Tre paia di occhiali

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di Roberto Galofaro

Ottica

All’interno del corpo umano gli stimoli luminosi vengono codificati in impulsi e inviati attraverso il nervo ottico per essere decodificati dal cervello come sensazioni visive. Tra la realtà esterna e la visione della realtà è posto uno strumento organico: l’occhio. Esso è sostanzialmente una lente; un diaframma che, al grado zero di connotazione, attua una semplice mediazione, mentre all’estremo può comportare persino una falsificazione.
Laddove il normovedente ha l’impressione di abbracciare con lo sguardo la verità e la profondità del reale, il miope ha la consapevolezza che il reale sia invisibile ai suoi occhi, o sia vero soltanto al di fuori della sua portata. La miopia è perciò la scandalosa rivelazione della fragilità del sistema percettivo umano.
È una metafora vivente della fallibilità della percezione. Limite e confine tra cecità e visione, è continua sconfessione dell’evidenza. Per chi ne è affetto, ogni percezione diventa ipotesi, interpretazione, interpolazione.

Sinossi

In Un paio di occhiali di Anna Maria Ortese (1949, in Il mare non bagna Napoli, Einaudi, 1953; successivamente: Adelphi, 1994) la miope è Eugenia, una bimbetta con la pelle invecchiata dagli stenti, che vive in un affollato basso napoletano. La vicenda raccontata occupa la giornata in cui la bambina, grazie a un generoso regalo della zia Nunziata, avrà finalmente il suo primo paio di occhiali, passando però dalla trepida aspettativa a un’angosciosa rivelazione.
L’avventura di un miope di Italo Calvino (1958, in Gli amori difficili, Mondadori, 1970) copre un lasso di tempo decisamente più lungo, centrato com’è sulla figura del buon Amilcare Carruga, che seguiamo da quando scopre di non vederci bene (ragion per cui la sua vita «andava, impercettibilmente, perdendo sapore») e inforca gli occhiali, al momento in cui, tornato al paese in cerca di “visibilità” in mezzo ai conoscenti e agli amori del passato, finisce in una sconsolata solitudine.
In Occhi felici di Ingeborg Bachmann (1972, trad. it. di Ippolito Pizzetti, in Tre sentieri per il lago, Adelphi, 1980) a essere affetta da forte miopia (e astigmatismo) è la bella e sbadata Miranda (la cui funzione nel mondo «dovrebbe essere la tenerezza tout court»). Compra e perde nuovi occhiali, li mette, li toglie, e intanto spinge con goffi e miopi stratagemmi il suo amato Josef tra le braccia dell’amica Anastasia.

Decezione (mispercezione)

Il miope è un vedente che si vuole redimere. Il miope ha coscienza di un’indefinibile inafferrabilità del reale. Lo iato tra essere e percezione, calcolato e misurato per la produzione di strumenti correttivi, è la certificazione della condizione straordinaria del miope. Le cose, le persone sono lì, a portata di vista, percepibili ma senza la dovuta nettezza. Basterebbe una correzione per raggiungerle e aspirare alla felicità. Basterà un paio d’occhiali?
Nessuno dei protagonisti dei tre racconti si gode a lungo la vista corretta, anzi, i tre racconti sono costruiti su tre modalità simili di infelicità del vedere.
In Bachmann la decezione è funzionale alla sopravvivenza (che è coazione a ripetere, rappresentazione di ruoli, profezia autoavverantesi).
In Ortese la decezione è indispensabile alla sopravvivenza (che è vicenda amarissima, perché «questa vita è un gastigo»).
In Calvino sia la decezione che la correzione portano manifestamente al medesimo risultato: la sconfitta e la solitudine.

