The New York Stories, di John O'Hara

Autore: John O’Hara Titotlo: New York Stories Editore: Bompiani Traduzione: Maurizio Bartocci pp. 480  Euro 16,00

Autore: John O’Hara
Titotlo: New York Stories
Editore: Bompiani
Traduzione: Maurizio Bartocci
pp. 480 Euro 16,00

di Debora Lambruschini


Lo scrittore del futuro saprà intonarsi alla voce di Lincoln a Gettysburg, e sentire il rumore dei boccali di peltro alla Sirena, ma non conoscerà mai il senso di soddisfazione che si ha quando si cambia il nastro della macchina da scrivere. Uno scrittore appartiene al proprio tempo, e il mio è il tempo passato. Nei giorni o negli anni che mi rimangono, mi dedicherò alla contemplazione del mio tempo, lasciandomi ammaliare dal modo in cui le cose si uniscono fra loro, l’una con l’altra.

(Amici di nuovo)

John O’Hara è stato uno scrittore perfettamente radicato nel suo tempo e lui e le sue storie vi appartengono. Un tempo e un luogo - New York dagli anni Trenta agli anni Sessanta - fissati sulla pagina ma di cui ancora forte riconosciamo l’eco, le contraddizioni, i vizi e le inquietudini. Leggiamo i trentadue racconti di The New York Stories tra la nostalgia per un mondo che non è più, e il riconoscimento di istinti, fragilità, insoddisfazioni, che esulano dal tempo e dallo spazio. Non sono certa che in Italia i racconti di John O’Hara abbiano avuto finora il riconoscimento che meritano, quantomeno fuori dall’ambito editoriale, eppure qualcosa si sta muovendo negli ultimi tempi, e questa raccolta edita da Bompiani – traduzione di Maurizio Bartocci del volume Penguin del 2013 curato da Steven Goldleaf – è senza dubbio un ottimo mezzo per addentrarsi nella scrittura di O’Hara: riconosciuto dalla critica come uno dei maestri del realismo americano, questi racconti rappresentano senza dubbio un esempio eccellente, non solo della sensibilità letteraria dell’autore ma anche di quel canone “New Yorker” che ha contribuito a definire.

Autore di romanzi e racconti, O’Hara resta ancora oggi, con duecentoquarantasette short story, lo scrittore più pubblicato sulla rivista The New Yorker di cui, appunto, ha delineato lo stile. Il riconoscimento di critica e pubblico, ricchezza e lusso, non hanno mai del tutto alleviato il senso di frustrazione per non aver frequentato l’Ivy League e il Nobel mancato, che unito a un carattere decisamente difficile gli hanno inimicato buona parte dell’ambiente culturale del tempo, di cui restano leggendarie le baruffe, i malumori, le liti con gli editor. Inquietudine e insoddisfazione, seppur per ragioni e in forme diverse dal dato biografico, attraversano tutte le storie riunite in questa raccolta, una sorta di fil rouge che lega i trentadue racconti. Prima mi si permetta però un appunto: pur apprezzando la scelta di proporre al pubblico italiano una ricca selezione dei racconti di O’Hara, si avverte la mancanza di un apparato critico bibliografico adeguato, anche semplicemente una semplice prefazione, pratica, editoriale che purtroppo sembra andare scomparendo. Sull’ordine dei racconti la casa editrice si è riferita alla versione inglese del testo curato da Goldleaf sulla base delle scelte editoriali delle ultime raccolte di O’Hara, non ordinate cronologicamente ma per titolo; un ostacolo facilmente aggirabile, perché ogni racconto è per fortuna datato e per il lettore è quindi possibile scegliere il percorso più congeniale.
Fatte le dovute premesse, resta, ovviamente, tutta la potenza della scrittura di O’Hara, le influenze dell’ambiente culturale entro cui si muove e quella sua stessa pressione esercitata sugli scrittori a lui contemporanei o che, in qualche modo, hanno tentato di raccoglierne il testimone, tra short story e romanzo. È quel realismo americano di cui si accennava in partenza, che assume nel corso del Novecento sfumature e forme differenti, ma a partire da una base comune, di cui i racconti newyorkesi di O’Hara sono esempio ideale. Si dispiega davanti al lettore una città di contraddizioni, sogni infranti, alcool, frustrazioni e miserie quotidiane, da un lato all’altro della scala sociale. Ecco, in questo O’Hara è senza dubbio un maestro: raccontare gli uomini e le donne da un estremo all’altro, non con intento di denuncia sociale, ma da un punto di vista “umano”, per restituirne, quindi, un ritratto privato di solitudini e di ordinaria insoddisfazione. Laddove sembra mancare l’impegno per la denuncia sociale, per così dire, O’Hara risponde con la fotografia di un mondo cinico, in cui l’ironia resta l’unica forma di difesa possibile, e la felicità una meta difficile da raggiungere indipendentemente dalla propria collocazione sociale. Non impossibile, ma senza dubbio difficile. Umanissimi, inoltre, sono i personaggi che compongono queste storie, perché pieni di imperfezioni, vizi, fragilità, a prescindere dall’appartenenza a un gruppo sociale o all’altro, perfino al tempo o allo spazio. Non fa sconti, con la sua inforcatura di sguardo durissimo proprio verso i suoi personaggi: O’Hara non da mai l’idea di amarli o anche solo di provare empatia nei loro confronti, esseri umani difettosi ma mai davvero crudeli, malvagi o per contro totalmente positivi. Sono uomini e donne che si muovono negli ambienti più differenti, di cui l’autore riesce di volta in volta a restituirci l’essenza: delinquenti, attori – per lo più vecchie glorie cadute in disgrazia – , scrittori, giornalisti, uomini d’affari, pubblicitari; O’Hara riporta uno spaccato ricchissimo di dettagli del mondo dell’editoria, dello spettacolo – fra Broadway e sogni hollywoodiani – della comunicazione e, soprattutto, delle crepe sulla facciata, che sono da sempre l’aspetto più interessante di un certo sentire letterario. Quelle stesse crepe che raccontano un matrimonio, in cui lo scrittore svela il crollo di qualsiasi velo di conformismo:

Era quel che si poteva definire una situazione famigliare americana, nella quale la moglie si trovava senza granché da fare, e il marito era talmente preso dal lavoro da non trovare il tempo per cambiare le cose prima che peggiorassero.

