Greenleaf, un racconto esemplare di Flannery O’Connor

di Debora Lambruschini

 

Un racconto dopo l’altro – e qualche incursione nei romanzi e nei saggi – sono anni che mi affascina il mistero della scrittura di Flannery O’Connor. L’ironia feroce che ne attraversa le storie, una certa occorrenza di tematiche e spunti, il realismo che si intreccia al grottesco, la fede, i dialoghi spiazzanti, sono alcuni degli elementi caratteristici della prosa di questa scrittrice leggendaria, morta prematuramente e all’apice della sua carriera letteraria, entrata presto nel canone occidentale. Bastano poche pagine per riconoscerne la voce, la postura autoriale che la contraddistingue, eppure quando pensi di averla inquadrata, quando i mezzi che come lettore hai a disposizione ti paiono adeguati a comprenderne il mistero, ecco che qualcosa sfugge e uno dei suoi caratteristici finali irrompe sulla pagina lasciandoti senza fiato. Ho un rapporto piuttosto viscerale con certi autori e scritture e O’Connor, i suoi racconti spietati, l’ironia pungente, i contrasti che li distinguono, mi affascinano come pochi altri. Mi abbandono quindi al godimento della lettura, consapevole che l’incanto ogni volta si ripeterà immutato. E che certi racconti più di altri torneranno a “tormentarmi”, per il mistero che appunto rappresentano, per la loro riconoscibilità, per la stratificazione. È stato il caso di Un brav’uomo è difficile da trovare, che dà il titolo alla raccolta omonima uscita lo scorso anno per minimum fax nell’ottima traduzione di Gaja Lombardi Cenciarelli, cui sono affidate tutte le traduzioni di O’Connor: un masterpiece che la rilettura apre di volta in volta a spunti e considerazioni nuovi. E quel finale! Lo conosco, so bene come si chiuderà quella storia, ma bastano un paio di righe a O’Connor per fare la sua magia, stregare completamente e far arrivare il lettore ancora una volta lì, chissà come inconsapevole di quello che accadrà. La violenza che esplode feroce sulla pagina scortica con la sua brutalità inattesa, in un equilibrio perfetto tra ironia e dramma. È la cifra stilistica di O’Connor, uno dei suoi segni distintivi e quello che più attrae per la potenza, il contrasto su cui si posa, la deflagrazione sulla pagina. Punto Omega, l’ultima raccolta approdata in libreria per minimum fax e come sempre tradotta da Cenciarelli, è attraversata da questo filo sottile, che in tali storie raggiunge forse la tensione massima, in un equilibrio ideale. È la raccolta finale, che uscì postuma e segna un punto fondamentale nella sua produzione letteraria. Nove racconti costruiti perfettamente tra la tragedia che va consumandosi sulla pagina e il registro quasi mai drammatico. Nove pezzi essenziali, che si inseriscono nella bibliografia dell’autrice e dialogano perfettamente con una produzione coerente, di cui uno tra gli altri è quello che continuerà a ronzarmi in testa, a distanza di molto tempo dalla lettura, come con la raccolta precedente. Non so se è il “migliore” della raccolta, qualunque significato o utilità possa avere tale etichetta in questo contesto, ma Greenleaf, il secondo racconto, è quello che maggiormente mi è entrato sottopelle. E che, guarda un po’, dialoga perfettamente con Un brav’uomo è difficile da trovare.

 

La finestra della camera da letto della signora May era bassa e dava a est, e il toro, d’argento sotto la luna, era proprio lì sotto, la testa alta quasi in attesa, come un dio paziente sceso a corteggiarla, di sentire un movimento nella stanza. (p. 45)

 

È l’incipit con cui O’Connor cattura il lettore portandolo immediatamente al centro della storia: la signora May, vedova di mezz’età con due figli adulti che abitano con lei nella fattoria di famiglia, è tormentata da un toro scappato ai figli del suo aiutante. Un animale, un simbolo. E lì, sotto la sua finestra, si insinua nel dormiveglia della donna, il lento masticare la siepe inizia a occupare i suoi pensieri e delineare lo spazio narrativo. Dal momento in cui lo vede, inizia la sua battaglia per farlo catturare dai responsabili, i figli del signor Greenleaf appunto, il fattore. E intanto, noi lettori, osserviamo la vita minima di queste persone in un luogo qualunque del Sud degli Stati Uniti, la fatica del tirare avanti con mezzi modesti, le disgrazie che ne hanno segnato la vita (molte, in queste storie, le famiglie gravate da un lutto), le problematiche quotidiane, il lavoro. Ci sono due figli maschi, che dal modo in cui parlano e si comportano sembrano poco più che adolescenti e invece scopriamo essere adulti, almeno dal punto di vista anagrafico. Hanno combinato poco o nulla nella vita, punzecchiano la madre con battute feroci, le procurano grattacapi e dispiaceri. La signora May non raccoglie le loro provocazioni, dentro di sé li difende, paragonandoli continuamente ai Greenleaf, quelli sì due scansafatiche buoni a nulla che vai a capire come sono però riusciti a farsi strada nell’esercito, essere feriti e ricevere una pensione da veterani, studiare agraria grazie agli aiuti del governo, acquistare un pezzo di terra e servirsi di nuove apparecchiature per prendersi cura dei propri animali; hanno mogli francesi e figli, forse non particolarmente ben vestiti e puliti, ma al riparo dalle preoccupazioni che invece attanagliano lei, sul futuro della fattoria, sulla fine dei suoi due ragazzi che probabilmente la manderanno in malora.

