Documento e invenzione: Il silenzio dei satelliti di Clemens Meyer

di Clemens Meyer Keller editore Traduzione di Roberta Gado e Riccardo Cravero pp. 224 Euro 16,50

di Clemens Meyer
Keller editore
Traduzione di Roberta Gado e Riccardo Cravero
pp. 224 Euro 16,50

di Alfredo Zucchi


La storia delle frizioni tra documento e invenzione è forse la storia stessa della letteratura, si diceva qui. Questo forse indica un orizzonte e un limite: è l’utopia del ruolo della letteratura in società; ed è la constatazione di un’evidenza, come un’autopsia: in questa frizione si trova la letteratura, niente di più.

Clemens Meyer, scrittore nato nel 1977 a Halle nell’allora DDR, sembra consapevole di entrambi gli elementi del dualismo: il limite e l’orizzonte. Ne Il silenzio dei satelliti, libro di racconti uscito in Germania nel 2017 e pubblicato in Italia da Keller nel febbraio 2019, per la traduzione di Roberta Gado e Riccardo Cravero, emergono a più riprese, come leitmotiv ostinati e quasi involontari – come la voce insistente della realtà – temi legati alla crisi migratoria che ha investito l’Europa, e in particolare la Germania quale paese di destinazione dei rifugiati e dei richiedenti asilo, a partire dal 2013, e che ha coinvolto principalmente le popolazioni in fuga dal conflitto siriano.

Espressioni quali “stranieri del cazzo” e “i cazzo di stranieri, come li chiamavano noi” tornano in vari racconti; il tema dell’integrazione della comunità di fede musulmana nelle città tedesche, inoltre, informa il testo che dà il titolo alla raccolta. Il documento, dunque, prende la forma, in questo libro, di tensioni socio-politiche attuali.

“Aveva i capelli castani, né lunghi né corti, e il viso chiarissimo, anche la pelle delle mani era quasi bianca, per un attimo pensai che magari lavorava al centro di accoglienza dato che non aveva la carnagione scura degli “stranieri del cazzo” come li chiamavano i colleghi, certe volte usavo anch’io quell’espressione, quando bevevamo il caffè tra la fine del mio turno e l’inizio del successivo, appunto come capita di fare per non sembrare deboli, anche se io contro gli stranieri non avevo niente”
(“Vetri rotti nell’oggetto 95”, p.18).
 

In che modo queste tensioni investono la narrazione? Meyer non sfugge alla domanda, al contrario la tematizza:

“E che io pensi a lei, alle serate insieme sulle scale, al giorno che restava chiaro fino a tardi, allo spegnersi delle luci dei satelliti, alla mia occhiata dalla porta socchiusa della moschea femminile, a quella notte in particolare, non ha niente a che vedere col fatto che tutta ’sta questione religiosa, o comunque vogliamo chiamarla, sia tornata di colpo attuale. Cosa sarà mai attuale? L’attualità è una leggenda e un concetto radicalmente sbagliato, siamo sempre da tutt’altra parte, e so di cosa parlo perché gestisco un chiosco, in una casetta piatta con la tettoia che una volta era un distributore di benzina”
(“Il silenzio dei satelliti”, p. 130).

“L’attualità è una leggenda”: l’apparente irrefutabilità con cui le tensioni socio-politiche della contemporaneità entrano nei testi costringe, di volta in volta, il narratore a dare un passo di lato, a deviare lo sguardo. Il riposizionamento del narratore e dei personaggi del libro rispetto alle voci dell’attualità – aggressive e autoritarie come solo la sedicente evidenza può esserlo – produce uno scarto; in questo scarto il narratore scopre una dimensione intimamente vaga eppure familiare, al cui interno il suo sguardo non può fare a meno di sprofondare.

Ne “Lo spiraglio”, ad esempio, il personaggio principale, di ritorno in casa, constata di essere stato derubato. Tuttavia davanti all’insistenza del fabbro che gli sta rifacendo la serratura, il narratore rifiuta l’evidenza:

“Possibile che il fabbro non potesse starsene buono, sostituire la serratura e basta? Lui si era messo in corridoio, aveva chiuso tutte le porte ed era rimasto a guardarlo trafficare con vari attrezzi chino sulla soglia, prima alla serratura e poi allo stipite. «Se ha fortuna rispunta fuori qualcosa… Di solito però no. Non ci spererei». «Non manca niente» ripeté lui, ma il fabbro continuava a parlare. «Lei non è mica il primo, stanno facendo il giro del quartiere, di tutta la città. Gente di fuori, glielo dico io. Stranieri del cazzo». «Gliel’ho detto che… Li ho sorpresi. Non sono nemmeno riusciti a entrarci, in casa»”
(p. 85).

Il rifiuto dell’evidenza innesca un movimento che spinge il personaggio a esplorare una regione diversa: ambigua, ignota eppure stranamente riconoscibile.

