I replicanti di Luigi Pirandello

I REPLICANTI DI LUIGI PIRANDELLO


di Antonio Tedesco

Stefano Giogli si accorge un giorno che Lucietta, la donna che forse ha un po’ troppo frettolosamente sposato, non ama lui in realtà, ma l’idea di lui che ella si è minuziosamente costruita nella testa. Una sorta di clone mentale rivisto e corretto a proprio uso e consumo, e nel quale il povero Stefano, ridestatosi dall’iniziale ubriacatura dell’innamoramento repentino, non si riconosce. Eppure si rende conto suo malgrado di essere ormai prigioniero di quest’altro uomo a lui estraneo e che invece è per la moglie l’unico vero Stefano che esiste.
Stefano Giogli uno e due, si intitola questa breve novella di Pirandello (scritta nel 1909) nella quale, però, si concentra, in maniera magistrale, l’enunciato del teorema letterario e artistico che l’autore svilupperà nella sua opera sotto molteplici forme. A partire dal suo ultimo, e per certi versi definitivo, romanzo, Uno, nessuno e centomila, nel quale questo tema si espande dall’ambito strettamente familiare, fino all’intero consesso umano, paventando una frammentazione dell’io pari almeno alla quantità di rapporti che ognuno intrattiene nel corso della propria esistenza quotidiana.
La “crisi d'identità” di Vitangelo Moscarda (il protagonista, appunto, di Uno, nessuno e centomila) si scatena a partire da una lieve imperfezione al naso che la moglie gli indica e che lui non aveva mai notato. Una sciocchezza quasi impercettibile, ma sufficiente per rompere la fragile diga delle proprie personali certezze. Una sorta di deriva in cui il proprio io, spesso faticosamente (e artificiosamente) costruito, si disperde irrimediabilmente. 
Così Stefano Giogli, il protagonista dell'omonimo racconto, ci viene presentato nella prima parte della storia come uomo piuttosto schivo e solitario. Caratteristiche che lo spingono ad allontanarsi volontariamente dalla vita sociale. Da una società che lo percepisce, a sua volta, come ombroso e sfuggente, se non oscuramente misterioso. Stefano si dedica completamente a coltivare i suoi studi e i suoi interessi personali. Fino a che l'incontro con Lucietta non lo allontanerà definitivamente da questi suoi propositi. E soprattutto aprirà questo buco, questa voragine, in quella che credeva essere inopinabilmente la sua personalità.
Lucietta, in definitiva, crea un nuovo Stefano Giogli. Il suo Stefano Giogli, che prescinde totalmente da ciò che il diretto interessato pensa di se stesso e della propria vita. Generando una sorta di mondo contiguo, presente e tangibile, ma, per altri versi, alieno. Come certi dettagli dell'arredamento della casa in cui vivono, che lei ha scelto e voluto convinta di assecondare i suoi gusti e che invece lasciano il marito fortemente perplesso. Stefano resta del tutto disorientato da questa scoperta. Non potendo più riconoscersi nello sguardo della moglie è come se si sentisse precipitato d'improvviso in una realtà parallela che percepisce concretamente intorno a sé, ma che gli è estranea allo stesso tempo (arriva persino a provare gelosia per quest'altro Stefano a lui sconosciuto). Come se la propria identità si perdesse, e con essa il suo mondo e le sue certezze.
Ed è solo l'inizio, perché questi mondi, per il suo omologo (e diretta derivazione), Vitangelo Moscarda, si moltiplicheranno all'infinito, in un susseguirsi vertiginoso nel quale la disintegrazione dell'io diviene una sorta di “atomizzazione”, particelle impazzite che sfuggono in tutte le direzioni e che, a contatto con altre particelle-persone, generano mondi di volta in volta nuovi e diversi. Qualcosa di simile ai “ricordi di altre vite presenti”, per dirla con Philp K. Dick, scrittore che seppur - e forse solo in apparenza - con metodi e finalità diversi rispetto a quelli di Pirandello, si è molto posto il problema dell'identità e del livello di realtà in cui ogni uomo vive (o forse crede di vivere). 

“Che cos'è l'identità? Si chiese. Dove finisce la commedia?”.

