di Alice Pisu
Juan Villoro racconta che in una notte del 1998 ricevette una telefonata da Roberto Bolaño. Si erano conosciuti vent’anni prima, la comunicazione era disturbata a causa del forte vento di Blanes, nella costa Brava, dove “il narratore con l’anima del poeta” risiedeva dal 1985 e in cui rimase sino alla morte nel 2003. La descrizione di quella chiamata si sofferma sull’accento instabile, la “curata trascuratezza” nel parlare, le espressioni cilene, messicane, catalane, il gusto per le forme arcaiche, che rendevano già quel fraseggiare un atto di stile (La battaglia futura in Bolaño selvaggio, di Edmundo Paz Soldan e Gustavo Faveron Patriau, trad. di Marino Magliani e Giovanni Agnoloni, Miraggi). Secondo Villoro in ogni conversazione Bolaño si gettava come un cacciatore che sente l’odore della propria preda, parlando con il “senso della conseguenza di chi lascia esche sul cammino verso un luogo pericoloso”. L’uso fluente di combinazioni colloquiali, erudite, desuete, e la tendenza alla digressione definiscono alcuni dei tratti caratteristici di uno scrittore che “spiegava le sue idee come un mitografo”. Uno stile che riluce anche per la natura circolare e il taglio onirico di storie colme di dettagli imprevisti, divagazioni, incursioni, per l’energia politica, le citazioni letterarie e le riflessioni sulla scrittura.
“La mia poesia e la mia prosa sono due cugine che vanno d’accordo. La mia poesia è platonica, la mia prosa è aristotelica”, affermò Bolaño in un’intervista del 2003. Nonostante la fama internazionale sia giunta grazie alla narrativa, in particolare con opere universalmente riconosciute come capolavori come I detective selvaggi, Stella distante, Notturno cileno e 2666, fino al 1990 si era dedicato alla poesia, per questo si era definito “fondamentalmente un poeta”.
La sua intera produzione poetica e in prosa può essere concepita come un corpo unico su cui sono impressi i ricordi infantili cileni, gli anni giovanili messicani, la maturità europea, l’impegno politico, la coscienza civile, il valore della scrittura, il mondo intellettuale con cui nel tempo si è confrontato.
Di recente Adelphi ha dato alle stampe Il segreto del male e Il contorno dell’occhio: diciassette racconti pubblicati per la prima volta in Italia nel volume Tutti i racconti, trad. di Barbara Bertoni e Ilide Carmignani, che riunisce nella stessa edizione anche le raccolte Chiamate telefoniche, Puttane assassine e Il gaucho insopportabile.
Sovente la critica si interroga sull’opportunità o meno di pubblicare testi postumi. Il senso della scelta può risiedere nell’occasione data a chi legge di scorgere tra quelle pagine le tracce di suggestioni sviluppate altrove, ritenute depositarie di questioni necessarie. Nel caso di Bolaño si tratta della possibilità di aprire uno spiraglio su aspetti in parte affrontati in altri testi, in prose e in narrazioni che evocano la tensione crescente verso il male, le contraddizioni dell’umano, le ingenue fantasticherie, la labilità delle relazioni, il terrore celato nei presagi dell’orrore, il peso dei vincoli, il rapporto coi luoghi in una personale geografia, il fardello dell’incompiuto, l’oppressione del potere, la vana speranza di portare indietro il tempo, la valenza politica di una rivoluzione personale, la malinconia inestinguibile di un diario sulla fine.
Tra gli estimatori di Bolaño c’è anche chi, come lo scrittore messicano Jorge Volpi, pur riconoscendone la grandezza letteraria, non lo ha mai amato come cuentista e per questo ha disapprovato la scelta (definendola uno sproposito) di pubblicare prose e poesie postume. Secondo Villoro, invece, è la forma breve una delle sue più alte espressioni artistiche, e rintraccia il nucleo centrale della sua letteratura nell’interregno dove prosa e poesia si nutrono a vicenda. Come accaduto anche in altri volumi, la scelta della pubblicazione postuma da parte degli eredi deriva dal riconoscimento di una generale compiutezza dei testi, come ad esempio è accaduto con Lo spirito della fantascienza, Adelphi, o con i componimenti poetici e in prosa rinvenuti negli archivi dello scrittore, datati 1993 e lasciati pronti per la stampa (L’università sconosciuta, Sur).
