A proposito dei racconti, di BERNARDO ATXAGA

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Obabakoak, ossia storie di Obaba, pubblicato da 21Lettere e tradotto da Sonia Piloto di Capri, è un classico della letteratura mondiale. Una raccolta di storie incentrate sulle storie, sull’atto creativo del raccontare e su quello del ricordare, sul processo di immaginarle e sul misterioso legame tra queste e la realtà. Gioia letteraria che con ironica maestria e delicatezza si riflette nei personaggi. Una dichiarazione d’amore per la letteratura e l'umanità.

Cattedrale vi propone uno dei racconti, per gentile concessione dell’editore.


A proposito dei racconti
di Bernardo Atxaga

Dopo aver ascoltato il racconto del servo, il mio amico rimase pensoso. Teneva gli occhi fissi sulla tazzina del caffè, come chi voglia leggere il futuro nei suoi fondi.
“Sono anch’io dell’opinione di Boris Karloff. È un bel racconto”, disse poi. E, come in ogni conversazione notturna degna di questo nome, quel commento portava con sé una domanda un po’ metafisica e di non facile risposta: “Perché è bello? Cosa serve a un racconto per essere bello?”
“Io conosco un racconto moltissimo migliore”, esclamò qualcuno vicino a noi con accento straniero. Sorpresi dalla presenza di un testimone inatteso, io e il mio amico voltammo la testa.
“Sono io”, ci disse allora. Ma non lo conoscevamo per niente. Era un uomo di una certa età, con la barba e i capelli bianchi. Benché fosse chino su di noi e quasi piegato in due, mi pareva molto alto; doveva essere sui due metri. “Io conosco un racconto moltissimo migliore”, ripeté. Il suo fiato puzzava di whisky.
“Allora raccontacelo”, lo incoraggiammo. Mi domandavo di che paese potesse essere quell’individuo. La foggia dei suoi abiti lo faceva straniero.
Alzò la mano con solennità e ci chiese di aspettare un momento. Mentre si avviava al bancone notai che con la testa e anche con il collo superava la media dei clienti dell’autogrill. Era davvero molto alto.
“Sarà meglio andare in qualche altro posto”, dissi al mio amico. Altrimenti non avremmo potuto parlare con tranquillità delle nostre cose.
Quel nonno dalla testa bianca aveva l’aria di essere un tipo interessante, ma sembrava piuttosto sbronzo. Inoltre, dovevamo proseguire per Obaba. “Hai già parlato con tuo zio di Montevideo? Lo sa che ci sarò anch’io?”
“Sì, l’ho già avvisato. È rimasto molto contento quando gli ho detto che anche tu avresti letto qualcosa. Sai com’è. Più vittime ha, più se la spassa”.
“Allora dovremmo ritirarci presto. Domani la giornata sarà dura”.
“Andiamocene subito”, approvai ridendo.
Ma l’uomo alto era già di ritorno. Ora aveva il cappello e teneva in mano un bicchiere di whisky.
“Il mio racconto è molto interessante. Lo dico per davvero”, insistette. Quando fece per sedersi, inciampò e ci cadde addosso.
“I’m sorry”, si scusò.
“Siamo tutt’orecchi”, gli disse il mio amico. L’uomo tirò fuori dalla tasca della giacca un piccolo registratore e lo depose sul tavolo.
“Il racconto s’intitola Il monkey di Montevideo. O, meglio, La scimmia di Montevideo”, affermò dopo aver premuto il tasto per registrare.
Ma non poté proseguire. Aveva la lingua spessa e le parole — alcune in inglese — gli si impastavano in bocca. Spense il registratore con un sospiro.
“Non si può”, si scusò, portandosi più volte le mani alle orecchie.
“Sì, è vero. Qui c’è molto rumore”, gli disse il mio amico alzandosi dalla sedia. “E poi dobbiamo andarcene. Sarà per un’altra volta”.
“It’s a pity”, ci disse quando tutti e tre eravamo in piedi.
