Buonanotte fratello, un racconto di Ivan Ruccione

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«Tu mi stavi ammazzando
tu mi stavi ammazzando con amore
ed io dormivo dov'era più freddo
dentro il mio pozzo ormai senza pudore
con il mio cuore stranamente nudo
e mi dicevo adesso sì che sto crescendo
invece era soltanto una stazione».

 Buonanotte fratello, Francesco De Gregori.


 

Papà torna a casa dal lavoro e mamma gli racconta quello che hai fatto.
«Non è possibile», dice. «Ti sarai impressionata».
Si fa consegnare la chiave della mia camera, la inserisce nella serratura e apre la porta. A tentoni tocca il muro in cerca dell'interruttore; copro gli occhi col braccio un attimo prima che accenda la luce. Bisbiglio un saluto.
«È vero quello che ha combinato?», mi chiede.
Scopro gli occhi e sollevo la schiena in un lampo.
«Ma non li hai visti i lividi?»

 Stavi preparandoti per uscire.
Hai detto: «Mamma, lucidami gli anfibi».
«Certo», ti ha detto.
Che altro ti deve dire. Come sempre ha fatto quello che hai chiesto.
Li hai guardati e hai urlato:
«Cazzo, me li hai graffiati!»
«Ma no», ha detto mamma. «Non te li ho graffiati».
Hai cominciato a camminare per casa nervosamente. Mentre camminavi riflettevi. Mamma si augurava che una scintilla nella tua testa ti facesse rendere conto che non c'era ragione di arrabbiarsi. Che sei un uomo.
«Non li avrò puliti bene», ha detto mamma. «Fammi prendere lo straccio».
Io ero a letto. Ho chiuso il libro che stavo leggendo e sono volate via tutte le cose che mi tengono lontano da te, che mi conducono a una camera iperbarica.
«Ci risiamo», ho detto.
Mamma ha ripulito gli anfibi, ha cercato di togliere il graffio come se fosse una missione di vita.  «Vaffanculo!» hai urlato. «Non viene via un cazzo, me li hai rovinati!»
Ho avvolto il cuscino attorno alla testa, ho sentito il lezzo degli incubi assorbiti dalla federa.
Ho aperto la porta della mia stanza. Hai preso per il collo mamma e l'hai inchiodata al muro. Hai fatto dondolare l'anfibio davanti ai suoi occhi, poi l'hai buttato a terra. Hai serrato la sua gola con due mani e ho visto il volto avvampare. Le mie braccia immobili lungo i fianchi, paralizzate dai suoi occhi verdi, schizzati fuori dalle orbite sotto la tua pressione. L'hai spremuta fino a farle uscire le lacrime, fino a estrarre il succo del suo cuore marcescente.
Hanno suonato alla porta e hai mollato la presa. Sono corsa ad aprire.
«Che succede?» ha chiesto la vicina.
Mamma ha tossito e ha detto: «Niente».
«Devo chiamare qualcuno?»
«No, no, non ti preoccupare, non è successo niente».
Sempre “niente”, dice.  Anche se quel niente sei tu.

Papà si passa il dorso della mano sotto il naso, si liscia la barba attorno alla bocca, fino al mento. Si avvicina per sedersi sul bordo del letto. Poi arriva mamma.
«Adesso dov'è?» le chiede.
«È uscito».
«Mamma», dico. «Chiama quella cazzo di comunità e digli che ce lo riporti».
Infila le mani nelle tasche del grembiule, guarda il soffitto dopo aver tirato un grande sospiro.
«Non ce lo vogliono più», dice.
«Scapperà un'altra volta», prosegue papà. «Non dura due mesi. E poi ancora mi toccherà cercarlo per giorni e tirarlo fuori dai guai».
Mi distendo e copro di nuovo gli occhi col braccio.
«Salvati almeno tu», dice mamma. «Non lo meriti».
«Voi invece lo meritate, vero?»
«Non abbiamo scelta», dice papà.
«Ora chiamo la zia», dice mamma. «Puoi stare da lei».
«No», dico. «Non ci vado dalla zia».
«Finché non ti laurei», dice papà. «Manca poco, in fondo. E poi ne riparliamo».
«Sì», dice mamma. «Mi sembra una buona idea».
«No», dico solennemente.
«L'altro giorno è toccato a te», ribatte mamma.
«Ti prego», insiste papà. «È per il tuo bene».
«E al vostro non ci pensate?»
Papà si alza dal letto e cammina verso la porta. Sento il materasso che, liberato dal peso, riacquista la forma. Papà si  ferma a due passi da mamma, le mette una mano sulla spalla per guidarla in cucina.
«Ohi», gli rammento. «La porta».
«Buonanotte», dice. «Scrivimi, se hai bisogno».
Spegne la luce e mi chiude dentro.

