Shanghai, un racconto di Andrea Herman

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Parcheggio lungo una carraia, di fianco al filare di abeti. Spengo motore e luci. Sento uno sbraito provenire dalla piazzetta, su dalla curva che gira l’angolo del bar K2. Dev’essere il Magro. A quest’ora finisce con i depuratori, i prelievi, o quello che è. Non c’ho mai capito. So che il suo lavoro ha a che fare con l’acqua. So che, se non ci sono interventi urgenti, a quest’ora finisce, si siede a banco con Perla, ordina un giro.
La strada per Ligonchio è chiusa, colpa di una frana. Dalle Vaglie non passa nessuno. Controllo comunque la via Centrale in cerca di passanti. C’è solo asfalto crepato, un paio di gatti randagi. Cinquecerri non è zona di transito, anche quando la terra non frana.     
Salgo con lo sguardo le villette sull’altro lato: un piccolo gruppo di case che in paese chiamano Shanghai. Scuri chiusi, erba alta, nessuno alle finestre.
Prendo la macchina fotografica dal sedile passeggero e porto l’occhio al mirino. Stringo l’inquadratura sulla casa nel mezzo, l’unica con gli scuri aperti. Vedo la tavola apparecchiata e il televisore acceso. La pentola a pressione è sul fuoco, pronta a fischiare da un momento all’altro.
Oggi è mercoledì. Domani sarà giovedì e via dicendo. I giorni hanno a che fare con il lavoro e io lavoro poco e male: brutte fotografie da ficcare su siti internet e pagine facebook, un matrimonio o due quando capita. Qualche ritratto a bambini tronfi o vecchie racchie che non accettano l’inevitabile.
Tengo l’obiettivo puntato sulla finestra, il dito sospeso sul pulsante di scatto. Si chiama fishing technique, tecnica della pesca. Prepari la scena e aspetti il soggetto da fotografare. È un gioco d’attesa. A volte ci vogliono ore. Come nella pesca, credo. Non ci sono mai andato. Il Magro mi voleva portare. Va spesso in un punto del Secchia che conosce solo lui.
Mercoledì, giovedì e via dicendo. Via le rughe, toglimi dieci anni. Tutto cambia a sto mondo, signora. Fammi sembrare giovane. Con Photoshop si può, giusto? 
Ricordo quando il Magro si è presentato al bar con cinque trote fario: i ventri giallo canarino e i fianchi chiazzati di macchie bruno-rossastre. Gli occhi fissi, lucidi, con dentro una luce ancestrale. Qualcosa che spiega l’origine della vita e della morte. Che poi in una c’è l’altra, e non solo al termine del viaggio.          
Tutto cambia a sto mondo. Rimangono poche certezze. La fine del gioco è inevitabile, poco importa se in una bara o una fossa comune. Poi il Magro, che a quest’ora entra al K2 sbraitando, si siede a banco con Perla. E il mercoledì in quella casa, per cena. Da che mondo è mondo, mercoledì è la sera del minestrone.
«Vieni a pescare e non stracciare i coglioni, dai che ci divertiamo».
Non so quanto è passato. Del tempo non m’importa più molto. Allora tanto vale restare seduto qui. Ogni tanto staccare l’occhio dal mirino, controllare ancora, nonostante la strada chiusa. Una formalità. Non ho nulla da temere, non mi vede nessuno.
La pentola a pressione fischia. Sara accorre a spegnere il fuoco. Indossa un vestito rosso e porta i capelli corti. Prende il ramaiolo dal cassetto, si volta e dice qualcosa. Le labbra disegnano un mezzo sorriso. Gli occhi restano socchiusi, guardano in basso. La luce scalda i torni rosei della sua pelle; crea una leggera ombra, la segna a metà. La bocca sottile e severa da una parte, che si accende come un accento sull’altra. Ripenso ai contrasti violenti di Sobol, ai toni più morbidi di Kertész. A una sera di molti anni fa, sdraiati sul divano. Le cingevo le spalle e Sara cercava le mie mani. I suoi capelli, allora lunghi, mi cadevano sul viso. Ogni tanto un bacio, nel paese bianco di neve.
