Lontano lontano, di Gianni Di Gregorio

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Dopo anni di cinema Di Gregorio arriva finalmente alla letteratura con Lontano lontano, tre novelle che confermano il suo talento e sorprendono per la naturalezza, come se dietro il regista da sempre si fosse celato lo scrittore. Sono storie di famiglie indolenti e camminate solitarie, di italiani medi che pensano soprattutto a se stessi, personaggi e situazioni che mai cadono nello stereotipo, tratteggiati in una lingua ricca e originale, in apparenza senza tempo e che invece affonda nella contemporaneità, nei suoi problemi, nei suoi paradossi.

Cattedrale vi propone l’incipit dell’ultima novella che da il titolo alla raccolta, per gentile concessione dell’editore.



Lontano lontano


Lunedì

Il professore era seduto al tavolinetto del bar e leggeva il giornale. Gli piaceva quel posto la mattina, il bell’affaccio sulla strada alberata che sale al Gianicolo, i ragazzi simpatici che gli facevano grossi sconti perché lo conoscevano e lo vedevano sempre gentile e sorridente, anche quand’era ubriaco.
Andato in pensione da poco, si ritrovava a condurre la sua vitarella, fatta di piccole cose noiose ma rassicuranti in fondo, tanto non c’era altra scelta.
Era stato un bell’uomo, e piaceva alle donne ma era innamorato di tutte e di nessuna, un inetto. Tuttavia si sposò e il matrimonio durò qualche anno. Non aveva figli ma non ne sentiva certo la mancanza dopo più di trenta anni passati a combattere con i suoi studenti del liceo, fra gioie e dolori, più dolori che gioie, cercando di illuminare generazioni di testoni con briciole di sapienza.
Qualcuno reclamò il giornale, che era quello del bar. Lo cedette a malincuore e tornò a sorseggiare lentamente il suo calice di vino bianco. Si accorse che si stava scaldando, e questo poteva compromettere il sereno avvio del nuovo giorno. Si domandò se fosse più giusto continuare a centellinare oppure berlo tutto d’un botto, prima che diventasse un brodo. In quel frangente vide passare il Vichingo sul marciapiede opposto. Bevve d’un botto e lo raggiunse.
«Ciao Vichì».
«Ciao. M’accompagni all’Ufficio Postale a ritirà la pensione, così te ridò quel cinquantino?».
Il Vichingo era suo coetaneo e vecchio amico. Di più, la loro amicizia risaliva all’infanzia, si erano conosciuti a sette otto anni mentre facevano il bagno nel Fontanone del Gianicolo. Era un’usanza bellissima. Le domeniche d’estate i ragazzini di Trastevere salivano al Fontanone e in mutande si tuffavano. Due o tre bambini scendevano da nord, un altro paio erano i figli degli ambasciatori che abitavano a due passi, scavalcavano i cancelli e arrivavano già in mutande o addirittura in costume da bagno. Era una festa. Lo scintillio del sole, gli schizzi, il pavimento fresco e ricoperto di sottile muschio, per cui scivoloni e un tripudio di urla e di risate.
Il Vichingo era stato per tutta la vita ed era tuttora refrattario e ostile al lavoro. Avrebbe potuto lavorare al banco di frutta e verdura al mercato gestito prima da sua madre e poi da suo fratello, lavorare in famiglia è un privilegio, ma non ci fu mai niente da fare. L’alzarsi presto la mattina, il caldo, il freddo, la polvere e il vento, un carattere antico e misterioso, la romanità stessa, avevano creato in lui una barriera d’orrore.
Ora aveva, per fortuna, la pensione minima. Si accontentava di poco, veramente di poco, gli piaceva stare al bar a chiacchierare, farsi quattro birrette e buonasera. Ogni tanto, se qualcuno gli stava antipatico, mostrava un certo caratterino, ma erano cose passeggere. Non era cattivo, anzi, considerando la fatica e l’impegno necessari a pensare il male, e dal pensiero passare all’azione, c’era da immaginare che l’anima del Vichingo fosse limpida come l’aria del mattino.
