Un pomeriggio a Battersea Park, di Alberto Canali

Un pomeriggio a Battersea Park , di Alberto Canali e pubblicato da Affiori - Perrone Editore, indaga una quotidianità fatta di rapporti incompiuti, sentimenti ambigui, azioni che si ripetono in loop estenuanti, paesaggi mortificati e piccole prevaricazioni lavorative. Un amore inseguito nella misteriosa e bellissima Cracovia, un incontro imprevisto in un parco urbano londinese assediato dalla speculazione edilizia, il consumarsi di una relazione tra due futuri medici all’Università di Edimburgo sono solo alcune delle storie di nostalgia e spaesamento di questa raccolta. Tra incontri e addii, tra la ritualità e l’imprevisto i protagonisti dei racconti non riescono a trovare un punto di equilibrio, almeno fino alla pagina finale delle loro storie.

Cattedrale vi propone la prima parte del racconto che da il titolo alla raccolta, per gentile concessione dell’editore.

Un pomeriggio a Battersea Park
di Alberto Canali

In metropolitana

Percorro la strada d’un fiato. Scarto nel piazzale già intasato dagli autobus. La stazione di Richmond è un monoblocco dalla facciata bassa e grigia: più che a una stazione, assomiglia a un ufficio pubblico di periferia. Guardo il grande orologio a lancette. Sono le sette e un quarto. È un venerdì di marzo dell’anno duemila e sedici e anche oggi sono puntuale. Un’alba senza sole come quella di tante mattine londinesi, anche se il venticello fresco che si alza dal Tamigi annuncia la fine dell’inverno.
Recupero dall’espositore un giornaletto gratuito, salgo le scale, passo il varco di accesso alla metropolitana e sono pronto per iniziare la giornata. Cammino fino all’estremità più lontana della banchina. Attraverso decine di sguardi persi nel sonno o assorti nei pensieri lenti delle prime ore della giornata.
I posti sulle panchine sono tutti occupati. Come sempre.
Aspetto in piedi l’arrivo del treno, in corrispondenza dell’ultima carrozza, quella meno affollata e dove c’è più speranza di sedersi.
 Mi tolgo il cappello, liberando i miei capelli ricci e morbidi, castani e ancora folti. Qualcosa di cui mi vanto ancora con i vecchi compagni di studi di Ingegneria a Genova. Tutti giovani adulti ormai calvi o in procinto di esserlo.
Il convoglio si fa attendere. Appoggio lo zaino sulla banchina. Respiro il puzzo di urina e di detergente che si mescola all’aria frizzante del mattino.
Su una panchina è seduto il mio vicino di casa, lo sguardo inclinato sull’iPad, assorto nella lettura.
Richard Green è un uomo distinto, dai capelli corti e neri, solo un po’ ingrigiti. Alto più del normale, magro, potrebbe avere quarantacinque anni. Nasconde il viso, scavato e poco espressivo, dentro un paio di grandi occhiali neri a montatura quadrata e lenti spesse. Un manager, come in Italia si usa dire di qualcuno la cui occupazione prevede una qualche forma elevata di responsabilità ma di cui è troppo complicato spiegare l’esatto contenuto, ammesso che lo si comprenda.
Brucio tutti sul tempo. Nessun colpo di fortuna, però. Soltanto esperienza e approfondite osservazioni statistiche.
Trovo posto in un piccolo scompartimento. Mi siedo vicino al finestrino. Su una poltroncina di velluto che quasi mi sembra comoda, considerato il livello di comfort che la metropolitana offre a quest’ora della giornata. Così posso starmene tranquillo fino a destinazione, senza preoccuparmi della folla che, fermata dopo fermata, mi cinge d’assedio.
Si parte. A ogni fermata le carrozze si riempiono di pendolari in misura variabile, proporzionale alla densità del quartiere attraversato.
Fuori dal finestrino il paesaggio di periferia a poco a poco sbiadisce e diventa ricordo. Entriamo nella Londra più urbana e conosciuta.
Passiamo Earl’s Court, fermata di una Londra a portata di studente che ho conosciuto al tempo dei miei vent’anni. Appartamenti, aria viziata e notti senza sonno.
Il treno lascia la superficie e s’infila nel buio di un tunnel sotterraneo. È qui che diventa The Tube, la vecchia e inossidabile metropolitana di Londra.
Tutte le mattine, da quattro anni, percorro questo identico tragitto dalla campagna fino al cuore della città. Ma il mio entusiasmo da neofita con in tasca una Oyster Card è già evaporato.
Per la solitudine urbana amplificata dalla folla che si stipa fin quasi a schiacciarmi. Per la monotonia che trasmette la via dove abito, la lunga fila di case tutte uguali, i muri esterni di mattoni sempre dello stesso colore marroncino, il bidone della spazzatura e, quando c’è, l’automobile parcheggiata. Senza parlare dell’assenza di alcune basilari funzionalità domestiche. Le finestre senza gli scuri che all’alba, sabato e domenica compresi, inondano la stanza di luce togliendomi il gusto di qualche minuto in più di sonno. L’impossibilità certificata di regolare la temperatura dell’acqua della doccia in un punto di equilibrio tra ebollizione e congelamento. I muri così sottili che mi domando se la tv sempre accesa sia la mia o quella dei vicini.