Clickclickclickclick. Scatto in rapida sequenza, come nella fotografia sportiva. Vedo solo brevi momenti tra uno scatto e l’altro. Centesimi di secondo di un corpo, la vita di Sara che si muove. Quando la raffica finisce non c’è più la pentola, il ramaiolo. In televisione scorre la pubblicità di una partita. Fuori una pioggia che cade e non cade: sull’asfalto, le fronde, i campi,  l’abbondanza e la miseria. Del tempo non m’importa più molto e qui c’è troppo tempo.
Avvio motore e luci. Guido veloce, con lo stereo acceso. Sono poche centinaia di metri, ma ho una fretta improvvisa. Andare veloce e con lo stereo acceso.
Parcheggio nella piazzetta. Scosto le tendine di plastica, entro al K2.
«Chi non muore si rivede» fa il Magro.
«Come andiamo?» chiede Perla.
Ordina un giro alla barista cinese che prepara i bicchieri. Brindiamo e il Magro attacca a parlare di lavoro e di pesca. Lo fa in un unico discorso confuso: purezza dell’acqua, giorni che mancano alla pensione, lenze. Operai, pescatori, impiegati dell’INPS. Pescatori che sono anche operai e mai impiegati. Ordina un altro giro e spiega che il toscano non ha più lo stesso sapore da quando ha preso la legionellosi.
«Una malattia che ha a che fare con l’acqua. Proprio a me dio bestia. Da non crederci».
«Vien dal soldato» fa Perla, «quello lì di Roma. Il legionario».
Racconta di quand’era giovane e faceva il servizio militare. Naia, figa, ancora naia e ancora figa.
«Come la merda» dice il Magro.
«Sveglia presto, branda in ordine e pedalare. Mica tutte le balle che c’hanno adesso» fa Perla.
«Smetto mica di bere» dice il Magro.
«C’aveva ‘na figa tenera come un budello».
«Ma è come bere merda».
Rimango in silenzio e ascolto. Butto giù i miei giri, uno dopo l’altro. Osservo i sedimenti del toscano, rossi e lividi, come sangue raggrumato. Ogni tanto guardo la fotografia appesa alla parete, dietro il bancone. Uno scatto di Shanghai fatto da me tanti anni fa, quando era ancora un quartiere pieno di gente.
«Fotografi ancora?» Chiede il Magro.
«Poco e male. Non c’è più lavoro».
«Allora è il caso che te ne trovi uno vero» dice Perla.
Fa accendere il televisore alla barista. La partita sta per iniziare. Le formazioni scendono in campo e i giocatori si stringono la mano. Perla le chiede di alzare il volume e le indica la fotografia.
«Casa tua, visto?»
«Non capisco».
«Quella è casa tua, Shanghai».
«Io vengo dal Sichuan».
«E io cos’ho detto».
«Tu hai detto Shanghai».
«Appunto».
Prende il bicchiere e va a sedersi a un tavolino. Alza la testa verso lo schermo luminoso. La luce fredda gli cade sul viso come a un attore di teatro durante il monologo. La pelle butterata, livida. Il fegato cirrotico: se non ora, presto. La naia, poi una vita da operaio. Un soprannome, Perla, che non si sa bene da dove derivi. Più ombre che luci sul suo viso, sotto il televisore, al calcio d’inizio. Qualche anno ancora di lavoro, la pensione, per lui come per il Magro. Se tutto va bene. Se il governo, dio, o chi per lui. Poi continuare l’esilio su queste montagne, tra bicchieri e partite di calcio.
«Stasera vinciamo» dice Perla «non c’è n’è per nessuno. Stasera li massacriamo». 
Il Magro mi mette una mano sulla spalla, sente che tremo. Stringe più forte e in qualche modo mi rassicura.
«Ho saputo» dice.
«Cosa vuoi…» faccio io.
«La vita è un cameriere. Mette e poi leva».
«Almeno c’ho la salute».
«E il vino per te sa ancora di vino».
