Le ultime parole del poeta, di René Daumal

Fotografia di Luc Dietrich.

Fotografia di Luc Dietrich.

La poesia e la morte

Un’introduzione alle ultime parole del poeta di René Daumal

 

«Non si conosce la parola mediante la parola, ma attraverso il silenzio» 

René Daumal

 

René Daumal ebbe due ossessioni, una consequenziale all’altra: la poesia e la morte. La poesia era per lui un fatto serissimo, una questione di vitale importanza: la ricerca della Parola Unica, della Cosa-da-dire; la poesia, l’unica poesia che abbia un vero senso – la poesia bianca – è fatta esclusivamente di «parole di verità», pensava Daumal. E questa Parola Unica è inevitabilmente una «parola impronunciabile» poiché deve emergere, deve germogliare come un seme dal silenzio, dal buio, dal vuoto (o se vogliamo dalla vacuità buddhista), deve passare attraverso l’esperienza della morte. Morte che non è fisica, non è quella del corpo ma negazione dell’Io e della sua immagine falsa, del suo “apparire” –  diremmo forse oggi. Solo morendo metafisicamente, prima che sopraggiunga la morte definitiva, il poeta può davvero raggiungere il proprio Sé e lavorare strenuamente alla ricerca della Verità.

 

«Tutta la notte cercò di estrarre dal cuore la parola impronunciabile».

 

Il 1936 è un anno essenziale per René Daumal. Innanzitutto, è l’anno della pubblicazione di Le Contre-Ciel (in uscita, per la prima volta in italiano, nella versione di Damiano Abeni, per Edizioni Tlon), l’unico libro di poesia dell’autore e il primo dei soli due testi che vide pubblicati in vita. Questa pubblicazione segna la fine di un percorso – una morte – e l’inizio di un nuovo cammino che lo porterà ad allontanarsi da tutto quanto aveva vissuto fino a quel momento per intraprendere la perigliosa salita al Monte Analogo. 

Ed è nel 1936 che Daumal scriverà: «Le ultime parole del poeta», un breve testo, rappresentativo di tutta la sua poetica fino a quel punto e paradigmatico di quanto seguirà, nella sua vita e nella sua opera, da lì e in avanti fino alla sua prematura morte, otto anni dopo. Si tratta di una prosa lirica che, raccontando di un poeta condannato a morte, cui viene concesso di dire la sua ultima poesia, parla appunto della poesia in generale. Della Poesia Unica, dell’unica parola che valga la pena pronunciare. «Non ho che una parola da dire, una parola semplice come il fulmine», poiché quella Cosa-da-dire corrisponde al seme da cui può nascere la Verità. 

Eppure, ci dice Daumal, «La poesia non ascoltata è un seme perso», «se la poesia è un frutto, il poeta non è un albero. Vi chiede di prendere le sue parole e di mangiarle all’istante. Poiché non può, da solo, produrre il proprio frutto». Dobbiamo essere noi a mangiare la Poesia Unica e farla attecchire dentro, questo è il grande lascito di René Daumal: darci la responsabilità assoluta di raccogliere il suo insegnamento immane per non lasciarlo imputridire con il suo corpo. Ci offre una possibilità, una direzione, un’indicazione misterica e silenziosa – l’unica possibile – della via da seguire per raggiungere la Verità, la cima del Monte Analogo, la poesia bianca, il vero senso della nostra vita.

Così, l’ultimo grido del poeta, prima della fine, esprime tutti i timori intimi di René, la sua urgenza di ricerca, il suo bisogno estremo di morire per ritrovarsi, per risorgere nella conoscenza e nell’illuminazione del seme fattosi albero, fattosi uomo, divenuto poeta e infine maestro. 

 

«Raccogliete queste parole, che non siano un seme perduto!

Covate le mie parole, fatele crescere, fatele parlare!».

 

Pubblichiamo questo testo illuminato in attesa del suo Controcielo e nella speranza che il lettore attento possa trarne il significato più profondo e radicale per farlo suo e covarlo dentro di Sé con un lavoro costante teso a raggiungere la Parola Unica e l’unica Verità.

 

Andrea Cafarella

 


 Le ultime parole del poeta

 

Da un frutto che si lascia imputridire per terra può ancora nascere un nuovo albero. Da quest’albero, centinaia di nuovi frutti.

