Pulisci le ossa, di N. Thompson-Spire

Piatto_bc_FacceDiColore_OK (1).jpg

L’editore Black Coffee ha portato ai lettori italiani, la raccolta di racconti Facce di colore, di Nafissa Thompson-Spires, tradotta da Massimiliano Bonatto.
Se molti autori di colore restano aggrappati a una narrativa che guarda al passato, queste storie rielaborano il canone letterario ancorandolo saldamente al presente. È così che Nafissa Thompson-Spires, giovane autrice al suo esordio letterario, riflette sulla «visibilità» fisica, sociale e politica del cittadino nero dell’America di oggi, resistendo alla tentazione di fornire facili risposte in favore di uno sguardo autentico che rifugge la generalizzazione.

Cattedrale vi propone uno dei racconti del libro per gentile concessione dell’editore.



Pulisci le ossa


Alma tenne gli occhi chiusi mentre cantava, in chiesa e poi al cimitero. Le bare sigillate le mettevano ansia, lasciavano alla fantasia troppi spazi da colmare. Provò a concentrarsi sulla canzone. Tredici. Il ragazzo aveva tanti anni quanti fori di proiettile in corpo, dalla testa al torace. Il vento di gennaio le sferzava le guance ma non riusciva ad asciugarle il sudore. Si tamponò la fronte con la sciarpa di seta, trattenne il respiro e si sedette sulla sedia bianca con il proprio nome. Non sentì il sollievo abituale nel pronunciare «going up yonder», i profondi suoni gutturali non la liberarono dal dolore. Era il quinto funerale in due mesi. Vedendo i portatori appoggiare rose bianche sulla bara argentata si sentì, d’un tratto, in colpa a farsi pagare per prendere parte a quell’intimità. Non conosceva il ragazzo, ma ne conosceva tre di quelli per cui aveva cantato negli ultimi tempi. I compensi permettevano a lei e al piccolo Ralph di infagottarsi in cappotti imbottiti come il soprabito blu con basco in tinta che indossava quel giorno. Composta all’esterno, dentro si sgretolava. Le dolevano le anche, gocce di sudore le imperlavano l’attaccatura della parrucca migliore che aveva e non riuscì a scaldarsi né in chiesa né sul prato assolato, accanto alla fossa dove deposero il ragazzo e la cassa in un gesto definitivo. «Hai cantato» disse Bette, collega di Alma in ospedale, che la aspettava con il piccolo Ralph presso l’ultima fila di sedie.
«È stata una bella cerimonia, fiori stupendi. E tu hai cantato».
La madre del ragazzo, la signora Madison, si avvicinò e strinse la mano ad Alma in silenzio, annuendo con approvazione prima di seguire il resto della famiglia nel corteo. Lei e il marito avevano poco più di quarant’anni e il ragazzo era, o era stato, il secondo di quattro figli.
«Ottima interpretazione. Vi aspettiamo a casa per il pasto» disse un uomo alto dalla fila in movimento, uno zio o forse un cugino che aveva aiutato con la sepoltura. Alma sorrise. Aveva conquistato il pubblico. Era il suo dono. Placare, almeno per un po’, l’agitarsi insonne della notte precedente.
Aveva eseguito «See You When I Get There» assieme a canti funebri tradizionali.
I genitori del ragazzo le avevano richiesto espressamente di evitare «I Believe I Can Fly».
Per cantare ai funerali servivano le stesse doti che impiegava nel confortare gli amici nelle sale d’aspetto o consolare i mariti al capezzale delle loro mogli. L’assemblea aveva mormorato i suoi «Mmm», pronunciato gli «Amen», cantato con lei «Since I Lay My Burdens Down», sventolato la mano destra in accordo alle parole «ne ho abbastanza di averne abbastanza». Era stata una cerimonia decorosa, senza forti pianti né lamenti, ma la mancanza della tensione abituale – l’assenza di singhiozzi o plateali traumi fisici – le aveva dato un senso di nausea, e il freddo le gonfiava la pancia come un fibroma che le si aggrovigliava ogni istante di più ai noduli che aveva dentro. I farmaci l’avevano ingrassata di dieci chili in due mesi, che erano andati ad aggiungersi al peso guadagnato con la gravidanza di Ralph, che ancora non aveva perso, e la faccia di prima ora galleggiava nella sua nuova faccia. La gonadotropina e gli antidepressivi che le aveva prescritto la ginecologa nonché collega, la dottoressa Brown, non lenivano la sofferenza, ma lei li prendeva lo stesso per avere la sensazione di star facendo qualcosa. Si svegliava in un bagno di sudore freddo, teneva una vestaglia e lenzuola pulite sul comodino accanto al letto per cambiarsi alle tre di notte, riusciva a cronometrare le palpitazioni nel petto e le fitte alle ossa del bacino. A trentacinque anni le avevano indotto la menopausa precoce per fermare la crescita dei noduli, ed erano sintomi che aveva previsto. Quello che non si era aspettata era l’intensità del terrore notturno, che la teneva sveglia dopo che il sudore si era asciugato e che si insinuava lungo le ore di veglia. E cosa avrebbe fatto del bambino accoccolato sulla spalla di Bette – anche lui ne aveva abbastanza di averne abbastanza – con il muco rappreso che gli incrostava entrambe le narici e lo costringeva a rantolare dalla bocca, il bambino che compariva sempre più spesso durante gli attacchi di terrore?
«Andiamocene da qui» disse a Bette.