“Eh, sì. Ma che possiamo farci! Chissà che non ci si riveda. Saremo ben lieti di ascoltare il suo racconto”. Ero tentato di invitarlo alla sessione di lettura che qualche ora dopo avremmo tenuto a Obaba, ma — benché questo genere di iniziative a sorpresa di solito piacesse molto a mio zio — alla fine non osai. La sua propensione al bere mi spaventava un po’. Giunti al bancone, il cameriere ci disse che la nostra consumazione era già stata pagata.
Con un cenno di saluto ringraziammo il nonno dalla testa bianca, e lui ci rispose portando la mano alla falda del cappello. Quindi uscimmo dall’autogrill e ci dirigemmo alla macchina.
“Eravamo rimasti alle caratteristiche di un bel racconto”, disse il mio amico, quando non avevamo ancora percorso un chilometro d’autostrada. Era chiaro che quell’argomento gli stava a cuore.
Lo presi un po’ in giro, scherzando sulla sua passione per i discorsi seri. In realtà, ammiravo molto l’adolescente che, pieno di inquietudini e assolutamente estraneo alle frivolezze, albergava in quel medico. Non sembrava affatto una persona di fine XX secolo.
“Potremmo iniziare rievocandone alcuni che ci sembrano belli, per verificare se ci troviamo d’accordo sulla qualità”, gli proposi, mentre abbassavo le luci per non abbagliare la Lancia rossa che ci aveva appena sorpassato.
“Mi è sembrato Ismael”, disse il mio amico.
“Come?”
“Che fosse Ismael quello che guidava la Lancia. Almeno mi è parso”.
“Andrà a Obaba per trascorrervi la domenica, come noi”, gli dissi.
“Te l’avevo detto che la storia del ramarro ci avrebbe riservato ancora delle sorprese”, rise il mio amico. “Come l’altra che ci voleva raccontare il nonno, quella della scimmia di Montevideo. Sono certo che un giorno di questi potremo ascoltarla per intero”.
“E siamo di nuovo al punto di partenza. Sarà bene chiarirci le idee prima che se ne presenti l’occasione. Altrimenti, non potremo dirgli se il suo racconto è bello o brutto, e il nonno si sentirà defraudato”, disse il mio amico. Vedevo che era sempre più eccitato.
“Comincia tu. Indicami un racconto che ti sembra bello”.
“Ne scelgo uno di Čechov”.
E il mio amico mi fece il riassunto di quello intitolato Sonno:
“Varka, una giovane cameriera a servizio in una casa perbene, non poteva mai dormire. Glielo impediva il bebè affidato alle sue cure, un bebè insonne che, per tutta la notte, non smetteva mai di piangere. Lei lo cullava, gli cantava dolci ninnenanne, ma tutto era inutile. Più intenso era il suo desiderio di dormire, più la mancanza di sonno la estenuava, e più il bambino strillava. Così un giorno dopo l’altro; finché una mattina, i genitori del bebè, chinandosi sulla culla per dargli il buon giorno, si accorsero con raccapriccio che…”
Come il mio amico finì, io attaccai con un racconto di Waugh intitolato La breve passeggiata di Mister Loveday:
“Una dama dell’alta società prova compassione per un mite vecchietto dai modi garbati, da venticinque anni internato in un manicomio. Perché lo tenete qui dentro? Sembra una persona così a modo, così normale... dice la signora al medico. Sta qui di sua volontà. È lui che non vuole uscire. Prima doveva essere diverso perché, a quanto c’è stato detto, aveva ucciso una ragazza che se ne andava tranquillamente in bicicletta, senz’alcun motivo. Ora la situazione è cambiata. Dopo tanto tempo, dovrebbe venir dimesso. Allora la dama cerca di convincere il vecchio che fuori starebbe meglio, che la libertà è qualcosa di meraviglioso, e gli offre il suo aiuto per espletare tutte le pratiche necessarie. Non ho molta voglia di uscire di qui, le dice il vecchietto, ma le sue parole mi hanno convinto. Sì, mi pare che non mi farebbe male cambiare aria. Inoltre, c’è una cosa che mi piacerebbe fare. E così, quel mite vecchietto dai modi tanto garbati riacquista la libertà. Ma succede che, poche ore dopo essere uscito, è già di ritorno al manicomio. Nel frattempo, su una strada vicina, un camionista trova una bicicletta gettata a terra, e…”
“Molto bene. Siamo d’accordo. Anche a me sembra un racconto ben riuscito. E ora quello della collana. È di Maupassant. Lo conosci?”