Ad aprire la sezione Il segreto del male è Il vecchio della montagna, il racconto dell’incontro fortuito tra due poeti, giovanissimi e vigorosi: Arturo Belano, alter ego dello scrittore, e Ulises Lima (uno dei detective selvaggi, il poeta Mario Santiago). Vivono entrambi nel DF, diventano amici, credono nel “potere lenitivo della letteratura”, passano le giornate a recitare Omero, Frank O’Hara, Archiloco e John Giorno. È il 1975 quando Belano comunica all’amico la morte di William Burroughs, notizia che poi assume contorni sempre meno chiari al punto da essere presto confutata. Il racconto segue le vicende dei due protagonisti che negli anni prenderanno strade diverse, diventando intellettuali noti e temuti dal sistema letterario, “due formiche selvagge e suicide”.
Bolaño accetta le condizioni del reale nella scrittura solo nella misura in cui può reinventarle, idealmente in linea con Nabokov che affermava che “Gli elementi che compongono il mondo possono senz’altro essere reali (per quanto è possibile definire la realtà) ma non formano un tutto univoco: sono caos, e quel caos lo scrittore lo mette in moto, permettendo così al mondo di accendersi con un guizzo e di fondersi, ricombinandosi poi non solo nelle parti visibili e superficiali, ma negli stessi atomi”.
Ogni ricorrenza autobiografica è inesorabilmente rimaneggiata anche quando rimanda a specifici episodi del passato, come le esperienze giovanili a Città del Messico del gruppo autodefinitosi infrarealista guidato da Octavio Paz. I componenti ispirarono Bolaño nella definizione, quasi vent’anni dopo, dei personaggi de I detective selvaggi, ritenuta da Volpi l’ultima epica latinoamericana del XX secolo, uscita quando, nel 1998, era necessario contrapporre a quella standardizzazione di modelli imitati e resi un prodotto da esportazione,
“un’idea di letteratura politica lontana da memorandum a favore o contro il dittatore latinoamericano di turno”, con un romanzo divenuto virale nel contagiare migliaia di lettori, “che per fortuna non erano vaccinati contro la scettica ribellione delle sue pagine”.
Nel gioco di ricorsi e impasti di storie, Belano e Lima si ritrovano anche in Morte di Ulises, un altro racconto della sezione Il segreto del male incentrato sul ritorno a Città del Messico, dopo oltre vent’anni, dello scrittore affermato e dalla salute cagionevole. In visita come ospite della Fiera del libro, Belano osserva i cambiamenti della metropoli, notando che “La gente che cammina sui marciapiedi, però, è la stessa, forse ci sono più giovani, probabilmente non erano ancora nati quando lui se ne era andato da lì l’ultima volta, ma in fondo sono le stesse facce che ha visto nel 1968, nel 1974, nel 1976”.
È la storia di un impulso ingenuo sulle tracce dell’amico scomparso culminato per Belano nel presentarsi sotto casa di Ulises con l’irrazionale speranza di vederlo affacciarsi, finendo per scontrarsi invece con inquilini giovani e iracondi che cambiano atteggiamento quando scoprono che egli era amico del loro mentore. Si susseguono vicissitudini tragicomiche con Belano costretto ad accettare l’ospitalità del gruppo, terrorizzato di contrarre una gastroenterite con l’acqua che gli è stata offerta, mentre scorre in sottofondo la musica della band di cui i ragazzi fanno parte, che lo scrittore
“ascolta immobile, con le dita contratte intorno al bicchiere d’acqua che ancora non ha bevuto e con lo sguardo sul pavimento, sporco, e le pareti, piene di manifesti dei Padroni del Quartiere e degli El Ojete de Morelos e di altri gruppi che lui non conosce e che forse sono formazioni dove prima suonavano I Padroni del Quartiere o El Ojete de Morelos, ragazzi messicani che lo guardano dalle foto o dall’inferno brandendo le loro chitarre elettriche come se fossero armi o come se stessero morendo di freddo”.