A parlare è Bob Arctor, il protagonista di Un oscuro scrutare, romanzo che molti considerano il capolavoro di Philip K. Dick. Ma a pronunciare la battuta avrebbe potuto essere benissimo Stefano Giogli, Vitangelo Moscarda, o un altro qualunque dei personaggi di Pirandello.
L'identità e la sua inafferrabilità, il senso sfuggente di realtà che si moltiplica nell'infinità dei mondi in cui siamo proiettati. Di questo parlano i romanzi di Dick, e Un oscuro scrutare in particolare.
In un futuro imminente (quasi come una minaccia), ambientazione consueta per i romanzi dello scrittore americano, un agente della narcotici sotto copertura (Bob Arctor, appunto) finisce per dover spiare se stesso. La tuta “disindividuante” che gli hanno fornito per proteggerlo dalle numerose spie infiltrate nella stessa polizia, gli fa cambiare tratti somatici e voce ogni nanosecondo. Esponendo il suo aspetto visibile agli altri ad una vorticosa girandola di mutamenti che lo rendono in pratica impossibile da identificare. Solo nell'ambiente dei drogati, dove condivide la casa con alcuni tossicodipendenti formando uno strano e strampalato gruppo di amici, assume stabilmente le sembianze di Bob Arctor, sconosciute ai suoi stessi superiori che gli impongono, così, di spiarsi. Generando nell'uomo una sorta di scissione, uno sdoppiamento che lo porterà a vivere una crisi violenta, una messa in discussione radicale della propria identità. Un senso di smarrimento lo coglie fin quasi a stordirlo. E l'unico rifugio sicuro, per lui, a questo punto, rimane la follia.
E non è proprio la follia quella a cui tendono tanti personaggi di Pirandello come ultima speranza di libertà?
E questa scissione che avviene in Bob Arctor non è forse comparabile a quella dei “Sei personaggi” che irrompono in un teatro e chiedono agli attori (che, anche qui in una vorticosa girandola di senso, stanno provando una commedia dello stesso Pirandello, che non a caso si intitola Il gioco delle parti ) di ascoltare la loro storia e di interpretarla sulla scena? Qui la separazione tra l'uomo- personaggio e l'attore che deve farsi carico della sua vicenda, del suo “dramma”, non rimanda, forse, allo sdoppiamento di Bob Arctor quando – per conto della polizia - deve spiare se stesso? Vivere e guardarsi vivere questa e un'altra vita (numerose altre vite) allo stesso tempo? Ed è solo un caso che Dick abbia scelto per il protagonista della sua storia questo nome, Arctor, che contiene assonanze più che sospette con “actor”? E cosa fa un attore se non ripercorrere il processo con cui un essere umano cerca di dare “forma” alla sua vita e si costituisce in “persona” indossando, in senso reale e metaforico, una sorta di maschera che ne definisce un carattere? Qualcosa di stabile e di definitivo, si direbbe. Che però resta tale solo finché non viene a contatto con altri personaggi-maschera che interagendo con lui lo guarderanno da altre prospettive, da punti di vista diversi, modificandone di volta in volta, e in maniera irrimediabile, quelli che credeva essere i suoi peculiari caratteri. 
Nessuno di questi due scrittori ha mai creduto che la realtà fosse qualcosa di immutabile e oggettivo.
Nella sua narrativa Philip K. Dick ha dato varie forme a questa scissione, a questa   mutevolezza e inafferrabilità, del reale. In Do Androids Dream of Electric Sheep (In italiano Il cacciatori di androidi) concepisce, poi, un’idea quasi definitiva di simulacro (“I Simulacri” è anche il titolo di un altro dei suoi libri). Esseri umani artificiali uguali in tutto e per tutto all'originale ma con un tempo di vita predeterminato. Quelli che Blade Runner, celebre film che da questo romanzo ha tratto, nel 1982, Ridley Scott, renderà universalmente famosi come i “Replicanti”.  Chi sono questi ultimi se non i “simulacri”, appunto, di un'umanità che si illude di conoscere se stessa ma che annaspa, invece, cercando appigli in un'oscura penombra? Esseri smarriti in un mondo che, dopo averli creati, non li riconosce più e cerca in ogni modo di liberarsene. Non sono essi stessi “personaggi in cerca d'autore” che anelano solo ad uno spazio possibile dove poter raccontare la loro storia (“ne ho viste cose che voi umani...”). Così come a loro volta i “personaggi” di Pirandello dicono: “Il dramma è in noi, siamo noi, e siamo impazienti di rappresentarlo”.
Sia questi ultimi, dunque, che gli androidi-replicanti di Dick sono angosciati dall'eventualità che la loro esperienza, la loro storia, vada perduta per sempre. Che si dissolva “come lacrime nella pioggia”.
 

