Le stelle nere, di Giulia Oglialoro

Industria&Letteratura porta in libreria un nuovo Invisibile, la sofisticata collana di narrativa breve curata da Martino Baldi, con il testo di Giulia Oglialoro Le stelle nere, vincitore del Premio Ceppo Under 35, opera prima. Il libro è pubblicato col sostegno del Premio e della Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia.
Un esordio di rara potenza narrativa e immaginifica che sin da subito rivela le stimmate di una scrittrice dalla voce inconfondibile.

Cattedrale vi propone l’incipit del libro, per gentile concessione dell’editore.



Le stelle nere
di Giulia Oglialoro


Le braccia tese in alto, verso il soffitto di legni intrecciati, attraverso cui risplendono le stelle. La testa di poco reclinata indietro, il collo nudo avvolto dal vento che spira alle sue spalle. La schiena dritta di pietra levigata, le gambe inscalfibili, una davanti all’altra, restano i piedi a contenere lo slancio, a chiudere come sigilli un corpo che può diventare qualsiasi cosa. Il piede destro, davanti, rivolto a est, quello sinistro rivolto a ovest, due aperture, due direzioni possibili per un tronco teso che sembra non aver mai conosciuto separazione. Gli spettatori stanno per arrivare, non può vederli ma i loro bisbigli riempiono il buio – dove siederanno? Forse proprio qui, accanto a lei, lungo il palco che si estende ovunque, senza direzione. Agnes. Ecco un primo accordo, lascia un’eco di cristallo. Il braccio destro inizia a scendere, lentamente. Come se non fosse davvero la gravità a richiamarlo, ma fluttuasse nel vento, in questo vento che spira alle sue spalle. Agnes. Il velluto che la ricopre per intero prende a scintillare; la sua pelle è lunare, il vento è sempre più freddo. Il braccio discende ancora, inizia a disfarsi. Inizia dalla punta delle dita, e poi via via i palmi, i polsi, e non c’è altro che questa carne lucente che scompare, si disperde in polvere.
«Agnes».
Apre gli occhi. Nell’oscurità riconosce la voce di Ester.
«L’uomo è qui».
Si rialza dal giaciglio in cui si è accasciata, scavato fra due rocce. Le gambe stanchissime, ancora contratte dalla fatica. Ester la prende per mano; impugnando le torce si fanno spazio tra i cumuli di pietre, nel vento che spira in ogni direzione. Ogni cosa a quest’altezza sembra essersi ritirata, il mondo potrebbe non aver mai avuto inizio. Nessuna luce in lontananza ad annunciare una città oltre la valle, soltanto il cielo buio richiuso come una palpebra sul mondo, e rocce altissime, ovunque guardi, orlate a tratti da scintille di neve. Un odore umido e minerale le riempie i polmoni, come se risalire la montagna fosse stato anche precipitare dentro la terra.
«Wo ist er?»
L’uomo si rivolge a Ester con un accento affilato che Agnes non ha mai sentito prima. «Lei parla solo polacco». Agnes ha una mano sulla spalla della ragazza ora. «Non può capirti».
Avverte il calore della lanterna avvicinarsi al viso. Nella luce fioca e instabile intuisce la pelle bianca dell’uomo, gli occhi privi di ogni colore.
«Dov’è il soldato che guidava il furgone?»
«Ci ha lasciate alla fine del bosco». Parlano così vicini che ad Agnes sembra di poter percepire il tabacco nel suo fiato.
«Ha detto che da quel punto in poi avremmo dovuto proseguire sole. E poi di aspettarti in cima».
L’uomo affila lo sguardo. «Avete incontrato le guardie di frontiera?»
Del viaggio Agnes ricorda solo dettagli scombinati – l’impressione del suo corpo stretto insieme a quello di Ester, lo stridore ghiacciato dei rami contro i finestrini, la luce corpuscolare che trapassava dal telo steso sopra le loro teste. Quando il convoglio aveva smesso di sobbalzare, lo spazio si era riempito di voci straniere: allora si era resa conto del silenzio che possono produrre due corpi assieme quando smettono di respirare. Per un attimo, aveva ripensato alle scene a cui aveva assistito molte volte, in una vita e in una terra lontanissime: il volto dell’animale premuto sul tavolo, la tenue peluria bianca che scintillava sotto il sole, mentre le mani grandi di sua madre assestavano l’ultimo colpo. Si era chiesta se era questo che percepivano gli agnelli della fattoria negli ultimi istanti di vita – il mondo ridotto a presenze striscianti, ombre liquide alla periferia degli occhi.
«Il furgone si è fermato una sola volta prima di lasciarci. Si sono avvicinati degli uomini, ma non ho sentito cosa dicessero».
L’uomo sibila imprecazioni che Agnes non coglie per intero; parole rovinate e appuntite come schegge. Adesso non lo guarda più: tiene gli occhi fissi sui bottoni della sua giacca, tutti diversi e graffiati, minuscoli astri in ottone che scintillano con la luce della lanterna.
«Gli accordi erano che avrei ricevuto l’altra metà del pagamento in cima, e poi vi avrei accompagnate». L’uomo scuote la testa; alcuni fiocchi di neve volteggiano nel vento. «Aprite gli zaini».
Agnes lascia cadere per prima la sacca che si porta sulle spalle: del rovistare dell’uomo non coglie altro che piccoli clangori, lo sfiorarsi dei vetri delle conserve preparate nelle settimane precedenti; avanzi sottratti agli sguardi ubriachi delle guardie del campo, quando si offriva di ripulire e sparecchiare le lunghe tavolate. Lodavano la sua energica disponibilità in una lingua che Agnes comprendeva solo a tratti. «Thank you, sir», rispondeva senza sorridere, raccogliendo le pile di piatti tra le braccia; talvolta si defilava con un passo di lato, sfuggendo alle mani che si aggrappavano ai suoi fianchi, e alle dichiarazioni biascicate che promettevano di portarla via dall’Austria. Nei giorni precedenti alla partenza, tutta la rabbia covata nei mesi si era trasformata in diligente organizzazione: provava persino un certo gusto nel disossare i polli avanzati dai soldati, pelare i pomodori lasciati intoccati dopo un solo morso, cuocere le bucce di patate che avrebbero buttato. Ora le scorte preparate con attenzione lasciano solo smorfie di disgusto nel volto dell’uomo: affonda gli scarponi nella neve, fruga nelle loro sacche, scuotendo la testa, i vetri appaiono e scompaiono nella luce sfarfallante. E poi Agnes avverte le mani di lui scivolare lungo i sottili pantaloni di tela, inumiditi dalla neve; nervose come animali, affondano nelle tasche per estrarne solo polvere e fazzoletti consunti. E quando schiudono i bottoni della giacca, Agnes smette di respirare.
«Non troverai nulla». La voce di Ester risuona ferma e gelida come il vento. «Quello che avevamo, l’abbiamo venduto per pagare il viaggio».
Guarda l’uomo per un tempo che ad Agnes sembra infinito, come se fosse certa che lui, questa volta, potesse capirla. La neve non smette di cadere.
«Spegnete le luci. D’ora in poi proseguiremo al buio».