Alla tavola calda di Ashland, Alma e Bette si sedettero a un tavolo e sistemarono Ralph sul lato corto in un seggiolone. Stava piagnucolando, così Alma gli diede la scatola con le bustine di zucchero e altri dolcificanti con cui giocare.
«Sei andata a fargli vedere il naso?» chiese Bette, mescolando il latte nel caffè. Aveva un anno in più di Alma e niente figli, e spesso le teneva Ralph quando i turni in rianimazione non si sovrapponevano. «Sempre la stessa storia» disse Alma, fissando il suo tè. Bette stava dicendo che Ralph era davvero carino, che la camicetta e la cravatta bordeaux lo facevano sembrare un ometto, che se lo sarebbe potuto mangiare.
Puoi tenertelo, pensò Alma. Poi lo disse ad alta voce: «Puoi tenertelo».
«E io me lo terrei anche» tubò Bette, rivolta a Ralph. «Certo che sì, certo che sì». Prese una delle bustine gialle di dolcificante che il bambino aveva disseminato sul vassoio del seggiolone. Lui le rifilò un grugnito e gliela strappò di mano. «Fai il bravo, Ralphie». La sua voce era stucchevole come le bustine. «Fai il bravo con zia Bette».
Alma intonò e alleggerì la voce per conferirle l’aria di una domanda ipotetica: «Ma cosa faresti se te lo lasciassi così, davanti alla porta di casa?». Le sfuggì una risata.
Bette smise di sorridere, aprì le dita di Ralph per prendere la bustina, la svuotò in fretta nel caffè e gliela restituì: «Lo prenderei con me, ma mi preoccuperei. Cosa c’è, Alma, è per il funerale, tutti quei funerali?». «Ma come faresti a tenerlo al sicuro?» chiese Alma. «Noi viviamo in un buon quartiere» rispose Bette.
L’altra metà di quel «noi» era il marito Justin. «Anche tu vivi in un buon quartiere, cavoli».
«Ma come faresti a proteggerlo?» le chiese Alma.
«Farei del mio meglio» cominciò Bette, ma finì con: «Forse è meglio andare a casa, così ti puoi riposare. È stata una lunga settimana. Posso tenere Ralph questa sera, se vuoi staccare un po’».
Alma scosse la testa.
Quando si separarono, Bette diede un altro abbraccio a Ralph con un «Fai il bravo con la mamma, tesoro», e poi disse che l’avrebbe chiamata più tardi.