Optometria

In ottica la miopia è definita “vizio di rifrazione”: essa si dà quando, a causa di un difetto della curvatura della cornea o del cristallino o di un allungamento dell’asse, il punto di messa a fuoco è posto anteriormente alla retina e sulla retina vengono dunque a formarsi immagini sfocate invece che nitide. La diottria, unità di misura della miopia, è in realtà l’unita di misura dell’angolo di correzione della lente che consente di portare le immagini propriamente a fuoco sulla retina.
Ragionando in termini più concreti e meno clinici, diciamo semplicemente che miope è chi non vede da lontano. Ora, si tratta di stabilire senza possibilità di equivoco che, una volta superata una certa soglia della menomazione visiva, quel lontano che è il limite dell’invisibile è spaventosamente vicino. Non a pochi metri ma a poche decine di centimetri dall’occhio. L’ambiente circostante è nella sua interezza offuscato, «avvolto in una nebbia», «coperto [...] da un velo sottile» (Ortese), «un molle mondo di forme e di colori quasi sfatti» (Calvino), è un «mondo velato» (Bachmann).
La miopia è la causa della noia del vivere di Amilcare Carruga: le donne a cui buttava sempre gli occhi addosso prendono ad apparirgli scialbe; le città nuove anziché esaltarlo come in passato lo disorientano; al cinema tutti gli spettacoli gli sembrano piatti e anonimi. La pratica è disbrigata da Calvino in poche righe, in un’asciutta, rapidissima paratassi: «Alla fine capì. L’oculista gli ordinò un paio d’occhiali. Da quel momento la sua vita cambiò, divenne cento volte più ricca d’interesse di prima». Da quel momento, rapito Amilcare da una miriade di particolari prima inintellegibili, l’atto stesso del guardare diventa per lui «un divertimento, uno spettacolo» – almeno fino a una nuova assuefazione.
La diagnosi acquista invece un peso maggiore in Bachmann e in Ortese. Entrambe sentono di doverla mettere in scena.
Ortese dà conto in maniera teatrale della condizione della piccola Eugenia, «così giovane e già tanto miope», per bocca dell’ottico: «Tiene nove diottrie da una parte e dieci dall’altra, se lo volete sapere... è quasi cecata». «Eugenia Quaglia, vicolo della Cupa a Santa Maria in Portico», recita l’intestazione dell’ordine per le lenti, con un conto salatissimo di «ottomila lire», un vero sproposito per una famiglia che vive in un basso scalcinato e che si arrabatta con piccoli lavori di servizio per sopravvivere.
Il racconto di Bachmann è il più clinico dei tre: inizia con l’elencazione scientifica delle proprietà della vista menomata di Miranda, in termini di diottrie, gradi, astigmatismo. «Aveva cominciato con 2,50 a destra e 3,50 a sinistra, ricorda Miranda, ma adesso, con perfetta armonia, di diottrie ne aveva 7,5 per occhio. Il punto prossimo è spostato anormalmente vicino, il punto remoto ancora più vicino». E poi c’è l’astigmatismo, una «deformazione che le mette paura, in quanto [Miranda] non riuscirà mai a capire perché i suoi meridiani siano abnormi e in nessun punto possiedano lo stesso potere di rifrazione». Insomma, il modo in cui vede Miranda «è peggio che esser ciechi», o, come dice più avanti, è anche lei «sul confine della cecità».

Montature

Occhiali d’oro per la raffinata Miranda (e con lenti diffusorie). Ma: «Miranda possiede, nei momenti migliori, tre paia di occhiali: un paio da sole molati con una montatura nero e oro, poi un paio leggero, trasparente, da pochi soldi, per casa, e un paio di riserva con una lente traballante, che oltre tutto sembra non le doni affatto». Tutte le lenti di Miranda, però, sono destinate ad andare smarrite; così per strada come in teatro, come in casa, lei rifiuta di indossarli (la dimenticanza è un’altra forma di ostinazione) ed è il buon Josef, finché ne ha pazienza, che «l’aiuta a vedere e a continuare a vedere».
D’oro pure li immagina la povera Eugenia, o quantomeno con il filo dorato: come può altrimenti giustificare le «ottomila lire vive vive»? I suoi occhiali sono in realtà un minuscolo affare di metallo sottile, quasi di filo di ferro, con delle lenti pesanti. «Una specie di insetto lucentissimo, con due occhi grandi e due antenne ricurve»; una volta indossati, nell’orrore della rivelazione sono crudamente «due cerchietti stregati».
Calvino esagera: il suo protagonista è infelice delle lenti che lo hanno trasformato in un «Uomo con gli occhiali» e li cambia per un paio quasi invisibile, tutto lenti, trasparente. Salvo poi ripensarci, ancora una volta, e tornare a lenti che lo nascondano (lo nasconderanno fin troppo). È come se Calvino insistesse sulla più effimera delle connotazioni della miopia: l’estetica. Gli occhiali come abbellimento o impedimento estetico, tema sul quale tentenna più volte anche la Miranda di Bachmann, come si è visto.
L’insistenza di Ortese sull’apparenza di miseria umana e materiale di certi quartieri napoletani, costante in tutta la raccolta Il mare non bagna Napoli,  non poteva lasciare troppo spazio a un vezzo estetico così accessorio come il cambiamento della figura con o senza gli occhiali. È esemplare che Eugenia sia descritta come una bimba con il «viso di piccola vecchia, i capelli come stoppa, tutti arruffati, le manine rivide, legnose, con le unghie lunghe e sporche»: quanto può peggiorare il quadro un paio di lenti da vista? Eppure Ortese accenna a quella prospettiva, affidando significativamente una battuta lapidaria alla serva della signora Amodio: «Io pure me li dovrei mettere, ma il mio fidanzato non vuole». Eugenia non afferra minimamente il senso malizioso di quella proibizione, pensa sia legata al costo eccessivo degli occhiali. Questa incomprensione è il succo della distanza tra un mondo di piaceri sensuali (in senso proprio) e il mondo in cui vive la piccola protagonista del racconto.

