La grande caccia a Carlo H. De’ Medici

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La grande caccia a Carlo H. De’ Medici
La storia di un libro riscoperto nel buio


di Andrea Cafarella

Ci sono le storie nei libri e ci sono le storie dei libri. E, allo stesso modo di come non tutte le storie contenute nei libri sono interessanti o avvincenti, anche la biografia di un libro o del suo autore non nasconde necessariamente misteri o aneddoti dalle caratteristiche magnetiche, coinvolgenti o illuminanti. Anzi, quasi tutte le storie (nei e dei libri) normalmente sono molto semplici e anche noiose, banali.
A volte può succedere che un libro sia molto interessante ma il suo concepimento, come la sua storia editoriale, abbia comportato una serie di avvenimenti abbastanza comuni, poco originali e quindi anche trascurabili.
È vero anche esattamente l’opposto: non è detto che, quando alla storia dell’autore – o del concepimento del libro, o del suo futuro in forma d’oggetto cartaceo – corrispondono avvenimenti straordinari o molto affascinanti, allora il libro in questione debba essere sistematicamente un capolavoro. Tuttavia, devo ammettere che la mia sensazione è che spesso, se l’elemento eccezionale risiede nella biografia del libro, allora è più possibile – rispetto alla situazione inversa – che quel libro sia davvero splendido o comunque detenga un fascino suo proprio. Almeno dopo l’ultima prova: il filtro del tempo. La grande vagliata di Chronos.

Quello che intendo dire è che, seppure la storia di un autore misterioso (che scrive sotto pseudonimo, per esempio e di cui “non si conosce” la reale identità) possa risultare avvincente – dopo un’attenta operazione di marketing attraverso cui il “mistero” viene raccontato –, se i suoi libri, la sua letteratura non è all’altezza della Storia, scomparirà assieme alla sua storia editoriale e/o privata. In fondo: chi si darebbe la pena – quando e se attraverserà quel periodo, naturale, in cui la notorietà del momento lascia spazio a un progressivo anonimato – di perpetrarne la memoria? Mi sembra parecchio più semplice e sensato immaginare che un lettore-custode della memoria, disposto a bisbigliare, nel nulla e nella dimenticanza, il nome dell’autore di cui ha scelto d’essere il vassallo, in attesa di qualcuno che lo ascolti e inizi a costruire una nuova catena di lettori in grado di riesumarne le parole, fino addirittura a riportarle in libreria, al cospetto di tutti; ecco, mi pare più logico pensare che codesto lettore-custode scelga un autore di memorabili pagine piuttosto che della qualsiasi serie di romanzetti qualsiasi, identici a mille altri (ma anche questo non è detto).

È certo, tuttavia, che esistono rari, rarissimi casi, in cui le due storie – quella o quelle nel libro e quella o quelle del libro – si equivalgono in fascino. È a quel punto che il lettore accorto e avventuroso si lascia trascinare dagli indizi nella faticosa e grandemente remunerativa caccia al mistero. Il lettore di cui parlo, effettivamente, è un cacciatore.
I lettori-cacciatori possono essere persone molto diverse, fare i lavori più disparati, avere passatempi e ossessioni impensabili, eppure vi è una categoria che non può non far parte della cerchia segreta dei lettori-cacciatori di cui parlo. Ed è quella del buon editore.
Un buon editore caccia per mestiere, la preda sarà il suo cibo e dal buon esito della caccia dipenderà la sua sopravvivenza. La caccia è la sua vita, la voglia istintiva di vivere e la paura della morte sono le sue motivazioni, per ciò un buon editore sarà sicuramente, innanzi tutto, un buon cacciatore.  O un cacciatore morto.