Durante l’attacco di terrore di due sere prima Terry, il fratello di Alma, le era apparso assieme al ragazzo della stanza 26: duettavano con le chitarre mentre cantavano un medley delle canzoni preferite di Terry. Macchie di sangue secco chiazzavano il camice verde sbiadito del ragazzo, simili a tanti colpi di pistola, e sebbene la pelle scura apparisse pallida sotto la luce a neon della stanza, lui continuava a suonare la chitarra elettrica con energia, ululando come un forsennato.

Oh what’s a man to do?
What’s a man to do
If I can’t have you?
If I can’t


Cantavano senza la tipica leggerezza di Terry nel declamare i testi, con i volti arrabbiati. Il ragazzo mise giù la chitarra di colpo e dal taschino del camice estrasse un bisturi e si avvicinò ad Alma. «Praticherò un’incisione sul lato destro, da qui a qui» disse, indicandosi il bacino striminzito da una parte all’altra. «Tirerò fuori un bambino e gli darò un nome antiquato, tipo Ralph». Alma guardò Terry in cerca d’aiuto, ma lui era disteso sul letto del ragazzo con gli occhi chiusi e le mani cinte in grembo, la stessa posizione che aveva nella bara. Provò a urlare, ma tutto quel che le uscì fu una canzone. L’incubo finì bruscamente con Alma inzuppata di sangue, ma quando si toccò le anche, era soltanto sudore.


Alma entrò con Ralph nell’appartamento, che si affacciava su un laghetto artificiale, e si tolse il cappotto. Il bambino, grassoccio al diciottesimo mese di vita, si era riempito le tasche di bustine di dolcificante, quattro gialle e due rosa.
Durante il tragitto in macchina, e anche adesso a casa, aveva stretto in mano una cannuccia rossa, e mentre Alma lo svestiva ed era alle prese con il suo naso e l’aspiratore, lui canticchiava versi striduli ma appagati. «Vai a giocare con le tue cose, Ralphie» disse Alma dopo che gli ebbe cambiato il pannolino. Lasciò la porta della camera accostata e si accomodò nella cucina spaziosa.
Bette doveva pensare che fosse impazzita. Avrebbe dovuto dirle della mancanza di sonno, almeno quella causata dai farmaci. I terrori notturni li avrebbe tenuti per sé. Terry le faceva spesso visita durante gli attacchi, ma negli ultimi tempi le apparivano sempre più spesso anche i pazienti della rianimazione, e persino quelli di traumatologia di cui aveva solo sentito parlare nei corridoi e che non aveva seguito personalmente.
Sette anni prima Alma, sua madre, la sorella Lisette e la ragazza di Terry, Katrina, avevano sepolto il ventinovenne Terry in seguito a una sparatoria con la polizia. Era quello il termine che aveva usato la stampa, «sparatoria», ma Terry era disarmato. Le cause legali erano chiuse, la bara di Terry aperta, le sue visite notturne assidue ma non più allarmanti. Non sembrava che stesse tentando di dirle qualcosa che non sapesse già sulle circostanze della sua morte. Nell’armadio di sotto, avvolto nella carta da forno, Alma teneva un pezzo di femore del fratello. L’aveva lavato e pulito lei stessa, una richiesta personale che aveva fatto al medico forense. La madre, la sorella e Katrina avevano tenuto le altre spoglie, i vestiti, i libri, le chitarre.
Ma perché le appariva con i ragazzini, quelli dell’ospedale? Tre settimane prima era stata la volta del ragazzo investito dalla volante, due mesi fa una ragazza il cui fratello stava giocando con la pistola della madre.
Ralph si mise a piangere dietro la porta socchiusa, voleva che lo prendesse in braccio. E sebbene fosse in grado di camminare (era solo cocciuto), Alma lo sollevò al petto e lo portò in soggiorno, mettendogli davanti due frollini e un piatto di plastica pieno di cracker al formaggio.
Alma aveva immaginato la vita come qualcosa di sensuale: tasti, corde, fili che nella combinazione giusta producevano accordi bellissimi, blues lenti e lacrimosi. Adesso era fatta di strilli nel cuore della notte e piagnucolii senza preavviso. Era tutta corpi: quelli che arrivavano in reparto crivellati di proiettili, ragazzini di undici, dodici anni con le felpe fradice, e quelli vestiti per i funerali, con i fori tamponati e coperti da abiti eleganti, spesso comprati all’ultimo minuto da madri che faticavano a mettere in tavola un piatto di spaghetti in bianco. All’inizio del lavoro in ospedale, alcune infermiere le avevano insegnato a pregare per i ragazzini a seconda della gravità. Il primo livello, pregare che si rimettessero; il secondo, pregare che il dolore si placasse. Alma ci aveva messo un po’ a comprendere il terzo livello – pregare che morissero, che la pietà e la grazia accorciassero la sofferenza –, ma dopo qualche mese di lavoro l’aveva accettato, quando avevano portato il ragazzo con il volto fatto a pezzi. Gli occhi di sua madre avevano con- vinto Alma che a volte la vita allungava soltanto il dolore.