«E il vino per me sa ancora di vino».
«Di-vino!» Sbraita il Magro, alzando la balotta al cielo.
Paga e mi fa segno di seguirlo. Esce dal K2 e monta sulla jeep. M’invita a salire. Prima di farlo prendo la macchina fotografica, spengo lo stereo che avevo lasciato acceso. Sbatto la portiera cigolante mentre lui avvia a fatica il motore.
La pioggia s’è infittita. Il Magro aziona i tergicristalli e attacca l’aria per spannare i vetri. Si ferma prima degli abeti. Guarda verso la casa nel mezzo, poi verso di me.
«So io quel che ci vuole» dice. 
Svolta nella carraia. Sobbalziamo nella notte, con i fari bassi che mostrano solo quello che è a un palmo dal naso; il suono dei tergicristalli, la carrozzeria che scricchiola, il rumore secco di una grossa borsa che balla nel baule e picchia a ogni buca come un orologio. 
«Cos’hai intenzione di fare?» gli chiedo.
«Tutto a suo tempo» fa lui.
Infila una traversa poco battuta, dove la strada si restringe e sale ripida. I rami sbattono contro il cofano e i finestrini.
«Porta a un vecchio deposito abbandonato» dice.
«Ho sbagliato tutto» faccio io.
«Tieniti forte».
«Ho sbagliato tutto».
«Viviamo in un posto dimenticato da dio, ricordalo».
Infila le ridotte e il motore si mette a strillare. Oltre il cofano solo polvere, pioggia, fronde e stelle. Il Magro alza la voce per farsi sentire.
«Dove cazzo è la luna?» Dice. 
Riguardo gli scatti di Shanghai. Scorro le immagini sull’LCD.
«Riprendiamoci la luna!» Sbraita il Magro.
Per un attimo la jeep sembra impantanarsi ma poi riprende la sua corsa verso le Vaglie, e ancora più in là, dove non passa mai nessuno.
Come nella fotografia sportiva.
Sara, una buona esposizione, la finestra che fa da cornice a Shanghai. Framing, si dice. Purtroppo ha gli occhi chiusi. Li riapre quando da un angolo basso spunta un piatto.
Mio figlio compare sorridendo. Si è fatto grande. Un bel pinino. Va verso la pentola ma Sara lo rimprovera. Una scena comune, anni fa era lo stesso. È qualche centimetro più alto, si è fatto anche paffuto. O forse è solo il mio punto di vista a essere diverso.
Continuo a scorrere le fotografie. Spunta un naso, delle braccia robuste. Un uomo abbraccia Sara. Dev’essere il nuovo marito. Si sono sposati da poco.
Penso alla neve di quel giorno, i capelli sul mio viso. Cerco di ricordare il loro profumo. C’era un libro di Hopper aperto sul tavolino da caffè. Il fuoco bruciava nel camino. La legna scoppiettava  e si sentiva il rumore di una pala che sfregava l’asfalto.
Avvicinano le labbra, Sara e l’uomo. L’attimo prima del bacio. L’attimo dopo.
L’uomo accarezza i capelli di suo figlio. O forse solo un figlio. Una madre, due padri.
Scompaiono dalla composizione. Rimane Sara. Infila il ramaiolo nella pentola, porta in tavola. Nell’ultimo scatto il suo corpo senza volto, la schiena chinata, il vestito rosso, la televisione. 
«Ci siamo» dice il Magro. Prende una torcia dal cruscotto e scende dalla jeep. Punta il fascio di luce sul deposito che spunta a malapena da un groviglio di edere. Un castagno ha piantato le radici al suo interno e copre di fronde quello che una volta era il tetto. I ricci cadono sulle lamiere. In un angolo, tra cataste di eternit, c’è una targa arrugginita dell’Agac coperta di muschio.
«Il bosco si riprende ciò ch’è suo» dice il Magro.
Aspettiamo che il cielo si rassereni. Indossiamo stivali di gomma e luci frontali. Trasciniamo la borsa giù da un rivale. Camminiamo tra l’erba alta, nel niente profumato di pioggia. Dopo qualche minuto la temperatura s’abbassa, inizia a sentirsi uno scroscio d’acqua.