Ma se la poesia è un frutto, il poeta non è un albero. Vi chiede di prendere le sue parole e di mangiarle all’istante. Poiché non può, da solo, produrre il proprio frutto. Occorre essere in due per fare una poesia. Chi parla è il padre, chi ascolta è la madre, la poesia è il figlio. La poesia non ascoltata è un seme perso. O ancora: chi parla è la madre, la poesia è l’uovo e chi ascolta ne è il fecondatore. La poesia non ascoltata diventa un uovo imputridito.

 

*

 

A questo pensava, nella sua prigione, un poeta condannato a morte. Era in un piccolo paese, appena invaso dalle armate di un conquistatore. Avevano arrestato il poeta perché, in una canzone che cantava nelle strade, aveva paragonato la tristezza che logorava fino all’osso la carne del suo corpo ai fumi micidiali che avevano bruciato fino alla roccia la terra del suo villaggio.

Domani all’alba sarà impiccato. Ma gli si concede la grazia di poter dire di fronte al popolo, prima di morire, un’ultima poesia.

 

*

 

Diceva a se stesso, nella sua cella:

 

«Finora non ho fatto che canzoni per divertire.

Sarà la mia prima ed ultima poesia.

Dirò loro:

“Raccogliete queste parole, che non siano un

seme perduto!

Covate le mie parole, fatele crescere, fatele

parlare!”.

 

Ma che dirò loro, poi?

Non ho che una parola da dire, una parola semplice come il fulmine.

Una parola che mi gonfia il cuore, una parola che mi sale alla gola, una parola che gira nella mia testa come un leone nella gabbia.

Non è una parola di pace. Non è una parola facile da ascoltare. Ma deve condurre alla pace. Ma deve rendere tutto facile da ascoltare. A patto che la si prenda così come la terra riceve il seme e lo nutre uccidendolo.

Quando sarò imputridito, tra qualche giorno, che un albero di parole nasca dalla mia putrefazione. Non di parole di pace, non di parole facili da ascoltare, ma di parole di verità.

 

*

 

Ma, ancora, che dirò loro?

Non ho che una parola da dire, una parola tanto reale quanto la corda che m’impiccherà.

Una parola che mi dà prurito, una parola che mi divora, una parola che anche il boia potrà capire.

Aprirò la bocca – dirò la parola – chiuderò la bocca – e questo sarà tutto.

 

Non appena avrò aperto la bocca, si vedranno rientrare sotto terra i fantasmi e i vampiri e tutti i ladri di parole, gli imbroglioni al gioco della vita, gli speculatori della morte:

Quelli che fanno girare i tavoli,

quelli che fanno oscillare i pendoli,

quelli che cercano negli astri ragioni per non far nulla.

I fantasticoni, i suicidi,

i maniaci del mistero,

i maniaci del piacere,

i viaggiatori immaginari, cartografi del pensiero,

i maniaci delle belle arti, che non sanno perché cantano,

danzano, pettinano o costruiscono.

I maniaci dell’aldilà

che non sanno stare quaggiù.

I maniaci del passato, i maniaci del futuro, illusionisti di eternità.

Li si vedrà rientrare sotto terra non appena avrò la bocca aperta.

 

Non appena potrò pronunciare la parola, gli occhi dei sopravvissuti si rivolteranno nelle loro orbite, e ciascuno di questi uomini e ciascuna di queste donne guarderà in faccia il fondo della propria sorte.

Abisso di luce! Oscurità sofferente!

 

Non appena avrò chiuso la bocca, i loro occhi si rivolgeranno verso il mondo, carichi della luce centrale, e vedranno che il fuori è l’immagine del dentro. Saranno re, saranno regine, si vedranno gli uni gli altri, ciascuno solo come il sole è solo; ma tutti illuminati, dentro, dal fuoco di un’unica solitudine, così come, fuori, dal fuoco di un unico sole.

 

*

 

Ma sogno e cedo alla troppo facile speranza. Piuttosto, senza dubbio – diranno:

“Quel matto, è ora che lo si impicchi. Quella bocca inutile, è ora che la si chiuda”.

O forse diranno ancora:

“Le sue non sono parole di pace, non sono parole facili da ascoltare. Sono parole di un demonio. È ora d’impiccarlo e basta”.

