Olive, ancora lei

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di Debora Lambruschini


Qualche anno fa, a settembre del 2017 per la precisione, ho avuto il privilegio di incontrare Elizabeth Strout, in un evento a porte chiuse organizzato dalla casa editrice Einaudi, il suo più recente editore italiano.
Come lettori ci leghiamo a un autore o una storia che arriva a noi in un momento particolare e ci si rivela a livelli di umana connessione che ogni volta sono un piccolo miracolo: per me Strout sarà sempre questo, un incontro pieno di grazia e generosità in un momento particolare della mia vita, il sincero interesse per le persone sedute intorno a quel tavolo e la curiosità di una scrittrice per la quale sono appunto gli altri a catturare l’attenzione, ben più della storia. E, coerentemente con questo, anche l’ultimo libro di Strout è arrivato esattamente quando doveva, aiutando a fare ordine nel caos del mondo in pieno lockdown, per ritrovare una dimensione intima, umana, di connessioni possibili, meraviglia e bellezza. 

L’estate era cominciata e, pur facendo ancora fresco a metà giugno, il cielo era sereno e affollato di gabbiani nella zona del porto. C’era gente a spasso, molti giovani con bambini e carrozzine, e sembravano tutti presi a conversare. Il fatto la colpì. Con quanta disinvoltura davano per scontato l’essere insieme, il parlarsi tra di loro!
(L’arresto, p. 3)

Olive, ancora lei, tradotto da Susanna Basso, è un rientro a casa, tanto per i suoi lettori che per la stessa autrice, a conferma di un legame fortissimo con i propri personaggi su cui ritorna a più riprese – vedi, per esempio Lucy Barton, protagonista di due libri – perché c’è ancora qualcosa da raccontare, personaggi e storie da cui non è disposta ad allontanarsi del tutto, e noi con lei. Olive ritorna dopo più di dieci anni da Olive Kitteridge appunto, dal premio Pulitzer, dal successo internazionale di critica e pubblico, da una scrittura sempre più consapevole eppure fresca, vitale. C’è un’altra ragione del tutto soggettiva per cui amo così tanto i libri di Strout ed è quella forma di “romanzo per racconti” con cui spesso affronta le sue storie, un ibrido fra romanzo e short story che ritorna anche in questo ultimo lavoro. Una struttura particolare, che sembra derivare il meglio da entrambe le forme, per costruire la propria narrazione: del romanzo c’è l’ampio sguardo, la tendenza all’universalità, le ricorrenze; del racconto sono gli spazi bianchi, il particolare minimo che si carica di senso, il frammento, la parola misurata e puntuale. Un attento lavoro di sottrazione, frutto di anni di esperienza e di scrittura che in quest’ultimo libro si rivela in tutto il suo potenziale.
E a distanza di un decennio, si diceva, il lettore ritrova Olive Kitteridge, più vecchia ma non ammorbidita; tutto osserva e sente, umanissima in ogni difetto e mancanza, irrisolta, la stessa donna schietta e umorale dei primi racconti. La stessa eppure diversa, più incline alla riflessione e a un certo grado di autoanalisi, consapevole del tempo, delle perdite, delle distanze e delle fratture cui ormai sembra impossibile porre rimedio. Intorno a lei, ancora una volta, il microcosmo di Crosby, l’immaginaria cittadina sulla costa del Maine entro cui si muovono personaggi più diversi, ognuno con il proprio carico di desideri, solitudini quotidiane, assenze, traumi, vite che Olive non può limitarsi a osservare da lontano ma a cui prende parte in qualche modo, cercando di trovare un punto di connessione, che sia anche una parola brusca, per non arrendersi, per riconoscere che in fondo siamo ancora lì, forse non del tutto interi, ma ci siamo ed è possibile salvarsi.