Sbuchiamo dal sottobosco e troviamo il Secchia che scorre veloce, circondato dagli Schiocchi. Grossi blocchi d’arenaria costeggiano il letto del fiume. Sia a monte che a valle, ci sono dei salti d’acqua di circa quattro metri. Ogni tanto un tonfo sordo di qualche sasso che rotola a valle, o il canto delle civette che riecheggia come uno spasimo dei monti.
Il Magro inizia ad armeggiare con la borsa. Ha il fiato corto, le braghe piene di fango. Un uomo tutto nervo e toscano. Si lamenta della pensione che non arriva, conta i giorni che mancano. Ma sappiamo tutti, lui per primo, che sono balle. Basta guardare cos’è successo con la legionellosi. Due settimane è andato avanti a lavorare. Due settimane tra febbre alta, sciolta, tosse e brividi. Un paio di operai lo hanno trovato svenuto nei pressi di un depuratore a Mancasale. Erano lì che tagliavano con il frullino. Erba, bocchi, sterpi, e in mezzo il corpo del Magro. Lo hanno ricoverato ma nemmeno questo è servito a fermarlo. Gli dicevano che era passato da un buco stretto e lui rispondeva che s’annoiava, a stare lì, in un letto d’ospedale. Perché per quelli come il Magro un uomo è uomo solo se porta il pane in casa. E io lavoro poco e male, non ho più una casa.
«Alla fine ce l’ho cavata a portarti a pescare, stracciacoglioni».
Prende dalla borsa un paio di canne da pesca e inizia a montarle. Subito dopo immerge i piedi nel fiume e getta la lenza nei pressi del salto più a monte, sotto l’acqua schiumosa che s’infrange sulle rocce. Mi mostra come tenere la canna ed eseguire il lancio. Parla di tocco, corone, esche, ma non ci capisco niente. Smetto d’ascoltarlo, m’allontano senza che se ne accorga.
Cammino in mezzo al Secchia, la canna appoggiata sulla spalla. Sento l’acqua gelida anche attraverso la gomma degli stivali. Il letto del fiume è scivoloso, la corrente aumenta man mano che mi avvicino al secondo salto verso valle. Osservo quei quattro metri di vuoto, nella notte. La serpe invisibile e limpida che nasce dall’Alpe e striscia al Po, attraversa la bassa e sfocia nell’Adriatico. Se non bastasse il salto ci sono la corrente, le rocce, l’acqua gelata. Resterebbe solo un corpo, da qualche parte, alla deriva. Gli occhi fissi, lucidi. Forse la stessa luce che accompagna la morte dei pesci.
Sara verrebbe a saperlo. Sarebbe tenuta a dirglielo: ricordi tuo padre? No, non lui. L’altro padre. Poco importa che ora si trovi tra braccia robuste. Gli anni non si possono cancellare.
Una trota si mette a nuotarmi tra i piedi. La sento anche se non riesco a vederla. Si muove tra le mie gambe come un gatto affamato che fa le fusa. Sguscia via a una bestemmia del Magro. L’osservo mentre getta ancora la lenza. Ma è una notte marcia, senza luna. Niente potrà mai abboccare.
«Finestre di notte».
«È vero…».
«Così si chiamava».
«Com’è che faceva?».
«Mi piaceva molto quel dipinto».
«È vero che dalle finestre… perché i poeti aprono sempre le finestre…».
«Mi stai ascoltando?».
«Senti mo’, non abbiamo pescato nemmeno un girino e c’ho sta canzone che non mi si leva dalla testa. Aiutami a capire cos’è e poi t’ascolto».
«Lolli».
«Claudio Lolli?».
«Sì».
«Quella degli zingari?».
«Da bon».
Svoltiamo sulla via Centrale. Le luci della cucina sono spente. Il Magro fischietta, anche se non ha preso niente. Ora che ricorda la canzone mi chiede delle finestre.
«È un dipinto di uno che si chiama Hopper».