 

E, in ogni caso, sarò impiccato. Ebbene, dirò loro:

“Voi non vivrete molto più a lungo di me.

Io muoio oggi, voi la prossima settimana. E la nostra miseria è la stessa, e la nostra grandezza è la stessa”.

 

Ma crederanno che sono parole d’odio. Questi infelici sono talmente certi di essere immortali! E, in ogni caso, sarò impiccato.

Che dirò loro? Certo dirò loro: “Svegliatevi!”. Ma non saprò dir loro come fare, e loro diranno:

“Ma noi non dormiamo. Impiccate, impiccate quest’impostore, e che lo si veda sputare la lingua!”.

Ed io, in ogni caso, sarò impiccato». 

 

*

 

E il poeta, nella sua prigione, colpiva la testa contro il muro. Il rumore di tamburo soffocato, il tam-tam funebre della sua testa contro il muro fu la sua penultima canzone.

Tutta la notte cercò di estrarre dal cuore la parola impronunciabile. Ma la parola cresceva nel suo petto e lo soffocava e gli saliva nella gola e girava sempre nella sua testa come un leone in gabbia.

Ripeteva a se stesso:

 

«Ad ogni modo, sarò impiccato all’alba».

 

E ricominciava il tam-tam sordo della sua testa contro il muro. Poi tentava ancora:

 

«Non ci sarebbe che una parola da dire. Ma sarebbe troppo semplice. Direbbero:

“Sappiamo già. Impiccate, impiccate questo ciarlone”.

Oppure diranno:

“Vuole sradicarci dalla pace dei nostri cuori, dal nostro solo rifugio in questi tempi di dolore. Vuole immettere il dubbio straziante nelle nostre teste, mentre la frusta dell’invasore già ci strazia la pelle. Non sono parole di pace, facili da ascoltare. Impiccate, impiccate questo malfattore!”.

E, in ogni caso, sarò impiccato. Che dirò loro?».

 

*

 

Il sole sorgeva con il rumore degli stivali. Fu condotto, i denti serrati, verso la forca. Davanti a lui i suoi fratelli, dietro di lui i suoi boia. Diceva a se stesso:

 

«Ecco dunque la mia prima e ultima poesia. Una parola da dire, semplice come aprire gli occhi. Ma questa parola mi mangia dal ventre alla testa, vorrei aprirmi dal ventre alla testa e mostrare loro la parola che nascondo. Ma se occorre farla passare dalla mia bocca, come ne varcherà lo stretto orifizio, questa parola che mi riempie?».

 

Allora tacque una prima volta: la sua bocca mantenne il silenzio. Una seconda volta tacque: il suo cuore si fermò. Una terza volta tacque: tutto il suo corpo divenne come una roccia silenziosa.

(Era come una roccia bianca, come la statua di un ariete davanti a un branco di montoni addormentati; e dietro di lui i lupi già sogghignavano).

 

*

 

Si sentirono rumori di baionette e di speroni. La proroga accordata giungeva al termine. Sul suo collo, il poeta sentì il solleticare della canapa e nel fondo dello stomaco la zampa unghiata della morte. E allora, all’ultimo momento, la parola esplose dalla sua bocca vociferando:

 

«Alle armi! Alle vostre forche, ai vostri coltelli,

alle vostre pietre, ai vostri martelli,

siete mille, siete forti,

liberatevi, liberate me!

voglio vivere, vivete con me!

uccidete a colpi di falce, uccidete a colpi di pietre!

Fate che io viva e io vi farò ritrovare la parola!».

Ma fu la sua prima e ultima poesia.

 

Il popolo era già troppo terrorizzato.

E per aver troppo tentennato in vita, il poeta ciondola ancora dopo la sua morte.

Sotto i suoi piedi, i piccoli mangiatori di putrefazione spiano questa carogna che morì appesa al ramo. Sopra la sua testa volteggia il suo ultimo grido, che non ha nessuno su cui posarsi.

(Poiché spesso è la sorte – o il torto – dei poeti, parlare troppo tardi o troppo presto).

  


Il testo qui riprodotto è tratto da Poesia nera e poesia bianca (Castelvecchi, 2014). Traduzione di Michela Summa. Ringraziamo l’editore per la gentile concessione. 

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