Altro inedito di chiara ispirazione personale è Non so leggere. Racconta gli esiti imprevisti di un viaggio avvenuto nel 1998, condiviso con la moglie di Bolaño, Carolina, e con il loro figlio Lautano, esperienza che per chi narra in prima persona rappresenta il primo ritorno nel paese d’origine dal lontano gennaio 1974. Spicca la costruzione di un’amicizia infantile consolidata nella minzione dal bordo di una piscina arroccata sulle falde della cordigliera, tramutata in sogno nella scena in cui il figlio del narratore diventa parte integrante del paesaggio “atroce” dei suoi vent’anni.
La bellezza di questi racconti, al di là di interconnessioni e parziali sovrapposizioni tra letteratura e vita che talvolta si risolve nella trasformazione di figure reali in soggetti depositari di aneliti irrealizzabili, risiede nella peculiare intensità di una prosa che si nutre di ingrandimenti continui su particolari minimi depositari di significati assoluti. Tra i passaggi memorabili spicca la descrizione minuziosa della caratteristica abilità di Lautaro di toccare con la punta del naso le porte automatiche senza attivarne i sensori, resa in Non so leggere non solo nell’attenzione rivolta al movimento, alla capacità, alla volontà e alla tecnica, ma al modo in cui il suo volto poteva trasformarsi in quell’atto, sfumando e al contempo concentrandosi “sull’invisibilità, sull’immobilità e sul movimento, sulla non solidità e sul paradosso”.
La straordinaria varietà dei racconti rivela temi, tensioni espressive, motivi stilistici, slanci lirici, registri diversi, che definiscono questi inediti un prezioso e lucido compendio della letteratura di Roberto Bolaño. Emerge una precisa scelta di calarsi nella prospettiva femminile per compiere una denuncia di taglio femminista in particolare in due racconti che in misura differente evidenziano il triste conflitto interiore vissuto da donne che intendono rivendicare libertà affettive e sessuali ma temono di subirne le conseguenze in una società patriarcale e ottusa.
Il racconto Delitti vede al centro una giornalista che teme di fare la stessa fine della ventisettenne uccisa con ventisette coltellate nell’ennesimo caso di femminicidio narrato da cronisti “per nulla diversi dagli assassini”.
Il racconto Daniela è uno straordinario atto di autodeterminazione di una donna libera che ricorda il suo traumatico passaggio all’età adulta con lo stupro subito a tredici anni da un peón della tenuta, che finì per non denunciare.
“Mi chiamo Daniela de Montecristo e sono cittadina dell’universo, anche se sono nata a Buenos Aires, capitale dell’Argentina, nel 1915, la minore di tre sorelle”.
Significativa la feroce critica sociale che riluce tra le pagine, nel sottolineare attraverso la voce di una esponente della classe media quali contraddizioni e compromessi si possano accettare per affermarsi in un livello sociale superiore “con gli attributi della giustizia e dell’etica”, e scegliere di non lasciare quella comoda classe,
“comoda, sì, ma che condannava gli spiriti più svegli della stirpe (me, per esempio) a una mobilità che già allora, a tredici anni, in quella tenuta che non era la nostra, intravidi come un miraggio vertiginoso, uno spazio nel tempo dove il tempo stesso si annullava, il tempo come lo conoscevamo […]”.
Alcuni racconti palesano la peculiare connessione tra politica e estetica attraverso l’uso di riferimenti letterari trasformati in personaggi, come in Savi di Sodoma con Naipaul a Buenos Aires a seguire gli stravolgimenti politici e sociali argentini, tra cui la morte di Perón, l’inasprimento degli scontri, il golpe, la guerra sucia, i massacri, finendo poi per averne abbastanza della città e del paese. Connessione evidente anche in altri racconti che lambiscono gli esiti della violenza e dell’orrore come Il figlio del colonnello, dove il narratore incappa in un film in televisione che sembra la sua biografia.
“Ogni fotogramma respirava ed emanava un’aria di rivoluzione, diciamo un’aria in cui si intuiva la rivoluzione, non la rivoluzione completa, intendiamoci, ma un pezzettino minuscolo, microscopico, della rivoluzione […]”.
Emblematico in tale prospettiva anche il racconto Il provocatore, incentrato sui continui tentativi di un giovane riservato e timido, che credeva solo nell’arte e nella scienza, di irrompere alle manifestazioni europee contro la guerra in Iraq, o ai cortei studenteschi antimilitaristi con cartelli che celavano ambiguità pianificate per divertirsi a osservarne le conseguenze.