Slogan

Sulla fattura di un paio di costose lenti a contatto tedesche, che Miranda si è fatta venire da Monaco, si legge lo slogan pubblicitario della ditta che le produce, lo stesso che nella scena finale del racconto di Bachmann torna in mente all’imbranata Miranda dopo che ha battuto contro un’invisibile porta a vetri, mandandola in frantumi: «Tenete d’occhio il vostro bene». È proprio ciò che Miranda non è mai stato in grado, costitutivamente, di fare.
Come Bachmann, anche Ortese condensa ironicamente il senso del racconto in uno slogan. A Eugenia, che la ringrazia per la sua bontà e per il dono degli occhiali nonostante la sua “scostumatezza”, zia Nunziata risponde, con improvvisa malinconia: «Figlia mia, il mondo è meglio non vederlo, che vederlo». Niente di più vero.
Non c’è, purtroppo, uno slogan equivalente in Calvino, ma c’è un accurato riferimento al modo in cui chi indossa gli occhiali viene visto, che è quasi il fondamento del racconto, per una sorta di indagine sulla reciproca visibilità tra chi osserva e chi è osservato. Scrive Calvino: «[...] quando uno che non ti conosce cerca di definirti, la prima cosa che dice è: “uno con gli occhiali”; così quel particolare accessorio che quindici giorni fa t’era completamente estraneo, diventa il primo tuo attributo, s’identifica con la tua essenza stessa». Sembra solo un capriccio e invece, riflettendo sulla propria irrilevanza e inconsistenza, «il passo che porta alla disperazione è breve».