Stefano Giogli chi?

Ma lui stesso, Stefano Giogli, doveva riconoscere che quella di Lucietta era in fondo la più spontanea e naturale delle creazioni. Lasciata nella più ampia libertà di disporre a suo capriccio  di tutti questi elementi, ella ne aveva cavato fuori un marito come le piaceva, si era creata quello Stefano Giogli che più le conveniva; gli aveva dato a suo talento gusti e pensieri e desideri e abitudini. C'era poco da dire! Era quello il suo Stefano Giogli. Se l'era fabbricato lei con le sue mani, e guai a toccarglielo.

Stefano Giogli viene sottoposto a un vero e proprio processo di spersonalizzazione da parte di sua moglie Lucietta. Questa lo “svuota” dei suoi contenuti originari e, in un certo senso, ne ridisegna i contorni secondo un proprio personale criterio. Il tutto, e questo rende la cosa ancora più angosciante, in perfetta buona fede, o peggio, addirittura come atto di amore e di devozione nei confronti del marito. Fa di lui, in pratica, “una rappresentazione esteriore non rispondente alla realtà”, che è, appunto, una delle definizioni che la Treccani dà di “simulacro”.
Un simulacro al posto della persona vera (ammesso che questa esista in assoluto) sul quale riversare il proprio amore (per rispecchiarsi e compiacersi?).

Era una personalità nuova tratta da sua moglie dal disgregamento del suo essere; un personaggio che viveva ed operava affatto indipendente da lui,con una sua propria intelligenza e una coscienza sua propria.

Non è forse un replicante antelitteram quello che, secondo la precisa descrizione di Pirandello, si costruisce Lucietta a partire dalla materia informe che Stefano Giogli credeva essere la propria identità?

La “fantascienza”, per lo scrittore siciliano, è tutta dentro la natura umana.  Ma chi dice che anche per Philiph Dick non fosse così? Sono solo due prospettive, due modi diversi di affrontare lo stesso problema. L’identità come illusione e come paradosso. L’inconsistenza di ciò che crediamo, ci sforziamo di credere, che ci definisca e ci distingua.

Un’interessante variazione su questo tema è quella formulata da Richard Linklater che ha portato sullo schermo Un oscuro scrutare. Per la trasposizione in film del romanzo di Dick, il regista americano ha utilizzato un particolare procedimento di ripresa detto “rotoscoping”. Una sorta di processo di “cartonizzazione” degli attori che si ottiene attraverso una tecnica di animazione che– semplificando la complessa procedura – consiste essenzialmente nel ridisegnare sul fotogramma le immagini riprese dal vivo. Così le fisionomie di attori molto noti (da Keanu Reeves – che è Bob Arctor, il protagonista – a Winona Rider), vengono riconosciute dallo spettatore, ma percepite come segni grafici definiti dalle linee nere che ne contornano le sagome, e quindi allo stesso tempo celati, se non annullati, come persone reali dall'azione del disegno. Il risultato è l'ottenimento di un effetto iperrealista, ma allo stesso tempo fortemente straniante in quanto ciò che resta dell'interprete originale è solo una traccia fisiognomica, un involucro, un contorno puramente visivo.
Solo immagine svuotata della sua sostanza.

Uno svuotamento che i “Sei personaggi”, avvertono nell’incapacità degli attori di sentire realmente il loro dramma. Ma ribellandosi ai simulacri di se stessi si condannano a rimanere per sempre vacui fantasmi, entità astratte che aleggiano informi e indefinite sullo sfondo della scena.
E non va certo meglio a Stefano Giogli che del suo simulacro è rimasto, invece, prigioniero.

Nel finale del racconto c’è un affettuoso battibecco con sua moglie Lucietta, che dietro insistenza del marito gli confessa i piccoli grandi sacrifici che è disposta a fare per lui. Per esempio modificare la sua pettinatura. Stefano, dal canto suo, non sapeva spiegarsi perché avesse cambiato modo di pettinarsi dal giorno delle nozze. Preferiva di gran lunga l'acconciatura che usava farsi in precedenza, quando l'aveva conosciuta.
Ma non c'era verso.
Lucietta è irremovibile perché sa cos'è che piace al “suo” Stefano.
Sarcastica e inquietante, a questo punto, la chiusura del dialogo e del racconto:

E gli carezzò tre volte la guancia. La carezzò a quell'altro, beninteso, non a lui.