Cose impossibili di tutti i tipi, di John McGahern

Autore: John McGahern Titolo: Cose impossibili di tutti i tipi Editore: Racconti Edizioni Traduzione: Stefano Friani pp. 229   Euro 17,00

Autore: John McGahern
Titolo: Cose impossibili di tutti i tipi
Editore: Racconti Edizioni
Traduzione: Stefano Friani
pp. 229 Euro 17,00




Di Debora Lambruschini


Nel mare magnum delle uscite editoriali che ogni giorno arrivano sugli scaffali, capita di frequente che libri di una bellezza assurda si perdano un po’, fagocitati da nomi ben noti, pubblicità pressante, pile ben riconoscibili nelle librerie, disattenzione; se a questo si aggiunge che in generale le raccolte di racconti non vengono accolte con standing ovation, è abbastanza ovvio che il lettore entra in contatto con un numero ben limitato dei titoli pubblicati. È proprio qui, a mio avviso, che il lavoro di critici, giornalisti e redattori culturali, gioca un ruolo importantissimo e molto delicato. Non per ricercare l’originalità e la nicchia a tutti i costi, uno snobismo controproducente e un po’ antipatico, ma davvero per tratteggiare un quadro quanto più variegato delle produzioni letterarie che hanno una qualche valenza, artistica o sociale. Cose impossibili di tutti i tipi, la raccolta di John McGahern da poco in libreria per Racconti edizioni, è appunto uno di quei libri di cui si sta parlando troppo poco, nonostante meriterebbe di arrivare a un numero ben più ampio di lettori.
Va detto che McGahern non gode di molta fortuna editoriale nel nostro Paese – nonostante nel mondo anglosassone la valenza letteraria della sua opera sia ben riconosciuta – con un paio di pubblicazioni per Einaudi negli anni Novanta e la più recente uscita di The Dark (il suo romanzo più celebre) per minimum fax. I racconti, in cui la prosa di McGahern è al suo meglio, non erano mai stati tradotti prima. Chi meglio di Racconti edizioni poteva portare in Italia la produzione breve di questo autore, più volte definito dalla critica anglosassone il Čechov irlandese? Cose impossibili di tutti i tipi presenta quindi una ricca e molto interessante selezione di short story, curata e tradotta da Stefano Friani e arricchita da una sentita prefazione a firma di Colum McCann che sottolinea la valenza letteraria di questi racconti e la straordinaria capacità di trascendere lo spazio e il tempo.
Ecco, il tempo nelle sue diverse implicazioni è a mio avviso una delle chiavi di lettura imprescindibili di questa raccolta, insieme alla riflessione sull’Irlanda – intesa quasi come uno stato d’animo – , rapporti famigliari, vita quotidiana e ambiente rurale.
È il tempo che non sembra scalfire la prosa, resa magistralmente dalla traduzione di Friani, che permette alla narrazione di arrivare fino al lettore contemporaneo senza avvertire lo straniamento di una scrittura ancorata al tempo e allo spazio della composizione; ma è anche il tempo sospeso della narrazione, in cui si scivola dentro per poi accorgersi improvvisamente dei riferimenti temporali che collocano i racconti in un contesto cronologico solo allora meglio definito.

Si è detto di McGahern che è stata e in parte è tuttora, la voce dell’Irlanda rurale. Di questa sua “irlandesità” e interesse per un ambiente ben definito, i racconti sono impregnati e ne rappresentano le sfumature più variegate e interessanti. La voce irlandese è complessa, non smette mai di esserlo, come dimostrano le tendenze degli ultimi anni con autori sorprendenti quali, per esempio, Ali Smith, Sally Rooney, Eimear McBride, solo per citarne alcune. Nei racconti di McGahern quella con l’Irlanda – quella stessa che lo censurò e lo costrinse per un periodo ad allontanarsi – è una relazione complessa, intima, mutevole come l’amore. È patria e casa, a cui legare le domande che percorrono tutta la narrazione: restare o andarsene? E come affrontare un complicato ritorno?

Un rapporto complesso che si esplica soprattutto nel confronto tra padri e figli, tema ricorrente in tutta la raccolta, su cui McGahern concentra le sue pagine più intense, con “Ruote” e “Orologio d’oro” gli esempi più significativi per sensibilità, stratificazione, spunti di riflessione. Uomini semplici e ruvidi, incapaci di dare parole ai propri sentimenti, spesso orgogliosi e distanti, su cui l’autore costruisce il proprio personale scenario di incomprensioni, solitudini e mancanze, talvolta acuite da una lontananza fisica e anche in questo caso legata alla tensione fra andare o restare che, come si diceva, ritorna in tutta la raccolta.

 

«Ma dico, mettiamo che tu vada bene, non ci faresti un pensierino a mollare del tutto questo paese e andartene in America?» […]

«Perché l’America?»

«Bè, è la terra delle opportunità, no? Un grosso paese in espansione. Non c’è spazio per l’ambizione in questo bugigattolo di posto».
(“Corea”, p. 44)

 

Alla spinta ad andarsene, a cercare altrove un’opportunità che la propria casa non sembra poter garantire, si oppone il rancore, il senso di tradimento nei confronti di chi alla terra ha preferito altre vie di affermazione:

 

Mio padre non mi aveva mai perdonato per aver colto l’occasione di andare all’università. Avrebbe voluto che rimanessi a casa a lavorare alla terra. Avevo sempre combattuto il suo bisogno di tramutare il mio rifiuto in tradimento […].

(“Orologio d’oro”, p. 122)

 

Le parole sono importanti, soprattutto in un racconto: “tradimento” non è un termine scelto con leggerezza. E spiega da solo la complessità di un rapporto padre-figlio come quello rappresentato dai protagonisti di “Orologio d’oro”.

Lo sguardo di McGahern si concentra sulla vulnerabilità, sul silenzio e le distanze che sembrano impossibili da colmare, sull’umana fragilità e sulla ricerca di una felicità possibile di cui ogni pagina, ogni parola è pervasa. Pagine scolpite da una prosa elegante, che poco indugia nel gergale, piana e immediata, illuminata da brevi istanti di lirismo quasi sempre legati alla descrizione dell’ambiente, alla luce – una delle “ossessioni” di McGahern – al mutare della campagna nell’alternanza delle stagioni e del lavoro. Ambiente che è ben più di semplice sfondo, ma parte integrante della narrazione, del personaggio stesso; anzi lo accompagna, mutevole per sua natura, nelle solitarie riflessioni, nel quotidiano tra lavori e fatiche, nei silenzi. Umanissimi nelle loro fragilità e dubbi, i personaggi di McGahern si confrontano con i limiti dell’esistenza, con la complessità delle relazioni, con le distanze e la perdita, con la morte, ovviamente; la caducità umana, il ricordo, la malinconia, occupano la riflessione intima e sentita di preti di campagna, figli che hanno preso le distanze, uomini soli che tentano di venire a patti con quel senso di finitezza.
E, ancora, con la domanda che sembra percorrere tutta la narrazione, se un certo grado di felicità sia possibile anche sotto il cielo d’Irlanda, tra quelle vite minime, che la letteratura sa rendere straordinarie.

 

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