C’erano così tanti corpi nella vita quotidiana di Alma. Come quello minuscolo di Ralph, a tratti gocciolante, a tratti congestionato per la bronchite, le infezioni bronchiali, la sinusite cronica che gli colorava di verde e giallo le narici e gli provocava il vomito per impedirgli di soffocare nel cuore della notte. Alma lo lavava e provava a rimettersi a dormire, grata che non fosse asfissiato.
Squillò il telefono e Alma valutò se ignorare la chiamata di Bette prima di risponderle.
«Sto bene» insistette, quando l’amica si offrì di andare da lei. «Lo metto a dormire presto e mi godo la giornata libera prima che finisca».
Sul certificato di nascita c’era scritto Ralph Boaz Parr, ma Alma lo chiamava il piccolo Samuele, perché quando ancora l’utero le si attorcigliava alle viscere, aveva promesso al Signore che se l’avesse benedetta con un figlio, lo avrebbe offerto a Lui. Dopo due laparoscopie (una per estrarre un fibroma di sei centimetri completo di denti e capelli), un raschiamento e un ciclo di punture per la fertilità, aveva concepito Ralph con l’aiuto dell’amico Danny, che aveva acconsentito a fungere da donatore di sperma ma non da genitore, da padre ma non da papà. In quel momento ad Alma era andato bene. Ora le aderenze erano tornate, le sentiva tirare nel fianco sinistro, e prendeva i farmaci per ritardare un altro intervento. Si domandava cosa sarebbe successo se avesse scelto di avere un bambino in modo tradizionale, se Danny fosse stato il papà, addirittura il marito, e non solo il padre. Forse avrebbe ricevuto più sostegno oppure, trovando insopportabile badare ad Alma e a suo figlio, Danny l’avrebbe lasciata sola, proprio come adesso.
Aveva messo a Ralph un vestitino bianco e una cuffietta in occasione del battesimo, al quale Danny era presente. Era avvenuto tre mesi prima, all’incirca quando i terrori notturni si erano intensificati. Al battesimo non avevano immerso Ralph per intero, gli avevano spruzzato un po’ d’acqua addosso e unto la testa con l’olio consacrato, secondo la tradizione pentecostale. Sotto il lavandino del bagno, Alma conservava una parte dell’olio d’oliva in una sottile bottiglia intagliata.
Lei non aveva passato il segno quanto sua madre nell’usare l’olio consacrato. La madre ci aveva unto le colonne di casa, si era aggirata per le stanze mormorando incantesimi e aveva suggerito che, quando il bambino avesse fatto il difficile, una spalmata in faccia gli avrebbe senz’altro giovato. Tuttavia, quando si esibiva, Alma si ungeva la fronte con l’olio e pregava velocemente affinché potesse, in tutta umiltà, dare conforto a famigliari e amici, perché