Di taglio politico anche il racconto che chiude gli inediti e che rappresenta una sezione a parte, Il contorno dell’occhio. Traccia le inquietudini e le incertezze di un ufficiale cinese attraverso le pagine del diario redatto nel 1980 durante la sua permanenza come ospite in un villaggio rurale, grazie al comitato del Partito. Tra le pagine l’accumulo di bizzarri ritagli di giornale con notizie come l’avvistamento in un lago vulcanico al confine con la Corea di una creatura simile a una mucca gigante dal becco d’anatra; la capacità di un undicenne di vedere a occhio nudo come ai raggi x; o la morte di tre persone a Pechino durante un festival musicale. Gli appunti tracciano anche lo spettro dell’inesorabilità della fine con intenti ignoti alla gente comune, con in parallelo la descrizione di fugaci suggestioni emotive, di incontri ordinari che celano una natura sorprendente, e di una inestinguibile malinconia che anticipa una volontà definitiva.
Ogni racconto restituisce aspetti che occupano un ruolo centrale nell’indagine sull’umano compiuta da Bolaño, non solo per i temi ma per le ricorrenze espressive, come la tensione figurativa, resa in particolare nel racconto Labirinto, che è lo studio delle relazioni sotterranee, dei desideri sopiti, dei misteri, della vita che scorre sullo sfondo di una fotografia del 1977 che immortala un gruppo di intellettuali (giornalisti culturali, semiologi, scrittori). Non esiste all’apparenza una reale azione nel racconto, la centralità è data dallo scandaglio di dettagli che si mostrano fondamentali nel tradire una trama sottile di rapporti, come le pose studiate, la direzione di certi sguardi, i sorrisi di acquiescenza, la disposizione degli oggetti, “la presenza terrorizzata e musicale del rododendro che introduce due foglie nel ficus come nuvole dentro nuvole, l’erba che cresce nella fioriera e che più che erba sembra fuoco, l’elicriso inclinato verso sinistra in una contemplazione inutile, i bicchieri che restano al centro del tavolo e non ai bordi” tranne uno.
Di simile taglio icastico è anche il racconto La stanza accanto, esemplare nel narrare quel che può vivere chi, a contatto con una persona affetta da allucinazioni uditive, si trova all’improvviso con una pistola puntata alla tempia e precipita nella bella inerzia di Moreau, procedimento grazie al quale l’artista riusciva a fissare qualunque scena nelle sue tele.
La scelta di ripubblicare insieme anche le altre raccolte edite in vita offre a chi legge l’opportunità di seguire itinerari e percorsi, riconoscere ricorrenze e evoluzioni oscure, e non privarsi di capolavori della forma breve come Sensini, che assieme a racconti come Enrique Martín e Un’avventura letteraria, e ai testi I miti di Cthulhu e Lettura + malattia = malattia, riflettono sul potere della letteratura, sull’America latina come “manicomio d’Europa”, sulle storture e il folklore del sistema editoriale, sul glamour da Fiera del libro, sulle disparate imitazioni di modelli preconfezionati.
“L’opera di Reinaldo Arenas è ormai perduta – dichiara ne I miti di Cthulhu –. Nessuno legge più Ibargüengoitia. Monterroso, il quale avrebbe potuto perfettamente dichiarare che tre dei suoi indimenticabili personaggi sono Mandela, García Márquez e Vargas Llosa, forse sostituendo Vargas Llosa con Bryce Echenique, fra poco entrerà in pieno nel meccanismo dell’oblio”.
Leggere oggi Bolaño offre la possibilità di proiettarsi assieme al suo autore verso l’avvenire, scorgere la sua consapevolezza di rivolgersi a un “lettore futuro” con storie che gravitano inesorabilmente attorno alla stessa costellazione di personaggi e di scenari nel tracciare la marginalità, le possibilità celate in ogni fine, il ruolo del fallimento, le frontiere dell’ossessione. Anche grazie a preziose scoperte, come inediti di rara bellezza colmi di ironia, estasi, alienazione, visionarietà dell’ordinario, quell’“esploratore audace”, “sommozzatore che s’immerge in apnea, trapezista senza rete” come lo definì Jorge Herralde, continua ancora oggi a indicarci il significato di una coerenza profonda verso una personale idea di radicalità estetica, etica e politica.