Il racconto vincitore del contest OGNI DESIDERIO

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L’11 Maggio nell’ambito del Salone del libro di Torino, è stato decretato il vincitore del concorso ‘Ogni desiderio’ per racconti indetto dal Premio Italo Calvino, in collaborazione con Cattedrale, Book Pride e Salone del Libro.

Ottima la partecipazione per questa prima edizione, in cui i partecipanti sono stati 1065.

Il vincitore decretato è Claudio Lagomarsini con il racconto ‘In virtù di un cavillo’, che ha saputo coniugare il tema del concorso in modo attento, intenso e anche ironico, con una scrittura consapevole e compatta, che rinuncia all’esibizione, pur nella sua essenziale espressività ed efficacia.

*


In virtù di un cavillo

di Claudio Lagomarsini

 

In una cittadina industriale del Nord-Ovest, al secondo piano di un letto a castello, nella bolla di luce disegnata da una lampada buffa e minacciosa a forma di Amanita muscaria, Marcello Scolari, nove anni, sfidò Dio.
«Ora, se esisti davvero…»
Dando del tu all’Onnipotente cercava qualcosa di eclatante da chiedere. Non si stava rivolgendo, lo sapeva bene, a un ciarlatano qualsiasi. Non potendo tirare la corda, doveva avanzare un’unica richiesta e scegliere qualcosa che gli sarebbe servito per sempre. Per questo aveva escluso, tra le altre cose desiderabili, i videogame, dopo aver notato che stranamente i grandi tendono a non usarli più.
Ci aveva pensato a lungo ed era quasi deciso: avrebbe chiesto una bicicletta, una bici da corsa come quella di zio Gianluca. Suo padre aveva detto che per comprare una bici del genere ci volevano almeno due mesi di stipendio, ma facendo anche gli straordinari nel turno di notte.
E allora «se esisti davvero», avrebbe detto «ora mi fai comparire una bici come quella dello zio. La fai comparire qui, adesso, in camera mia e di Nico. Sta’ soltanto attento a non far rumore, però, altrimenti Nico poi si sveglia e quello è tremendo, lo sai, non si addormenta più. E attenzione anche alla mia ruspa di plastica, che si è già rotta due volte e il papà ha dovuto mettere il nastro adesivo tutto intorno al braccio».
Per essere valida la richiesta doveva essere preceduta da un solenne segno della croce. Marcello si sfiorò la fronte: «Nel nome del…», ma ci ripensò appena in tempo: che razza di scelta è una bicicletta? Non bisogna essere onnipotenti per portare una bici in una cameretta. Simone, un suo compagno di classe, aveva chiesto e ottenuto una bici da Babbo Natale. Un’altra sua compagna, Aminah, aveva chiesto al suo dio di far guarire la nonna dal cancro, ma la nonna era morta lo stesso. Prova che il dio di Aminah non esisteva affatto. Su questo punto, del resto, la catechista era stata molto chiara: esiste un unico dio, si chiama Dio e per fortuna è il nostro.
Indeciso e annoiato, Marcello si lasciò cadere sul cuscino. La calotta à pois della lampada proiettava sulla parete una galassia di dischetti bianchi che, salendo verso il soffitto, si sformavano e, diventando sempre più ovali, perdevano luminosità.
«Se esisti davvero», pensò Marcello «adesso mi fai comparire una fiamma sul pollice». Provò il gesto, ficcando il pollice sotto l’indice ed estraendolo con uno sfregamento, come si farebbe con un accendino. Gli parve una richiesta ragionevole da rivolgere all’unico vero Dio. Non era il caso, con Lui, di mostrarsi avidi e domandare qualcosa che si potrebbe comperare con i soldi. Soprattutto, per l’idea che se ne era fatta Marcello, era meglio evitare di chiedere qualcosa che avrebbe comportato una spiegazione: chi ti ha dato la bici? Dove l’hai presa?
La richiesta esaudita, inoltre, doveva rimanere un segreto. Oltretutto, se fosse comparsa la bicicletta, Marcello non avrebbe potuto usarla. Facendosi vedere in sella a una bici da due stipendi, infatti, avrebbe suscitato l’invidia dei compagni, e gli sembrava di ricordare che l’invidia rientrava tra quelli che la catechista chiamava «i peccati gravi-gravi». Meglio non coinvolgere Dio, allora, correndo il rischio di renderlo complice in una faccenda ambigua. 