“L’ho letto molto tempo fa”, dissi mentre superavo un tir.
“La protagonista si chiamava Mathilde Loisel, no? Sì, mi pare che questo fosse il suo nome”, cominciò il mio amico.
Ma dovette interrompersi, perché l’autista del tir — seccato per il nostro sorpasso, o con voglia di giocare — accelerò e, facendo un rumore del diavolo, ci accostò sulla sinistra e molto da vicino.
Frenai per lasciargli riprendere vantaggio su di noi. Io e il mio amico avevamo bisogno di silenzio.
“Tanti auguri alla Francia”, gli dicemmo vedendo che la sua targa era francese.
“Anche Mathilde Loisel viveva in Francia. Abitava a Parigi”, proseguì il mio amico. “Nella frivola Parigi del XVIII secolo. Era sposata con un modesto impiegato, un travèt, accanto al quale la sua vita non aveva nulla di eccitante. Capitò che un giorno ricevette un invito per il ballo del ministro Ramponneau. La bella notizia fece sì che Mathilde si deprimesse ancor di più. Desiderava con tutta l’anima partecipare al ballo, ma come ci sarebbe andata? Che vestito si sarebbe messa? Che gioielli avrebbe indossato? Era presa da quelle ansie quando all’improvviso si ricordò di un’amica d’infanzia sposata con un uomo ricco. Che male ci poteva essere se le avesse chiesto in prestito qualche gioiello? Si decise a farlo e ottenne i gioielli. E fra questi c’era una preziosa collana di perle...”
“Ah, sì! Ora mi ricordo. Se non sbaglio, Mathilde, dopo aver ballato tanto da essere sfinita, si accorse che la collana di perle che le aveva dato l’amica era sparita dal suo collo. L’aveva persa...”
“Esattamente. Mathilde aveva perso la collana. Ma non poteva di certo dirlo all’amica. Doveva restituirgliela. Così, ipotecò tutto quanto possedeva, anche la sua vita, per poter comprare un’altra collana”.
“Sì, per lei fu una vera rovina. Dovette lavorare giorno e notte per mettere da parte i soldi del costo della collana. E guarda caso, qualche anno dopo, incontrò per strada la sua amica d’infanzia. E cosa venne a sapere? Che le perle della collana che le aveva prestato erano false, erano di bigiotteria!”
Ti sembrerà incredibile, Mathilde, le disse l’amica, ma da quando tu l’hai portata al ballo, la collana non sembra più la stessa, le perle hanno un colore diverso, come fossero autentiche”.
A questo racconto ne seguì un altro di Schwob, e a quello di Schwob un altro di Chesterton; e così, raccontando storie, uscimmo dall’autostrada e imboccammo il sinuoso percorso che, incuneandosi fra le montagne, conduceva a Obaba. Abbassammo i finestrini dell’auto.
“Da bambino chiamavo questa strada Delle farfalle”, dissi al mio amico.
“Non mi meraviglio”, mi rispose. Illuminate dai fari, un’infinità di farfalle bianche volteggiavano davanti a noi.
“Si direbbe che stia nevicando”, aggiunse il mio amico.
“Da piccoli venivamo spesso da queste parti. In bicicletta, proprio come le ragazze del racconto di Waugh. Passavamo l’estate in bicicletta”, ricordai.
“Perché mai ci saranno tante farfalle?” volle sapere il mio amico.
“Credo che questa varietà si nutra di menta. Nel bosco che ora stiamo attraversando, la menta cresce in abbondanza. Immagino sarà per questo”.