(La cervellona)

Le donne, all’interno di queste relazioni, pagano lo scotto della solitudine, cadono nella dipendenza per mancanza di comprensione, o di una propria identità definita, di un posto, di un ruolo che si scolli da quello della canonica moglie.

Cosa sono? Non ho mai combinato niente. Non sono mai stata niente.

(A vita privata)

Colpisce, di alcuni passaggi, la capacità di certe tematiche di trascendere il tempo e la collocazione geografica, a partire dall’incomunicabilità dentro certi rapporti, le solitudini che lentamente uccidono. Ecco, le parole, quelle giuste, che mancano, la superficialità di certi rapporti, le menzogne, l’immagine che di noi diamo al mondo, i silenzi, la frustrazione: mutano forma, ma sono ancora terribilmente riconoscibili. Come la sensazione, terribile, di estraneità, proprio con qualcuno che si suppone dovrebbe esserci riconoscibile:

 

Conoscevo quest’uomo benissimo, e con il suo permesso, ma non l’avevo mai sentito fare una dichiarazione d’amore tanto schietta nei confronti della moglie; e tornando a casa, ho capito che fino a quel momento, non l’avevo conosciuto poi tanto bene. Non fu quella scoperta a lasciarmi sgomento. Cosa sapeva lui di me? Cosa sappiamo, veramente, gli uni degli altri, e perché dobbiamo dare tanta importanza alla solitudine se è ciò che è in serbo per tutti noi? E cosa sarebbe l’amore, senza solitudine?

(Amici di nuovo)

È lo spettro, ancora una volta, della solitudine, contro cui non smettiamo, sempre, di combattere.
In una produzione ricca e variegata come quella di O’Hara e, di conseguenza, in questa specifica raccolta, non tutti i racconti hanno lo stesso valore letterario eppure, ogni storia, anche quella meno significativa o riuscita, riesce ad aprire squarci. Storie non prive di difetti, ma in cui riconoscere O’Hara: per le tematiche ricorrenti nella sua produzione letteraria, per l’attenzione ai dialoghi – insieme al sesso, l’aspetto tecnicamente più complesso da scrivere e verso la quale l’autore dimostra sempre di possedere un orecchio straordinario – , per la schiettezza con cui si presenta il racconto, che a tratti sembra farsi cronaca, e quella cifra peculiare di spostare il racconto altrove, in una zona di narrazione inaspettata per il lettore.

Si diceva, appunto, dell’universalità di certe tematiche e spunti qui ritrovati e, come sempre, di quelle personali chiavi di lettura da cui ognuno di noi sceglie – consapevolmente o meno – per osservare una storia: per me, dei racconti di O’Hara, sono le cadute e le miserie di questi uomini e queste donne, la loro malinconia per qualcosa che è sfuggito, forse perduto per sempre o mai davvero conquistato, l’illusione della felicità, le solitudini dentro certe relazioni. E, non da ultimo, il mondo degli uomini nello sguardo femminile, osservato da chi è riuscita con fatica e determinazione a farsi strada in un ambiente oltraggiosamente maschile: La macchina del nulla è una storia che, come in molti casi di questa raccolta, parte da un’idea per poi spostare l’attenzione del lettore verso qualcosa di altro, ma aprendo qui e là alla riflessione su tematiche interessanti e solo all’apparenza estranee alla narrazione. A colpire di questa storia è la protagonista femminile, con il racconto della sua scalata al successo, in un mondo dominato dagli uomini, la fatica per conquistarsi di diritto il proprio posto:

Tutto quello che aveva, se lo era guadagnato con il lavoro, aveva combattuto per averlo, combattuto sporco se era stato necessario. Aveva attraversato gli anni in cui dicevano cose terribili sul suo conto, e lo sapeva; era acqua passata, ormai; la posizione che aveva raggiunto imponeva l’altrui rispetto […].

(La macchina del nulla)

 

Ai poli opposti della realizzazione di sé: le due donne protagoniste di La macchina del nulla, la vicepresidente di un’agenzia pubblicitaria, e A vita privata, con la moglie infelice e alcolizzata che non ha avuto opportunità e coraggio per essere qualcun altro. In entrambi i casi, intuiamo le crepe sulla superficie: nel mondo di Judith Huffacker, sono l’amarezza di essere sempre e comunque inquadrata come una donna, a cui un estraneo può permettersi di rivolgere domande scomode, e intime:

Ho lavorato con gli uomini per moltissimi anni, e con un discreto successo, da pari a pari. Non mi piace quando un uomo fa il tipo di domande che non farebbe a un altro uomo.

(La macchina del nulla)


Personalmente mi mancano nella scrittura di O’Hara la disperazione e il sarcasmo di Dorothy Parker – inarrivabile nei suoi ritratti femminili e nel raccontare lo snobismo della società newyorkese tra le due guerre – la tensione narrativa di dramma imminente e la parola scelta con precisione chirurgica di Richard Yates – lui, a mio avviso, sempre il più grande maestro del realismo americano – ma, è innegabile, i racconti di O’Hara rappresentano un tassello imprescindibile nella costruzione del patrimonio letterario del novecento americano, capace ancora oggi di sorprendere e affascinare il lettore.

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