Vedo non vedo

L’atto del vedere, connesso com’è alla percezione dello spazio, è fondamentale al posizionarsi nel mondo del vedente. Ancora una volta, secondo quanto accade con tutti gli aspetti filosofici della miopia, questa frase è da intendersi sia in senso proprio che in senso metaforico. Accade dunque che la correzione della vista deficiente comporti uno spostamento o un riposizionamento.
È una trasformazione inizialmente felice nel caso del miope raccontato da Calvino: egli crede di aver riacquistato il suo posto nel mondo. Amilcare Carruga è intenzionato ad autodeterminarsi: «attraverso la necessità degli occhiali, andava lentamente imparando a vivere». Nel suo rinnovato stato d’animo di “felicità percettiva”, decide di recarsi a V., la sua città natale. Ciò che vuole è vedere ed essere visto. Dapprima pensa che sia per il piacere di rivedere luoghi e persone del passato (e segnatamente per la prima volta vederli); poi si rende conto che il principale desiderio è quello di incontrare Isa Maria Bietti, la sua fiamma di un tempo, colei per la quale lasciò la città. La seconda metà del racconto è il diario di un’impresa impossibile: con gli occhiali indosso Amilcare riconosce i passanti che gli si fanno incontro, sorride loro e li saluta, ma quelli, che non l’hanno mai visto con gli occhiali, non lo riconoscono a loro volta. Così decide di togliere gli occhiali: non vede più, tira a indovinare a chi appartengano le sagome che lo salutano passando e teme persino di aver confuso Gigina dei tabacchi per la sua Isa Maria Bietti. È così che il racconto si avvia alla triste conclusione, segnata da questa inconciliabilità di percezioni contrapposte che sembrano non avere un terreno comune.
La miope Miranda di Bachmann è invece nevroticamente indecisa. Il mondo lo rifiuta in blocco, rifiutandosi di indossare gli occhiali, togliendoli, perdendoli distrattamente o con intenzione. Vuole essere vista anche non vedendo. Eppure, il suo difetto della vista è un privilegio, un dono di dio (come in Ortese!), perché «Potrebbe anche darsi che la vista normale, astigmatismo normale incluso, ottundesse i sensi della gente». Miranda «pensa con disagio alla possibilità di un “vedere di continuo”». Quel “disagio” è appunto la sua incapacità di stare continuamente nel mondo. Perché lei non sente il bisogno di fotografare la realtà con uno sguardo occhialuto. I dettagli non le interessano e preferisce dipingerseli in un modo tutto suo. Inforcati gli occhiali «Miranda riesce a guardare l’inferno, il cui orrore non è mai cessato», e tuttavia è sempre pronta a toglierli, rapida, istantanea, per evitare che nel suo campo visivo capiti «tutto ciò che poi non riesce a dimenticare: [...] un bambino storpio, o un nano, o una donna con un braccio amputato» o anche solo le «facce infelici, cattive, maledette, segnate dalle umiliazioni e dal delitto, volti inimmaginabili». Dunque l’alternativa all’orrore non è la correzione ma la miopia, una via di salvezza. L’inimmaginabile è allontanato. Si badi che Bachmann con garbatissima perizia non menziona mai direttamente la questione verità-immaginazione o verità-finzione. L’autoconservazione di cui parla è presa sul serio e noi siamo tenuti a prenderla sul serio: siamo entrati definitivamente nella mente della donna miope. Anche i suoi sentimenti sono offuscati. Miranda ama Josef, ma è sicura di ciò che lui sente per lei? No, perché non si fida della sua percezione. Così lo mette alla prova. Gli eventi che seguono, e che lei stessa ha innescato solo in parte, dimostreranno la verità. Di quella verità Miranda non potrà che essere vittima, perché quella è la sua condizione. Non ha scelto lei di stare al mondo, non ha scelto lei come stare al mondo, perché non ha mai avuto un posto nel mondo.
Ortese lavora fin dalle prime righe per costruire un’aspettativa nel lettore: il duplice colpo di scena finale è nel fatto che quella che si preannuncia come gioia del vedere si ribalterà in disgrazia. La prima volta che indossa per prova le spesse lenti correttive, Eugenia guarda la strada davanti al negozio dell’ottico e vede via Roma con le ricche vetrine, i caffè lussuosi e le signore eleganti e imbellettate: è una «vera rivelazione: il mondo, fuori, era bello, bello assai». Di questa bellezza Eugenia ha forse soltanto un’immaginazione remota, e ora che le si prospetta la possibilità di abbracciarla con lo sguardo non vuole altro che godersela. Eugenia vuole fortemente vedere. Lei non ne ha mai avuto parte, nel vicolo in cui vive predominano le ombre e il grigio. È un mondo in cui ci si sveglia con gli scarafaggi nelle maniche del pigiama e in cui con ottomila lire (il costo degli occhiali) si potrebbe comprare il pane per tutta la famiglia per più di dieci giorni. È un luogo popolato di «cristiani cenciosi e deformi, coi visi butterati dalla miseria e dalla rassegnazione». Il racconto è disseminato di anticipazioni, che tuttavia accrescono l’attesa. Dice la marchesa D’Avanzo a Eugenia: «A te, che ti serve veder bene? Per quello che tieni intorno...». Ma il nucleo tematico è il trauma della rivelazione. La rivelazione sperata è negativa – perché la realtà è negativa. A Eugenia, indossati infine gli occhiali, tremano le gambe, gira la testa «e non provava più nessuna gioia». Piegata in due da un dolore che sembra averla presa allo stomaco, chiede e si chiede quale sia quel posto orrorifico e irriconoscibile in cui le è toccato di vivere (e in cui tuttavia, fino a poco prima, immaginava di poter vivere felice): «Mammà, dove stiamo?».