarci così bene da dimenticare, così bene, che un giorno le nostre azioni tornano e ci colgono di sorpresa, alle spalle. Almeno questo è quello che penso ora, mentre cammino di nuovo senza meta; devo aggrapparmi a questo, perché preferisco farmi passare per furba che non esserlo.

 

Cammina senza meta anche la protagonista di Dimenticare Freddy, che esce con le ossa rotte da una relazione amorosa, naufragata senza che lei se ne rendesse conto. Tiene un diario: è un momento difficile e di finire sotto il torchio di una psicoterapeuta che, nella migliore delle ipotesi ha letto la metà dei suoi libri, non le va. Scrivere è uno strumento di osservazione e di pulizia interiore. Riavvolge il nastro della sua storia mentre galleggia nella vasca da bagno, nella casa della madre. La vasca, l’acqua, simboli del doppio, diventano pretesti di autoanalisi. Saltano fuori segreti, immagini ricordi, paure, il rapporto con la madre, le insegnanti ai tempi della scuola. Tutto tace con la fine del bagno, l’acqua che scorre via e la vasca che si svuota.
L’interesse di Paulina Flores è per quello che si agita nei suoi personaggi, bambini o adulti. Tutti se ne vanno in giro con una ferita aperta: l'autrice la riconosce, sa cos'è e da dove nasce: per manifestarla al lettore ci va dentro e scava. Il linguaggio è immediato, cristallino. Non una scrittura nodosa, ma essenziale, magnificamente assemblata. Leggere Paulina Flores è un'esperienza duplice: la semplicità è solo apparente, è un fatto di espressione. Ogni racconto è una porta spalancata sull'inconscio. La consapevolezza che le sfumature della vita dipendano molto dallo sguardo e da come esse vengano raccontate ne alleggerisce la portata. I personaggi ci arrivano da sé, sviluppando una sorta di benevolenza verso i propri limiti e verso chi ha concorso a farli emergere dal pantano. Di percorsi facili non ne esistono. I cuscinetti della Flores sono quelli dei suoi personaggi: i libri, i film, persino i cartoni animati, in una parola le storie, quelle apprese e quelle ancora da scoprire.

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