ricordassero l’incoraggiamento dei testi e le canzoni servissero a rasserenarli. Benché non potesse esserne certa, senza l’olio le esibizioni le sembravano meno capaci di alleviare il dolore, spargevano sabbia invece di balsamo. Non che le canzoni fossero meno belle, ma dopo aver cantato senza l’unguento, le famiglie le sorridevano e le stringevano le mani quasi fosse lei ad aver bisogno di consolazione. Sì, doveva essersi scordata di usare l’olio prima di esibirsi al funerale del ragazzo di Madison. Doveva essere quella la ragione per cui, nonostante i complimenti ricevuti, si era sentita così inquieta.
«Andiamo a fare il bagnetto» disse Alma. Accese un po’ di musica e portò Ralph nel secondo bagno.
Quella sera si spalmò olio di ricino sull’addome, cominciando dal lato destro, massaggiando il fegato e scendendo lungo il ventre fino alle anche e poi di nuovo sui fianchi.
Come per l’olio consacrato anche quando dimenticava di completare il rituale il corpo glielo faceva sapere. Le tossine sembravano accumularsi più in fretta, la digestione diventava lenta e il dolore, che non si placava mai del tutto ma era lieto di rammentarle che poteva andare peggio, le faceva contorcere la cavità addominale e pelvica. Gli impacchi di olio di ricino avrebbero dovuto ridurre i noduli, così diceva Internet, e nonostante la formazione da ricercatrice e la diffidenza, ogni sera Alma si cospargeva con quell’olio freddo e viscoso in attesa di qualche miglioramento. Si premeva addosso un cuscinetto termico e avvolgeva il busto con vecchi panni. L’olio macchiava lo stesso le lenzuola, lasciandovi un odore penetrante. Era quella la sua vita, i resti che riusciva a lavare via e quelli che non riusciva a togliersi di dosso.
Non dormì. Non era mai capace di dormire dopo una performance, a prescindere da come fosse andata, ma soprattutto adesso. Prevedeva l’arrivo di Terry e pensava che ad accompagnarlo sarebbe stato il ragazzo di Madison da sotto il coperchio della bara. Tuttavia fu Ralph a comparire assieme a Terry durante l’attacco di terrore. Stavolta non canta- va, ma gridava con voce tombale: «Come farai a tenermi al sicuro?». Aveva il volto e i vestiti zuppi, come se lo avessero immerso nell’acqua.
Alma si alzò e andò a controllare il figlio, che russava lievemente nella culla. Quando tornò in camera, si mise in ginocchio accanto al letto e recitò un’altra serie di preghiere. Spense il volume della televisione e riprodusse musica dal cellulare tenendola bassa. Sedette sul letto e cominciò ad angosciarsi per il turno che sarebbe cominciato da lì a quattro ore, per la propria vita, per il suo bacino.