«Se mi fai vedere che esisti, sarò buono per sempre». Marcello capì che per ottenere qualcosa di grande doveva offrire qualcosa di grande. Appena disse “buono per sempre”, si immaginò nei panni di un santo. Improvvisamente, l’idea che essere esaudito comportasse anche un’enorme responsabilità lo sprofondò nel turbamento. Il sintomo più concreto fu una tensione che partiva dall’ano e si irradiava nelle budella. Ma era deciso: non appena ottenuta la prova e averci dormito su, il mattino dopo si sarebbe rasato i capelli come quel fraticello nel dipinto buio e screpolato appeso di fianco al confessionale nella Chiesa Grossa. (C’erano due chiese, nella cittadina industriale: la Piccola, dove lo accompagnava sua madre, e la Grossa, un edificio monumentale che sembrava una scatola di sardine sott’olio, dove Marcello andava con nonna Irma, segretamente scandalizzata dal colore della pelle e dalla pronuncia barbarica di don Jean-Pierre, il prete haitiano dell’altra parrocchia.)
Forse, però, c’era un problema (quando se ne ricordò Marcello si morse il labbro e smise di trafficare con le dita-accendino): Enrico, suo padre, bestemmiava in continuazione. Bestemmiava specialmente di sera, quando tornava dalla fabbrica e iniziava a litigare con mamma per le ragioni più stupide. La catechista aveva parlato chiaro: peccato grave-grave, che poi sarebbe una specie di cartellino rosso; quando lo prendi, finisci quasi di sicuro all’inferno.
Una sera Marcello era entrato in cucina nel mezzo di una discussione che si faceva sempre più accesa. Il nome di Dio fu accostato a quello di due animali. Per la foga della bestemmia suo padre sputacchiò, facendo esplodere una nube di saliva contro la luce del lampadario.
«Papà, smettila! Chi bestemmia va all’inferno».
E il papà si era bloccato, inchiodato in una posa innaturale come certi calciatori quando vengono stregati dalla moviola; aveva abbassato gli occhi, le braccia gli erano cadute lungo i fianchi, con la mano destra si era pettinato i baffi e li aveva asciugati dalle goccioline che gli tempestavano la peluria castana e fitta.
«Andare all’inferno, io? Ma non lo vedi, non lo vedete che all’inferno ci sono già?» ed era sparito in camera, dove aveva continuato per un pezzo a parlare da solo.
Quello delle bestemmie, insomma, rischiava di essere un bel problema. Marcello fece un tentativo: in via del tutto informale avrebbe estratto il pollice dalla mano. Non si trattava, che fosse ben chiaro, di una vera richiesta, ma solo di una prova generale, una piccola richiesta esplorativa. Non era necessario far apparire la fiamma, bastava qualche scintilla per avere la ragionevole sicurezza che qualcuno si fosse messo in ascolto.
Si concentrò, infilò il pollice nel pugno stretto, lo estrasse velocemente grattando l’unghia contro la pelle dell’indice. Niente, nemmeno un bagliore.
Altro problema delle bestemmie di papà: anche soltanto averle sentite e, volente o nolente, essersele ripetute poteva inficiare tutto. Ma sarà mai possibile che un santo sia squalificato a causa di un padre peccatore? Sarebbe assurdo se funzionasse così. Quanto alle scintille mancate, Marcello ebbe la dimostrazione che non sono concesse prove generali: o si fa una richiesta – la richiesta – oppure niente. La fede c’è o non c’è. La catechista diceva che la fede non è una torta della nonna, da fare a fette e mangiarne quanta ne vogliamo.
L’una e cinque. La radiosveglia – un cubo a bande nere e azzurre con lo stemma dell’Inter stampato su un fianco – segnava un’ora proibita. In assenza della prova che ipso facto lo avrebbe trasformato in un santo, il mattino dopo Marcello si sarebbe dovuto alzare per andare a scuola. Se non si metteva subito a dormire rischiava di crollare sul banco, prendere una brutta nota e mettersi su una strada molto lontana dalla santità.
Respirò a fondo, socchiuse le palpebre, visualizzò il pollice che prendeva fuoco (si sarebbe bruciato la pelle? rischiava di incendiare le lenzuola?). Aprì gli occhi e si segnò con la croce. Non aveva mai creduto tanto intensamente come in quel momento. 
«Se esisti davvero, adesso…»
«Marcello… Marcello!»
Raggiunto dal sussurro, Marcello fece un balzo, si mise a sedere e si portò il dito-accendino contro il cuore.
«Marcè!»
Dalla porta apparve la sagoma di sua madre. Quando indossava le sue babbucce pelose, mamma aveva i poteri di un ninja giapponese, capace di spostarsi per casa senza essere vista o sentita da nessuno.