 

«Io lavoro come una schiava, combatto e sudo per conservare questa proprietà per loro e appena sarò morta si sposeranno due poveracce e rovineranno tutto quello che ho fatto», e in quel momento aveva deciso di cambiare il testamento. Il giorno dopo era andata dal notaio e aveva fatto vincolare la proprietà in modo tale che, se si fossero sposati, non avrebbero potuto lasciarla alle mogli. (p. 51)

 

Lo sguardo di O’Connor si posa qui, nel raccontarci i tormenti di questa donna che suo malgrado tira avanti, in continuo confronto con la famiglia dei Greenleaf; e tale rapporto diviene, o così pare, il cuore della storia, al punto da dargli il titolo stesso. Ma sappiamo, leggendo O’Connor, che al pari di Carver i titoli possono essere fuorvianti o rappresentano un dettaglio minimo di ciò che raccontano; scopriremo alla fine se è anche questo il caso, quale significato assume. Nel frattempo seguiamo la signora May nei suoi affanni e ricostruiamo pezzi di vita che aprono squarci sul mondo inventato da Flannery O’Connor: il Sud, mirabilmente ricreato, nonostante l’etichetta di autrice regionale che spesso le andava stretta, il rapporto tra bianchi e neri, la terra, un mondo che sembra sgretolarsi, la fede. Anche in questo racconto si condensano molte delle tematiche e degli spunti cari all’autrice, di volta in volta declinati in forme diverse. A partire dal rapporto tra bianchi e neri, dalla rappresentazione di questi ultimi, che per un attimo la frenesia da cancel culture ha alimentato la polemica: in tutti i racconti di O’Connor ricorre la parola “negro”, che saggiamente la traduzione italiana sceglie di lasciare così per aderenza alla forma originale; ma non è usata in modo offensivo, tutt’altro, funge da semplice specchio di una realtà ben fissata sulla pagina; i bianchi di queste storie guardano spesso con fare paternalistico ai neri, li considerano pigri, indulgenti con se stessi e i propri figli, una collezione di stereotipi razzisti che nelle mani di altri autori potrebbero davvero risultare offensivi. Ma basta leggere un paio di racconti per rendersi conto che i neri di O’Connor sono invece i personaggi più saggi e accorti ed è proprio la diffidenza nei loro confronti a generare in più di un’occasione il dramma della storia – come per esempio in Punto Omega. E quella parola, che oggi giustamente condanniamo, va ricollocata in un contesto storico e culturale ben preciso che rivive nelle atmosfere, nelle ambientazioni ma anche e soprattutto nei dialoghi costruiti da O’Connor, abilmente resi dalla traduzione di Cenciarelli, che restituisce questo valore contestuale utile al testo.
Alla perenne preoccupazione della signora May si contrappone la calma serafica dei Greenleaf, soprattutto del padre, che con i suoi modi esaspera la donna la quale tuttavia lo sopporta da molti anni spinta da umana compassione nei confronti di chi, poveretto, non potrebbe trovare altro nella vita. Arriva con passo lento ogni mattina, svolge i suoi compiti dopo che gli sono stati ricordati più volte, pronuncia poche frasi e quasi sempre nei momenti meno opportuni per i nervi della signora May. L’incidente del toro è l’apice di un rapporto che capiamo trascinarsi così da decenni: su tutti loro, il padre, i due figli e soprattutto la stravagante moglie dalla fede plateale, la signora May punta il faro e confronta costantemente le famiglie e il modo di vivere.
Il punto di vista con cui O’Connor ci racconta questa storia è quello della signora May e come tale siamo inizialmente indirizzati a interpretare ciò che vediamo; ma lentamente intuiamo che dietro le parole della donna c’è una realtà diversa ed è necessario prendere le distanze per osservare questo affresco umano nell’insieme. Anche ciò che resta fuori è interessante, proprio per le pennellate rapide con cui l’autrice lo tratteggia: chi sono questi due figli finto adolescenti che litigano tra loro, che non sembrano avere combinato nulla nella vita né hanno prospettive di farlo in futuro? Sappiamo che hanno perso il padre, ma molto tempo prima, li ha cresciuti una madre che si è rimboccata le maniche e reinventata agricoltrice e allevatrice; uno di loro è stato riformato per cardiopatia, l’altro ha trascorso due anni nell’esercito ma non è stato in grado di far carriera; l’uno intellettuale mancato, l’altro assicuratore – pensate, vende polizze assicurative ai neri!
Per tutto il racconto O’Connor mette in bocca alla signora May frasi di giustificazione verso i propri figli inetti, ma iniziamo presto a sospettare che neppure lei ormai ci creda più:

 

Il signor Greenleaf le aveva fatto notare, una volta, che i suoi figli non sapevano distinguere il fieno dall’insilato. Lei, a sua volta, gli aveva fatto notare che i suoi figli avevano altri talenti, che Scofield era un uomo d’affari di successo e che Wesley era un intellettuale di successo. Il signor Greenleaf non aveva commentato, ma non perdeva mai occasione di dimostrarle, con la sua espressione o semplicemente con un gesto, che provava per entrambi un disprezzo infinito. (p. 54)

 

Vi siete dimenticati anche voi del toro, vero? Ma parafrasando Cechov, se c’è una pistola deve sparare: e quella di O’Connor non è caricata solo a salve. La violenza esplode brutale nelle ultimissime pagine, il contrasto fra la scena cui assistiamo e le modalità narrative per raccontarla è quella cifra stilistica di cui dicevamo in apertura e che qui tende la corda al massimo. Come la donna di Un brav’uomo è difficile da trovare, l’anziana signora chiacchierona, una brava donna «se solo qualcuno le avesse sparato ogni minuto della sua vita», anche la signora May va incontro al suo destino inconsapevole di quanto sta per accadere di lì a poco.

 

Dopo qualche minuto qualcosa emerse dalla linea degli alberi, una pesante ombra nera che scosse la testa alcune volte e poi si slanciò in avanti. Un attimo dopo la signora May capì che si trattava del toro. (p. 75)

 

Il toro è di fronte a lei, rimasta sola alla macchina, indifesa, mentre il signor Greenleaf è stato mandato nel bosco con l’ordine di sparare al toro – ma abbiamo presto capito la differenza tra l’ordine dato e la sua effettiva esecuzione – e lo vede spuntare tra gli alberi, guardare verso di lei; sono loro due, di nuovo, come all’inizio della storia, quasi come un corteggiamento. Come tale, nella scena finale si carica di inattesa tensione erotica. Consapevole del pericolo, la signora May resta «assolutamente immobile, non per paura, ma per una raggelante incredulità»: e qui si compie il suo destino tragico. Immobile, incapace di reagire, non per paura ci dicono lei e l’autrice, ma per quella «raggelante incredulità» di chi non crede che stia succedendo davvero, che la realtà fino a quel momento conosciuta di colpo appare capovolta, tanto che «tutta la scena davanti a lei era cambiata», il mondo sottosopra. Come lei, come la sua famiglia e quella dei Greenleaf, come la sua fede obbediente ma priva di slancio e quella viscerale della signora Greenleaf; il mondo non si è capovolto, forse è la signora May che adesso lo vede per quello che è.  È un attimo fugace in cui ogni cosa le appare chiara, inevitabile, quando ormai però è troppo tardi. E a noi lettori solo adesso appare chiaro il senso profondo del titolo, Greenleaf, il ruolo del personaggio nel dramma che si compie.
È una scena brutale e bellissima, una di quella in pieno stile O’Connor che mi ha smosso per chissà quale associazione il ricordo di un racconto di un’altra fuoriclasse della Southern Literature, Shirley Jackson, e quel racconto in cui l’idillio domestico è rotto dalla violenza di un gesto – forse solo immaginato – che appare ancora più brutale per il luogo in cui si svolge e i suoi protagonisti, per il suo essere inaspettato. Perché sì, i lettori di O’Connor sanno che dietro l’ironia feroce li aspetterà una scena di questo genere, ma ogni volta arriva sulla pagina con un carico sorprendente. Sono le increspature sulla superficie di certi racconti o le crepe sulla facciata di Yates che si fanno deflagrazione e spazzano via ogni cosa. Quello che verrà dopo non importa, tutto il dramma si è consumato lì, in quel momento. Spiazzante. Crudele. Bellissimo.
Gli stessi aggettivi per definire questo racconto, che apre a molteplici spunti, dialoga con altre storie dentro e fuori questa raccolta. Leggere Flannery O’Connor è entrare «nel territorio del diavolo», la scrittura, e restarne totalmente ammaliati.