Presentiamo qui, all’acuto lettore, la storia di una caccia. La caccia di uno dei più attenti editori italiani degli ultimi anni, in cerca di una preda sfuggevole e che si muove nell’ombra più nera.
Federico Cenci (Cliquot) ci racconta la loro «più affascinante e rocambolesca avventura editoriale», la grande caccia all’orso. Come se fossero le ore passate, in attesa, davanti alla buca scavata nella lastra di ghiaccio, dalla quale, in ogni momento, potrebbe tornare a galla, per respirare, la foca scura nascosta nelle profondità delle acque. Descrive l’equivalente delle notti sul ponte della Pequod o quelle passate nelle profondità di un castello in Transilvania. Riferisce meticolosamente gli avvenimenti occorsi durante la riscoperta di Gomòria e de I topi del cimitero, i primi due libri ripubblicati da Cliquot a nome di Carlo H. De’ Medici.
Il testo che vi proponiamo (la prefazione al volume I topi del cimitero, Cliquot, 2019) è solo l’inizio dell’appassionante racconto di questa caccia all’uomo – o meglio, al fantasma. Appassionante, forse, quasi quanto gli stessi racconti che contiene, la cui «forza magnetica oscura» riesce ancora a corroborare i pensieri e la cui «prosa raffinata, ponderata, mai banale, degna del miglior Decadentismo italiano» non può che dare un ulteriore valore alla prelibata carne di questo poderoso animale mitologico. È dai suoi resti fossili che quelli di Cliquot – come versioni editoriali del caro vecchio Hammond (e speriamo con esiti differenti) – sono riusciti a restituire questo animale estinto, alla vita. Hanno dovuto donare il loro sangue alla bestia, legandosi così a un patto. Con un demone o con un fantasma, non importa. Di sicuro un patto con le parole: parole che nascondono e perpetuano una forza occulta e piena di vita – e quindi anche di Morte. Per questa, e molte altre ragioni inconoscibili, il nome di chi le ha vergate suona come un richiamo per il lettore-cacciatore, coi sensi sempre all’erta, in attesa di un rumore nel silenzio, di una traccia nel buio, dell’antroponimo altisonante di uno spettro, rimasto tra noi, di sicuro, poiché ha ancora qualcosa di veramente essenziale da dire.


Ringraziamo l’editore (Cliquot) per averci permesso la pubblicazione del testo.

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Carlo Hakim De’ Medici: storia di una riscoperta

di Federico Cenci

 

Mais le saint homme
Prend un chenet, frappe & l’assomme.
C’est où l’attendoit Belzébut.