L’ufficio postale era pieno di vecchietti, giorno di pensione. Tutti cercavano di piazzarsi davanti alla bocchetta dell’aria condizionata, che più di tanto non poteva fare. Ma qualcuno non era rassegnato, e inveiva contro l’unico impiegato, un poraccio pure lui.
Finalmente ne uscirono e andarono a sedersi al bar San Calisto, per il meritato premio, vino bianco e una birretta. Il Vichingo aprì la busta e volle per forza restituire il cinquantino al professore. «Quello che è giusto è giusto, i buffi vanno pagati, anzi...».
Si alzò ed entrò deciso nel bar. Ne riuscì qualche secondo più tardi, pensieroso. Ricontò i soldi. «Ma qui ce mancano, porca mignotta!».
Allungò il foglietto al professore che si mise gli occhiali.
«Dunque… detrazione INPS euro diciannove e novanta… detrazione INAIL ventidue, IRPEF detrazione modello settecentotrenta euro ventitré e sessanta. Totale quattrocentoventi. Beh, è giusto, non manca niente».
«Ma come non manca niente?! Ogni volta sò de meno!».
Il Vichingo stracciò il foglio e bevve un sorso amaro.
«A professò, bisogna che ce ne andiamo da ’sto paese!».
«E dove vai?».
«I pensionati in Italia se ne vanno tutti, che non lo sai? Io per esempio c’ho la pensione minima, no?».
Il professore annuì.
«E ringrazia Dio che ce l’hai, co’ quello che hai lavorato...».
Il Vichingo lo guardò male.
«Insomma io qua non ce faccio niente, mentre ce sò paesi dove co’ ’sti quattro soldi ce vivi e fai pure una vita dignitosa!».
«Sarà, me sa che la fai troppo facile».
«Certo, che te frega a te? Tu c’hai la pensione bona!».
«Ah! Io c’ho la pensione bona? Io fra l’affitto e le spese non c’ho una lira e bada bene che ho insegnato latino e greco a centinaia di ragazze e ragazzi, per anni, hai capito?».
Al Vichingo scappò un sorrisetto.
«E pensi che se lo ricordano?».
«Se lo ricordano, non te preoccupà, se lo ricordano...».
La sera il professore aveva già dimenticato lo sproloquio del Vichingo e si preparò una minestrina più buona del solito. Il segreto sta nel non fare le cose di corsa. Tempo ce n’era ed era quello il momento migliore della giornata. Già al tramonto la coscienza si rilassava, aveva fatto quello che poteva, cioè niente, ed era abbastanza. Si addormentò davanti al televisore che trasmetteva un clamoroso western. Il Vichingo, staccatosi finalmente dalla sedia del bar, veleggiò verso casa, con il bicchiere di Campari ancora in mano. Rientrò nella sua tana, un antico fondaco ripieno di impicci, ma che aveva un bel bagnetto, grande comodità. Proprio lì cercava di entrare il Vichingo, ma la porta non si apriva. Quasi si spaventò.
«Chi c’è dentro?».
Dallo spiraglio si affacciò la faccia insaponata di un ragazzetto africano.
«Sono Abu, faccio la doccia. M’hai dato chiavi, ti ricordi?».
Il Vichingo si ricordò e andò a sedersi. «Che palle! Sbrigate!».
Certo, Abu. Gli dava spesso le chiavi per farsi la doccia, stava tutto il giorno in giro sotto il sole. Però aveva detto una doccia ogni tanto e adesso passava quasi tutti i giorni. E ogni volta lasciava al Vichingo un elefantino, pezzo forte delle piccole cose africane che cercava di vendere.
«Basta, ce n’ho tanti!».
«Porta fortuna!».
«Eeeh!».
Il Vichingo regalò ad Abu un sacchetto di frutta fresca e lo congedò. Ne giravano per Trastevere e per tutto il centro storico di ragazzi così. Gli facevano pena.


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