Quando, single e senza figli, Alma aveva cominciato a cantare ai matrimoni, gli affari andavano a rilento, ma era la sua passione e non soltanto un secondo lavoro; i soldi non le servivano. Alcuni clienti, che avevano saputo di lei con il passaparola all’ospedale e grazie ai cd demo che distribuiva durante le visite, trovavano i gorgheggi e i virtuosismi eccessivi per l’occasione: per il loro giorno speciale preferivano qualcosa più da Chiesa episcopale invece che da Chiesa di Dio in Cristo. Come cantante da funerali aveva più esibizioni di quante ne desiderasse e con i guadagni, per quanto le sembrasse sbagliato chiamarli così, aveva pagato le terapie per la fertilità.
La madre e la sorella non capivano perché Alma si fosse sottoposta a cure così impegnative per sistemarsi l’utero soltanto per diventare una madre single. Però non avevano più menzionato i modi poco tradizionali in cui Ralph era stato concepito, una volta visto «quell’adorabile bebè, uguale identico allo zio Terry».
Per quanto il bambino fosse separato dall’utero, e nono- stante una solida rete di famigliari e amici che la sosteneva- no, talvolta Alma sentiva che Ralph era solo un’altra aderenza, un nodulo nella sua felicità futura.
Una volta capito che Terry e Ralph stavano per tornare da lei, Alma si rassegnò a non dormire e andò a sedersi in cucina. Fuori era ancora buio e il lago si increspava alla luce di un lampione lontano. Controllò di nuovo Ralph nella culla. Aveva il pannolino e la parte inferiore del body fradici, e sul petto gli si era rappreso qualcosa di bianco e limaccioso. Mentre andava nell’altro bagno a riempire la vasca, Alma si sentì sull’orlo delle lacrime.
Doveva chiamare Bette o forse l’ospedale, o addirittura sua madre.
Non pensò a prendere dall’armadio la vaschetta per bambini. Aprì l’acqua, saggiando la temperatura con il gomito. Tolse dalla culla Ralph, che per un attimo si lamentò e frignò, e poi la guardò negli occhi come a dire: «Perché mi hai svegliato?».
Tentò di comporre un sms col pensiero, di dargli un qual- che tipo di spiegazione o richiesta di scuse, ma non riusciva a decidersi sulle parole giuste. Ralph batté le mani prima e dopo essersi fatto sfilare dalla testa la maglietta. Alma lo spogliò e poi gli mise un completo bianco di lino che aveva comprato per una vacanza imminente. Gli unse la fronte con l’olio d’oliva.
Le sovvenne una canzone, una che Terry suonava alla chitarra acustica quando lei aveva sei o sette anni. Una volta finito con Ralph si sarebbe preparata per il lavoro – altre volte aveva lavorato dormendo anche meno di così – e si sarebbe occupata del ragazzo della stanza 47, magari avrebbe detto una preghiera da terzo livello per lui e una da secondo per sé.
Quando coprì la testa di Ralph con l’acqua tiepida, rifletté che quantomeno non era ghiacciata. Quantomeno non era profonda come se avesse fatto un tuffo da una nave negriera. Quantomeno era più confortevole che se l’avesse obbligato a galleggiare sul Nilo in un cesto di vimini. Lo spinse sotto una prima volta e contò fino a cinque. Quando i proiettili gli ave- vano frantumato la gamba destra e poi il petto, Terry aveva avuto tempo di gridare? Avrebbe conservato anche una parte di Ralph? I volti di entrambi si mescolavano tra loro. Pianse di terrore e placò il rimorso canticchiando qualche strofa, «le sue ossa non si spezzeranno», «lassù non ci saranno più pianti». Poteva farcela: undici, dodici, tredici. A quattordici, il dubbio aveva cominciato a insinuarsi. Non doveva avere un scelta anche Ralph, adesso che era qui? Chi era lei per strappargli la vita nel timore che qualcos’altro potesse farlo? Era questo che avrebbe voluto Terry per suo nipote?
Strattonò Ralph fuori dall’acqua. Aveva gli occhi sbarrati e lei aveva perso il conto. Temette che il danno fosse ormai irreparabile e ascoltò il petto del figlio. Alma era fuori di sé, ma la memoria muscolare prese il sopravvento e si mise a praticare il massaggio cardiaco. E se non si fosse svegliato? E se si fosse svegliato ma fosse rimasto un vegetale per tutta la vita?
Alla prima compressione Ralph emise un gorgoglio, sputò acqua e pianse. Era abituato a respirare appena.
Per la prima volta da mesi Alma tirò il fiato.
Non sapeva come sarebbero riusciti a superare la notte, tantomeno gli anni. Un giorno o l’altro uno di loro o entrambi avrebbero potuto finire con la testa sott’acqua. Per ora, Alma avrebbe controllato Ralph e se stessa, magari avrebbe chiamato Bette. Diede un leggero pizzicotto alla gamba grassottella di Ralph. Sentì una specie di raggio di sole illuminarle il collo e il petto, vide un bagliore caldo di cielo o speranza nel volto bagnato del piccolo, e rivestì entrambi per andare a letto.

page-header.jpg