A.      Piron


Quando una copia di Gomòria di Carlo H. De’ Medici, nell’edizione originale Facchi del 1921, fu recapitata all’indirizzo di Cliquot alla fine del 2017, nessuno in redazione poteva sospettare che stava per avere inizio la nostra più affascinante e rocambolesca avventura editoriale.
Ancora oggi, infatti, la nebbia di mistero che avvolge questa sfuggente figura d’autore non accenna a diradarsi: non solo perché sulla vita di Carlo H. De’ Medici c’e ancora tanto, tantissimo da scoprire, ma anche perché́ le poche e contraddittorie notizie di cui siamo entrati in possesso si sono spesso modificate inspiegabilmente davanti ai nostri occhi, come animate da forze imperscrutabili, mentre altre continuano con ostinazione a negarsi alla nostra conoscenza.
Se a decidere quali informazioni renderci più o meno accessibili sia, a un secolo di distanza, la volontà sovrannaturale dello scrittore stesso – che fu studioso di scienze esoteriche e alchemiche – o se si tratti semplicemente dell’accanimento del caso, è una questione che lascio alla sensibilità̀ di ciascun lettore. Quel che è certo è che una serie di fortunate coincidenze (l’inatteso suggerimento di un nostro cliente proprio quando era disponibile una sola copia originale su eBay, il prezzo contenuto per un libro di tale rarità, e non ultimo, a ripensarci, una curiosa urgenza interiore che mi indusse a premere il pulsante dell’acquisto) portò sulla scrivania della nostra redazione l’unica copia di Gomòria disponibile in quel momento su tutto il mercato dell’antiquariato.
Il libro fu una folgorazione. Conteneva una serie di xilografie di diabolica potenza evocativa, firmate con le iniziali CHM, e ricordo con chiarezza che mi bastò la lettura delle prime pagine per capire che avevo tra le mani un testo carico di una forza magnetica oscura, in cui si fondevano affanni divini e terreni, misticismo e concretezza materiale, spirito e carne. Fra tanti scrittori gotici del primo Novecento – perlopiù artigiani indulgenti con la propria scrittura, lesti fabbricanti di intrattenimento facile – ne avevo finalmente trovato uno che, oltre ad aver letto Poe, Villiers de L’Isle-Adam e Huysmans, inseriva nelle sue storie elementi inediti e personali, frutto delle sue ricerche interiori, del suo cammino iniziatico, del lungo studio di antichi testi di occultismo. E, soprattutto, uno che scriveva bene: una prosa raffinata, ponderata, mai banale, degna del miglior Decadentismo italiano.
In redazione decidemmo subito che il libro andava ripubblicato. Tuttavia, la ricerca di informazioni biografiche sull’autore si rivelò fin da subito incredibilmente difficoltosa. Inizialmente sembrava che fosse nato nel 1877, e così abbiamo scritto nella nostra prima edizione di Gomòria; nuove fonti ci inducono però a credere che la sua data di nascita sia in realtà il 29 agosto 1887. La data di morte, al contrario, è ignota (...se l’autore è in effetti morto, verrebbe lugubremente da pensare sapendolo studioso di alchimia!), e rimane uno dei tanti misteri di cui non siamo ancora venuti a capo.
Ci mettemmo in contatto con l’esperto di avanguardie artistiche Guido Andrea Pautasso, l’unico studioso che, a nostra conoscenza, avesse mai messo per iscritto il nome di Carlo H. De’ Medici. Pautasso ricostruì lo strano intreccio libresco intercorso fra l’autore e due notevoli esponenti della letteratura triestina dell’epoca, Anita Pittoni e Italo Svevo, raccontando poi le sue scoperte nella postfazione alla nostra edizione di Gomòria, alla fine del 2018.
Ma oltre a quella che potremmo definire la “pista triestina”, seguimmo – e stiamo seguendo tuttora – anche una “pista gradiscana”. Gradisca d’Isonzo è un comune in provincia di Gorizia che attualmente conta circa seimila abitanti e dove De’ Medici, stando alle sue stesse indicazioni nelle ultime pagine di Gomòria, scrisse parte del romanzo nel 1921.
Ci giunse prestissimo la conferma che alcune lettere autografe dell’autore erano conservate negli archivi della biblioteca civica comunale di Gradisca. Incredibilmente, cosa ci sia scritto non ci è ancora dato saperlo: una serie di scogli burocratici ci impedisce da due anni di posare gli occhi su quelle lettere. Un altro scherzo del caso o, per chi lo preferisce, di qualche volontà ultraterrena...
D’altro canto, scoprimmo che a Gradisca esiste un’imponente abitazione denominata ancora oggi Villa De’ Medici, su cui solo di recente abbiamo ottenuto alcune notizie grazie all’aiuto del gradiscano Furio Gaudiano, gestore di un b&b e appassionato ricercatore di storia locale, al quale siamo debitori per la maggior parte delle informazioni che posso adesso raccontare.

Villa De’ Medici è situata in una zona abbastanza centrale dell’attuale Gradisca, ma è in posizione molto discreta, e dalla strada, quasi, non si vede. Una volta varcato il cancello e percorso il vialetto ghiaioso circondato da una fitta vegetazione che nasconde la casa agli sguardi curiosi, l’edificio principale a tre piani, con sei finestre sul lato lungo, compare alla vista in tutta la sua solida maestosità. Più discosti, altri stabili che un tempo erano adibiti a stalle e rimesse per le carrozze.
Sopra il portone è conservato ancora, miracolosamente, lo stemma dei De’ Medici, che ha poco a che vedere con quello dell’omonima casata fiorentina (se non per la comune presenza di qualche bisante) e contiene invece, dentro uno scudo più piccolo, un animale rampante sovrastato da un cane accucciato simile a quello di p. 79.
L’interno della villa è oggi molto diverso da come doveva essere agli inizi del Novecento: gli enormi saloni di un tempo hanno lasciato il posto a stanze di dimensioni più ridotte, come se la mutevolezza degli spazi fisici volesse testimoniare simbolicamente il labirintico affanno del nostro percorso verso la conoscenza di Carlo e dei suoi scritti.
In passato, inoltre, l’architettura della casa era organizzata intorno a una scala a chiocciola, posizionata in modo tale – stando a certe voci – da dare all’intera struttura un significato esoterico; purtroppo, è difficile fare supposizioni al riguardo. Si racconta però che una volta, entrando in casa, una sensitiva si arrestò improvvisamente sulla soglia, come percependo influssi sinistri...
Stando alle informazioni in nostro possesso (ma anche qui le fonti sono parzialmente discordi), la villa fu costruita proprio nell’anno di nascita di Carlo, letteralmente sulle ceneri di un’antica fabbrica di surrogati di caffè, che “andò in fiamme – si disse per ‘incendio doloso’ – e la proprietà venne acquistata dal ricco banchiere parigino De’ Medici”.