 

E pensava a sua madre che era sempre stata una donna assente e che adesso aveva un lavoro part-time in uno studio dentistico in paese; non pareva avere un granchè da dirle la sera, e questo molte volte a Kayley faceva male; si sentiva proprio una piccola onda di dolore attraversarle il torace, e pensava: Per questo si dice ferire i sentimenti delle persone, perché fanno proprio male come una ferita.

(Pulizie, p. 47)

Sono le persone, si diceva, a interessare Strout, non la storia, ed è evidente come non mai nei racconti di Olive, di dieci anni fa e di oggi, su cui l’occhio della scrittrice si posa privo di ogni forma di giudizio ma solo di umanissima partecipazione e grazia. Anche quando il racconto scava negli angoli più bui, nelle mancanze e nelle colpe che non possono essere perdonate, anche quando l’indicibile prende forma, Strout squarcia la pagina con lampi di bellezza abbagliante. Olive stessa è manchevole, imperfetta, contraddittoria e volubile e in queste complessità e sfaccettature risiede la meraviglia del personaggio, con le sue ombre e inadeguatezze. Una madre distante, anafettiva a tratti, incapace di comuni gesti di tenerezza e pazienza, verso il figlio ormai adulto, verso i nipoti, eppure non priva di cuore e affetto. Olive non ha mai le parole giuste, perde la pazienza, sbotta e pronuncia frasi che feriscono come lame, alza muri fra lei e le persone che ama. Forse a certe cose, a certe mancanze, non si può porre rimedio, sulla pagina che ricrea così perfettamente la vita.
Non leggiamo Elizabeth Strout per trovare ordine nel caos dei rapporti reali, per trovare risposte sui meccanismi che fanno funzionare le relazioni, le famiglie; leggiamo Strout perché ci riconosciamo in quelle mancanze, perché scacciamo il fantasma delle piccole solitudini quotidiane che uccidono, perché riconosciamo la bellezza di un mattino di primavera di una qualsiasi cittadina costiera; per quel senso di possibilità, speranza, umanità e grazia di cui è intrisa ogni parola sulla pagina. Perché non abbiamo bisogno di grandi epifanie e verità universali, ma di sottintesi, di tante piccole rivelazioni per provare a dare un senso a questo caos che è la vita.
Innumerevoli spunti di riflessione e tematiche a colpire in maniera del tutto soggettiva la sensibilità del singolo lettore, pur con alcune evidenze strutturali che riconosciamo come cuore della narrazione: la riflessione sul tempo che passa, che nonostante tutto si lega a un desiderio inesaurito di vita e possibilità, la paura della solitudine, appunto, le connessioni con gli altri. Ecco, quest’ultimo punto spiega la ragione per cui accennavo in apertura alla capacità di Strout di arrivare con le sue storie sempre nel momento ideale, anche stavolta: le distanze dei primi giorni di lockdown ci hanno colti del tutto impreparati, ci siamo scoperti fragili e per alcuni la solitudine si è fatta quasi materia; chiusi nelle nostre case, al sicuro, abbiamo osservato il mondo fuori rinascere nella primavera in arrivo, attenti come non mai ai silenzi e ai suoni cui troppo sbadatamente non si presta attenzione in tempi “normali” e, soprattutto, abbiamo riscoperto il valore assoluto delle connessioni umane, quei legami che non sono le sterili parole della burocrazia a poter definire, ma sono sangue, cuore, pancia, affinità. Ecco, come Strout ho desiderato ancora di più riconoscere la bellezza, le possibilità. Riconoscere gli altri, immaginarmi nella loro pelle, «raccontami come ci si sente a essere te» dice Olive a una giovane infermiera musulmana, per infrangere il vetro delle innumerevoli solitudini che ci portiamo dentro.

 

E capì che non bisogna mai prenderla alla leggera, la profonda solitudine della gente, che le scelte fatte per arginare quella voragine di buio esigevano molto rispetto.
(Esuli, p. 176) 

In tutto c’è grazia e bellezza, è la mia personale chiave di lettura per ogni pagina di Strout. Anche questa, anche stavolta.

 

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