I passeggeri leggono libri o giornali, comunicano tramite moderni congegni elettronici o si isolano all’interno di grosse cuffie colorate. A me invece piace osservare le persone, immaginare cosa si nasconde dietro i profili anonimi, studiare i vestiti e il portamento, decifrare l’aspettativa della giornata, l’attesa per un incontro o il trascinarsi di un tempo sempre uguale.
L’immaginazione si fa più ispirata davanti alla varietà dei corpi femminili.
Gambe lunghe. E gambe corte.
Gambe nascoste e gambe mostrate.
Gambe storte e gambe da farti girare la testa.
E poi abitini colorati, scarpe dai tacchi esagerati e comode ballerine. Vestiti intonati alla sostanza attesa della giornata.
Il resto sono soprattutto classici abiti maschili.
Giacche e camicie inamidate. Divise d’ordinanza che poco lasciano intuire circa le sorprendenti modulazioni di personalità dell’homo britannicus, in perenne equilibrio tra understatement e senso dell’umorismo.
La ragazza seduta di fronte ha il viso affilato e la pelle chiara. Si nasconde dentro un caschetto di capelli biondi lisci. Sulla base del mio campione statistico, un’acconciatura di moda tra le giovani donne inglesi.
Indugio, poi punto gli occhi su di lei. Raddrizzo la schiena sul sedile. Distolgo lo sguardo verso i passeggeri appesi ai sostegni.
Ma l’immagine della ragazza è l’unica a distinguersi nel rumore di fondo del vagone. Alcuni suoi tratti, i capelli e i grandi occhi azzurri, sono così comuni a molte giovani donne inglesi che, quando le vedo sedute una a fianco dell’altra in metropolitana o intente a frugare la merce sugli scaffali dei grandi magazzini, mi pare che in giro per la città non ci sia soltanto una, ma cento o mille copie di quella ragazza.
Si chiama Rebecca. Così una volta un’amica l’aveva chiamata entrando nel vagone. E non fa orari regolari.
La guardo ancora con la coda dell’occhio, mentre tiene tra le mani After You, l’ultimo romanzo di Jojo Moyes. 
Avrà trent’anni, forse di più. La pelle è già segnata da qualche ruga. Rebecca non stacca neanche per un attimo gli occhi dal libro. Dopo le prime quattro stazioni il treno è già pieno e due passeggeri si infilano nello spazio tra i nostri sedili. Non la vedo più.
Vorrei che succedesse qualcosa.
Non succede niente.
Lascio andare i pensieri, e i desideri.
Chino la testa sul giornaletto gratuito. L’esperienza mi suggerisce un sano realismo nel tentare un’incursione che non sia accompagnata da una fascinazione fisica che mio malgrado non posso offrire. I miei occhi sono piccoli e poco penetranti. Il viso è tondo, ma simpatico più che bello. Gli occhiali, della forma di un piccolo ovale, sono leggeri e quasi trasparenti. Il fisico ordinario, anche se sportivo e ben tenuto. Meglio aspettare circostanze più favorevoli ai tempi lenti di una conversazione che probabilmente non ci sarà mai. Guardo di lato, prima a sinistra e poi a destra. A un paio di metri, appoggiato alla porta di servizio che separa una carrozza dall’altra, c’è Richard. Consulta il tablet, di sicuro starà lavorando.
Mi sono fatto l’idea che Richard sia una di quelle persone poco interessate a ciò che succede nel mondo e specialmente alla vita degli altri, immerse in una loro appagante economia dei sentimenti. Provo talvolta ad accennare qualche frase di circostanza, ma presto abbandono il campo. Anche una semplice conversazione non programmata su cose insignificanti sembra un disturbo. Così lui resta nel suo mondo e io nel mio. In Richard non c’è, almeno in apparenza, nessuna fibrillazione. Soltanto la rassegnata e consapevole accettazione del disagio di vivere e lavorare nella metropoli.
È venerdì. I trolley occupano gli ultimi spazi liberi della carrozza. Mi preparo all’ufficio. Ai riti e ai discorsi. Alle raccomandazioni dei colleghi che, uscendo trafelati a metà pomeriggio, mi saluteranno con un sorriso pieno di aspettative. Pronti a entrare nel week end, un mondo liquido in cui per due giorni è lecito trasformarsi in un altrove di sé stessi.
La mia debole percezione della discontinuità attesa per il fine settimana è bilanciata dai volti sicuri e determinati di Rebecca e Richard, compagni di viaggio a loro insaputa. Di certo loro ce l’hanno, un programma per il fine settimana.
Il treno, ormai prossimo alle stazioni del centro, rallenta la corsa.
All’interscambio con Victoria Station salgono gruppi di studenti. E poi immigrati in arrivo dalla periferia, manovalanza per uffici e alberghi di ogni genere.
Qualche mendicante resiste nella carrozzanon più di un paio di fermate. Poi si sposta verso il centro del treno alla ricerca di miglior fortuna. Per loro il fine settimana è soltanto lo stanco trascinamento dei giorni feriali, senza cuspidi né punti di discontinuità. Il massimo che possono sperare è che la temporanea sospensione delle preoccupazioni quotidiane favorisca nei passeggeri una disposizione d’animo più generosa, e di rimediare qualche sterlina in più delle poche che portano a casa in un’intera giornata di peregrinazioni e di infruttuose richieste.