Sull’incendio doloso sarebbe interessante indagare, se fosse mai possibile. Finora abbiamo appurato che il padre di Carlo, Giovanni Hakim (che con regio decreto del 1889 fu autorizzato a chiamarsi De’ Medici, con il diritto di estendere il cognome ai figli), era davvero un ricco banchiere ebreo parigino, mentre il nonno Giuseppe Hakim era stato amministratore della sinagoga Eliyahu Hanavi ad Alessandria d’Egitto. Che cosa abbia portato la famiglia Hakim a spostarsi da Alessandria d’Egitto a Parigi, per poi stabilirsi in una piccola località di provincia come Gradisca, allora facente parte dell’Impero austro-ungarico, è un altro mistero. A chi si accontentasse di una risposta semplice potrei dire che Gradisca, all’epoca, ospitava una piccola comunità ebraica, residuo di un antico ghetto. A chi fosse invece più sensibile alle suggestioni sovrannaturali (e dato che questa è una raccolta di racconti gotici, mi auguro che siate in tanti) dirò invece che, secondo alcuni, Gradisca sarebbe un importante punto di snodo tra varie correnti energetiche: forze arcane che si incrociano e confluiscono sotto l’antico castello, edificato su un atipico sperone carsico isolato nella pianura noto come Sperone degli spiriti.
Poco altro è quello che abbiamo scoperto: probabilmente Carlo si trasferì a Gradisca dopo la morte del padre, nel 1900, assieme a sua madre (altra figura enigmatica: donna di famiglia non ricca, non nobile, nativa di Eichstätt, in Baviera, cittadina celebre per un’accanita caccia alle streghe fra Seicento e Settecento); successivamente, nel 1921 – forse dopo aver sperperato la fortuna di famiglia per i suoi studi magici e in qualche investimento sfortunato – vendette la villa e si trasferì da qualche parte in Lombardia. E qui ne perdiamo le tracce.

Ma anche se la ricerca è ancora ben lontana dall’essere completa – a tutto beneficio del tenebroso mistero che avvolge la figura dell’autore – quello che possiamo fare è riscoprire pian piano gli scritti che Carlo H. De’ Medici ci ha lasciato. È proprio grazie alla sua bibliografia, e ai temi che trattò nelle sue opere, se possiamo confermare che fu un dotto studioso di scienze occulte, un uomo che per tutta la vita inseguì il sogno di un’evoluzione interiore che potesse portare al disvelamento di verità supreme. La lettura de I topi del cimitero, con il quale Cliquot prosegue la riproposta delle sue opere narrative dopo Gomòria, non potrà che confermare questa visione: nello scorrere le pagine di questi “racconti crudeli” (pubblicati per la prima volta nel 1924 da Bottega d’Arte di Trieste), ci si accorgerà subito che il sottofondo gotico è quasi un pretesto per esprimere i caliginosi rimestii di un’anima profondamente inquieta (ma anche mestamente autoironica). Tutte le storie sono narrate in prima persona, e l’azione, spesso sfuggente, lascia spazio ai voli dell’intelletto verso le regioni sconosciute oltre la materia; ciò che resta è un grido di dolore per la frustrazione di una mancata fusione col Tutto, la somma tragedia dell’esistenza umana.
In coda al volume pubblichiamo una selezione di racconti tratta da quella che, nelle intenzioni dell’autore, doveva essere una sorta di nuova edizione rivisitata de I topi del cimitero, ovvero la rarissima raccolta Crudeltà (La Sfinge, Milano, 1927), di cui conosciamo una sola copia originale esistente: altro piccolo mistero nel mistero.