«Conosco Edward Hopper. Son mica uno scemo».
Parcheggia la jeep nella piazzetta. Il K2 è ancora aperto.
«Quindi?».
«Quindi che?».
«’Ste finestre».
«Niente. Non ha importanza».
«Sembrava l’avesse».
«Per un attimo lo credevo anch’io».
«Meglio così» fa il Magro.
Mi tira una pacca sul petto.
«Andiamo a berci un bicchiere» dice.
Dentro c’è Perla con un gruppo di ragazzi. Sono venuti giù da Ligonchio, frana o non frana. La televisione è spenta, la partita è finita. Ci vedono entrare immerdati e scoppiano a ridere.
«Era bella l’avventura porcelli da ghianda?»
«Cosa siete, usciti fuori da un porcile?»
«Vi va bene una balotta o vi facciamo portare un trogolo?»
Ridiamo e li canzoniamo a nostra volta. Il Magro continua a fischiettare. Ogni tanto intona qualche parola.
«Zingari felici…».
«Abbiamo vinto?» Chiedo a Perla.
«Lascia stare, mai na gioia» fa lui, «vincono sempre quegli altri»
«Ho visto anche degli zingari felici» canta il Magro.
«Ma noi c’abbiamo la salute».
«E l’allegria».
Beviamo un giro e poi un altro. Anche la barista beve con noi. Si muove dietro banco con la sicurezza di chi sa il mestiere. Tiene le bottiglie e il marmo puliti. Parla con i clienti, sta al gioco, non se la prende. Ha un corpo minuto, un sorriso dolce. I capelli lunghi che ravvia dietro l’orecchio per ascoltare e scivolano sulle guance quando ride.
Le chiedo come si chiama.
«Xiu» dice.
«Parli bene l’italiano».
«Anche tu».
Si sporge dal banco e mi squadra da capo a piedi.
«Si può sapere dove siete stati?» Chiede.
«Dove finisce il mondo» biascico io.
«Allora potevate rimanere qui. Almeno restavate puliti».
Sara tra braccia robuste, più sicure. Un figlio che rivedrò quando sarà maggiorenne. Se vorrà vedermi, se sarò ancora vivo. Se dio, o quello che ne resta di lui su queste montagne.
Penso al Magro, al fiume. D’improvviso capisco quello che voleva mostrarmi.  
«No che non potevamo» dico, «non è la stessa cosa»
«Perché?» Fa Xiu.
«Non so spiegartelo»
«Prova».
«Hai presente quello che chiamano “attimo di lucidità?”»
Xiu non riesce a rispondere perché Perla supera il banco e l’abbraccia. Le dà un bacio sulla guancia. 
«Non ci dar tanta confidenza a sta qua» mi dice «che poi vien la Yakuza a farti la pelle».
«La Yakuza è giapponese» fa Xiu.
«E io cos’ho detto».
«Una cazzata».
Dà un bacio a sua volta a Perla e riempie i bicchieri.
«Questo giro lo offre la casa» dice.
Alziamo le balotte al cielo. Sputiamo in faccia all’esilio.
Ogni tanto gli occhi ci cadono sulla fotografia.
«Ma perché si chiama Shanghai?» Chiede qualcuno.
«Boh».
«Non so».
«Te lo sai?»
«No».
«E te?»
«Neanche me».
«Chiedi al Magro. Lui ne sa di ‘ste cose».
«Magro».
«Oh!»
«Perché si chiama Shanghai?»
Il Magro smette di cantare e tira un rutto. Si gratta via con le unghie un po’ di merda dalle braghe.
«Ma va a cagare» dice, «te e Shanghai».

 


 Mi chiamo Andrea Herman, ho trent'anni e vivo nell'appennino reggiano. Scrivo racconti brevi dall'inverno del 2016, dopo aver dedicato dieci anni alla fotografia. Ho pubblicato su Cadillac e Ammatula. Sono tra i selezionati del contest "al volo" di Effe. Collaboro con il collettivo Ansasà e con l'associazione Teatro Aperto.