“‘Bande organizzate’, aveva letto sul giornale, ‘Gente di fuori, stranieri del cazzo’, gli aveva detto il fabbro. […] Quando era sceso dall’autobus vicino al ponte ed era tornato indietro a piedi aveva incrociato quella strada larga con i binari che correvano dietro le file di case. “Che diavolo succede qui?” si era chiesto. Esplosioni di luce dalle porte aperte delle sale giochi, strisce di verde lungo la via con tizi sulle panchine che lo guardavano storto, e lui si era messo a correre. Perché a correre? E mentre correva, con la coda dell’occhio aveva visto un gabbiotto illuminato sul bordo della strada, accanto al marciapiede, con le pareti di vetro come la guardiola di un parcheggiatore, e dei tizi in uniforme dietro i vetri che scrutavano nella notte, in alto sul tettuccio la scritta bianca e verde POLIZEI. Perché non aveva cercato rifugio lì, si era chiesto più tardi, seduto sulle scale della vecchia casa cadente. Una specie di avamposto. Bande organizzate. «Stranieri del cazzo» disse forte sulle scale. Poco prima si era fermato davanti a un rigattiere credendo di riconoscere dentro il negozio la sua bicicletta. Tra le altre biciclette. Poi vedendo i due drogati secchi nel riflesso della vetrina aveva proseguito, loro erano scomparsi ed erano spuntati altri tizi che l’avevano incalzato, inseguito…
«Sei tu, bambino mio?»
Trasalì. Doveva essersi addormentato un momento. Sulle scale si erano accese le luci, sopra di lui era spuntata una donna anziana. Portava una specie di rete sui capelli e lo guardava ammiccando dietro grandi lenti affumicate. Lui non immaginava che nella vecchia casa cadente abitasse ancora qualcuno” (“Lo spiraglio, pp. 88-90).

 

I leitmotiv e le urgenze politiche del presente, ne Il silenzio dei satelliti, rappresentano un vettore di straniamento che innesca un movimento verso il basso, verso una regione ambigua in cui desiderio e memoria sembrano compenetrarsi e confondersi. Questo movimento di discesa ha una forte corrispondenza nelle strutture narrative dei singoli racconti: una volta innescato, infatti, esso genera una sovrapposizione e un mescolamento dei piani temporali. Questa sovrapposizione a sua volta produce l’apparizione improvvisa di frammenti testuali (per lo più dialoghi) provenienti da un tempo diverso da quello della narrazione – frammenti che, insinuandosi nel tessuto narrativo come se provenissero da un altro tempo o da un’altra dimensione, indirizzano e danno forma alla narrazione.

“Anche quella notte la tranvia attraversò i miei sogni. La linea aerea era congelata, piccoli lampi elettrici crepitavano tra il cavo superiore e il pantografo sul tetto del vagone. Sulla vettura vuota erano in tre: Karli, lei e il vecchio. La cosa strana è che lui restava vecchio anche nei sogni. Sembrava un po’ più alto, un po’ più robusto, ma la faccia era comunque vecchia. Viaggiavano con il vagone estivo, quello aperto, e tra noi soffiava un vento gelido. Sì, perché adesso c’ero anch’io sulla tranvia a mare, non la vedevo più dall’esterno come a volte si osserva e segue tutto nei sogni, quasi si fosse ubiqui. Ero salito a una delle fermate, segnalata da un cartello con l’orario delle corse piantato nella sabbia della spiaggia, e mi ero seduto in fondo al vagone a osservare gli altri tre. Lei all’inizio era dietro di lui e poi si spostava accanto al banco di guida, mentre il piccolo Karli correva per la vettura con l’uniforme troppo larga e le maniche rimboccate raccontando qualcosa, barzellette e battute di cui rideva lui per primo in continuazione. Sigarette e cioccolata. Mi faceva l’occhiolino da sotto la visiera blu del berretto, «biglietti prego, controllo biglietti!», e ricominciava a correre per il vagone fingendo di non vederci per via del berretto e di andare a sbattere contro i sedili, proseguiva barcollando, lo sentivo ridere e ridere.
«E sai perché me lo ricordo così bene?»
«Cosa?» chiesi. Eravamo di nuovo, o ancora, seduti al molo,
piovigginava, il cielo era coperto di nuvole che sfilavano sul mare raggomitolate nelle formazioni più strane, sebbene a riva il vento si sentisse appena”
(“L’ultima corsa della tranvia a mare”, pp. 70-71, i corsivi sono miei).

Solo allora, innescato questo movimento discendente, lo sguardo del narratore affonda nella regione in cui la temporalità diventa secondaria, in cui ciò che più conta è adeguarsi alla persistenza di una traccia: una volta giunti lì, abbracciare l’unità della traccia è più importante che provare a ricondurla a una causalità temporale ordinata e lineare. Il documento – la pressione dell’attualità, del presente – costringe l’invenzione a mostrarsi per quello che è: puro desiderio; e a mostrare il suo campo di gioco: la memoria e l’immaginazione.

Meyer esplora questa regione – ambigua e familiare, patrimonio di tutti e di nessuno – con maestria e delicatezza, adeguando lo sguardo alle fattezze dello spazio in cui la voce narrante di volta in volta sprofonda. Tuttavia, spesso, le chiuse dei racconti risultano forzatamente vaghe: i finali sospesi sembrano dichiarazioni di resa al carattere inafferrabile della regione che le voci narranti si trovano a esplorare. Due notevoli eccezioni sono rappresentate dai racconti “L’ultima corsa della tranvia a mare” e “Lo spiraglio”, in cui invece le barriere tra l’osservatore e l’oggetto dell’osservazione, tra misurante e misurato, crollano del tutto, e l’ambiguità diventa la voce stessa della chiusa.

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