Il giorno dopo mi alzo tardi perché la notte non ho chiuso occhio.
Tiro giù la valigia dal guardaroba, la getto sul letto. Una valigia nuova di zecca che mi ha regalato mamma al conseguimento del diploma. Una valigia mastodontica, a cui non ho mai trovato il senso della misura; il cui senso lo trovo ora che non mi serve per andare in vacanza.
Mamma mi aiuta a riempirla. In sottofondo c'è un disco dei Pearl Jam che stai ascoltando a tutto volume in camera tua. Mamma dice di mettere l'indispensabile, dice che il resto me lo porterà papà all'occorrenza.
«Mamma», le chiedo, «com'eri alla mia età?»
Prende una camicia dal guardaroba e toglie la gruccia. Si china verso il letto, la piega a modo e stira con le mani il colletto. La sistema nella valigia, risolleva la schiena mentre sposta i capelli biondi dietro le orecchie.
«Mi sembra passato un secolo».
«Mi dispiace», dico. E la abbraccio forte.

Papà parcheggia nei pressi della stazione. Scende dall'auto lasciando il motore acceso, mi aiuta con la valigia nel bagagliaio.
«Ti scoccia se non vengo fino al binario?» dice.
«Non ti preoccupare, pa'. Non ce n'è bisogno».
Guarda l'orologio e dice: «Be', siamo in anticipo. Puoi fare con calma».
«Sì», dico. «Stai tranquillo».
«Chiama la zia, quando stai per arrivare».
So che vorrebbe dirmi altro ma non riesce, il suo sguardo fugge altrove per la commozione.
Gli do un bacio e trascino dietro di me la valigia, attraverso la strada guardando le mie scarpe che calpestano l'asfalto. Uno stridio di pneumatici mi fa sobbalzare sul posto. Vedo un'auto a pochi passi da me, il conducente alza la mano in segno di scuse. Raggiungo l'ingresso della stazione, mi volto per salutare papà dall'altra parte della strada.
Do un occhio al tabellone delle partenze. In cima alla lista c'è un altro treno al terzo binario, così mi affretto per le scale del sottopassaggio, mi affanno di nuovo in superficie con la valigia che sembra voglia spingermi giù. Si ode il fischio del capotreno e monto in carrozza due secondi prima che le porte si chiudano. Mi siedo sul bagaglio per riprendere fiato.
Poi percorro i vagoni a rilento, dando il tempo ad alcuni passeggeri di sistemare le loro cose nella cappelliera, finché non raggiungo il capotreno.
«Mi scusi», gli dico, con ancora tracce del fiatone. «L'ho preso al volo e non sono riuscita a fare il biglietto».
Poggio la valigia a terra e lo zaino sulla valigia per cercare il portafoglio. Lui prende il pos.
«Dove deve andare?»
Alzo lo sguardo dallo zaino.
«Non lo so».
La visiera del suo berretto si solleva, spinta dalle pieghe della fronte, mentre mi fissa con perplessità dietro un paio di occhiali da lettura posati sulla punta del naso.
«Signorina», dice. «È necessario che lei lo sappia».
«Qual è il capolinea?» gli chiedo.
«Roma».
Ci rimugino su. Dico: «Sì. Va bene. Roma può andare».
«Si segga, intanto, che siamo prossimi a una fermata. Arrivo subito».
L'aria che entra dal finestrino sa di terra, un alito umido e perpetuo. Inserisco gli auricolari nel telefono e avvio la playlist con le mie canzoni preferite.
Allungo il collo sopra le testiere e poi nel corridoio, preoccupata dal non arrivo del capotreno.
Il telefono vibra per una chiamata anonima, penso che qualcuno voglia dirmi che stavolta li hai uccisi.
Mi agito irrequieta sul sedile, cercando di soffocare quest'idea. Il buio sta calando sulla campagna e sulla ferrovia. La valle è puntinata dalle luci di poche strade e abitazioni. Volevo essere così, un borgo antico e immobile. Invece mi hai reso una metropoli, caotica e invivibile.
Mi chiedo se il ragazzo seduto di fronte a me vede la tua ombra nei miei occhi, o se mi vede bella come un fiume che scorre docile verso il mare.

   


 Ivan Ruccione (1986) è nato e cresciuto a Vigevano. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati su Nazione Indiana, Grafemi, Altri Animali, Poetarum Silva e Pastrengo. Nel 2017 è uscito il romanzo A fuoco vivo, Miraggi edizioni. Fa il cuoco e smania per i libri di racconti.