«Cos’è ’sta luce? Spegni un po’, dài! Ma lo sai che ore sono?»
Parlava sottovoce ma era come se gridasse: un altro dei suoi poteri. Si avvicinò al letto a castello e controllò Nico, che dormiva come un sasso. «Cos’hai? Stai male?» disse poi a Marcello.
«No, niente. Ho sentito un rumore e mi sono svegliato» (Bugia: peccato grave-non gravissimo.) «Ora dormo».
Sua madre slittò sulle babbucce e sparì dalla stanza. Subito dopo Marcello fu costretto a spegnere la lampada-fungo. Del resto non ce ne era alcun bisogno. Rimase in ascolto per qualche secondo, sentì sua madre entrare in bagno, riconobbe lo scroscio della pipì – così sottile, ben diverso dalla cascata di papà –; poi una pausa e un altro scroscio sommesso: mamma padroneggiava anche l’arte di tirare lo sciacquone in sordina.
Quando furono passati cento secondi, che Marcello contò in silenzio, ripresero le operazioni. Bisognava ripetere il segno della croce, invalidato dall’interruzione.
«Nel nome del Padre, del Figlio e dello…» Quello stupido di Nico, una volta, aveva detto «dello spigolo santo», facendo infuriare la catechista e guadagnandosi la più temuta delle punizioni: rimanere in oratorio mentre gli altri bambini giocano a pallone. Marcello continuava a perdere la concentrazione. Dov’eravamo rimasti? «Del Figlio e dello Spirito Santo, amen».
Per la terza volta cacciò il pollice nel pugno chiuso. Visualizzò ancora una volta la fiamma e, all’interno del fuoco, la propria immagine trasfigurata nel profilo di un fraticello in preghiera.
«Ti prometto che sarò sempre buono. Ma per essere buono per sempre devo sapere che esisti veramente. E se veramente esisti, adesso voglio che…»
Ma che idea imbecille! E come aveva fatto a non pensarci prima? La soluzione era sempre stata lì, letteralmente a portata di mano, sulla mensola dove stavano i libri di scuola, i giocattoli, i fumetti e i dvd. Tra questi c’era anche il dvd piratato di Aladdin che il papà si era fatto passare da un compagno della fabbrica. Lo avevano visto insieme una domenica pomeriggio, il papà, lui e Nico (la mamma stirava in un’altra stanza). Quando il genio aveva spiegato la faccenda dei tre desideri, Enrico – che frequentava il gruppo del sindacato fin da ragazzo ed era un mago dei cavilli – aveva fermato il video:
«Voi che cosa chiedereste?»
Senza pensarci su, Nico aveva chiesto tre giocattoli di cui, oltretutto, storpiava il nome rendendolo irriconoscibile. Marcello ci aveva riflettuto ma, sospettando un inghippo, era rimasto in silenzio.
«Dillo prima tu!»
Enrico aveva fatto un ghigno sotto i baffi: «Allora, io chiederei per prima cosa una Ferrari Enzo, che è la macchina più bella mai costruita. Poi chiederei…» (abbassò il tono della voce) «…di far tornare la mamma come il giorno che l’ho conosciuta. Poi chiederei…» fece una pausa, lasciò che il silenzio gonfiasse la curiosità dei suoi figli. «Come terzo desiderio chiederei il potere di ottenere desideri infiniti».
Nico era troppo piccolo per capire quella forzatura formale. Marcello ci mise qualche secondo ma alla fine afferrò il punto: riconobbe che era una soluzione magistrale.
Il ricordo di quella domenica lo illuminò. Era l’una e dieci. Il cuore gli batteva all’impazzata, al punto che poteva sentirlo nel buio. Respirò, ripeté il segno della croce, questa volta serissimo.
«Ti prometto che sarò per sempre buono. Domani stesso diventerò un santo. Ma se davvero esisti, ti prego ti prego ti prego: dammi il potere di desiderare ogni desiderio».
La lampada-fungo – che a dire il vero era un po’ difettosa – si accese di colpo e proiettò sulla parete i suoi cerchietti bianchi. Uno dei cerchietti illuminò la fronte di Marcello Scolari, nove anni, che quella notte osò sfidare Dio.


Claudio Lagomarsini (Carrara, 1984) insegna Filologia romanza all’Università di Siena. Nella sua attività di ricerca si occupa prevalentemente di narrativa francese medievale del secolo XIII e, al momento, sta traducendo la Storia del Santo Graal per i “Millenni” Einaudi. 
Negli ultimi anni ha pubblicato racconti su “Nuovi argomenti”, “Inutile”, “Colla”; è autore di articoli di approfondimento e longread per "Il Post”, “Minima & moralia”, “Le parole e le cose”. 


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