A riprova di quello che avevo appena detto, misi la testa fuori dal finestrino e aspirai con forza la tiepida aria estiva. Sì, effettivamente quei boschi odoravano ancora di menta.
Per due o tre chilometri rimanemmo in silenzio, ciascuno assorto nei propri pensieri, osservando le farfalle, scrutando i fremiti del bosco. Ogni tanto, nei tratti di strada più aperti, si scorgevano le luci delle case alle pendici dei monti, lontane, solitarie, nitide.
Quando mancava solo una mezz’oretta per arrivare a Obaba, vedemmo formarsi in cielo, fra le stelle, una nuvoletta. Alla nuvoletta seguì il botto di un fuoco d’artificio.
“C’è una festa in qualche paese qui intorno”, dedusse il mio amico.
“Da quella parte lì”, gli feci notare, indicandogli un campanile il cui profilo si stagliava al di sopra del bosco. “Sembra che alle farfalle non piacciano le feste. Guarda, sono scomparse”.
Il mio amico aveva ragione. In quel momento, i fari dell’auto illuminavano solo le bandierine colorate che ornavano la strada.
Parcheggiammo la macchina all’entrata del paese, su un poggio. Da lì, come dall’alto di un balcone, dominavamo tutta la piazza e si poteva osservare il ballo. La musica dell’orchestrina ci giungeva a intervalli, secondo le folate del vento.
“Allora, a che punto eravamo rimasti a proposito dei racconti?” domandò il mio amico.
Non voleva mescolarsi fra la folla prima di avere almeno un po’ chiarito la questione. E, a dire il vero, a me capitava esattamente la stessa cosa. Si stava molto bene su quel poggio. Veniva voglia di sognare a occhi aperti e di fumare.
Ci fermammo un bel po’ senza smettere di analizzare con molta calma cosa si proponessero autori tanto bravi come Čechov, Waugh o Maupassant, al momento di scrivere i loro racconti; e, traendo le nostre conclusioni, credevamo di avere individuato quelle che sembravano le peculiarità del genere. Avevamo la sensazione di aver avuto un dialogo molto proficuo.
Innanzitutto, ci pareva evidente il parallelismo che esiste fra il racconto e la poesia. Come disse il mio amico, riassumendo quanto si era detto, sia il racconto che la poesia derivano dalla tradizione orale, quindi sono sempre brevi. Inoltre, e probabilmente per queste implicazioni, devono rispondere al requisito di essere densi di significato. Prova ne sia che i brutti racconti e le brutte poesie risultano, come scrisse qualcuno, vani, vuoti e miserevoli.
“Visti in questa luce, la chiave non sta nell’inventare una storia”, concluse il mio amico. “In realtà, di storie ce ne sono in abbondanza. La chiave sta nell’occhio dell’autore, nel suo modo di vedere le cose. Se è capace, prenderà come materiale la sua esperienza, nella quale coglierà qualcosa di essenziale, e dalla quale estrarrà qualcosa di valido per chiunque. Se è incapace, non supererà mai la frontiera del meramente aneddotico. Per questo i racconti che oggi abbiamo rievocato sono belli. Perché esprimono cose essenziali, non semplici aneddoti”.
L’orchestrina che animava la festa stava suonando un pezzo sentimentale, molto lento. Le coppie che poco prima si erano scatenate, ora ballavano abbracciate, quasi senza muoversi.
“Per questo si sono scritti tanti racconti su grandi temi”, lo assecondai, riprendendo il filo della conversazione. “Voglio dire che ruotano sempre attorno a temi come la morte, l’amore e altre cose simili. Un po’ come capita anche con le canzoni, tanto per fare un esempio”.
“Valentino non ti ha dato qualcosa su questo argomento?” mi disse.
“Chi? Quello che vive ad Alaro?”
“Proprio lui”.
Il mio amico si riferiva a uno scrittore con cui ci incontravamo spesso.
“È vero!” mi ricordai. “Mi ha mandato una pubblicazione di Foster Harris. Se non mi sbaglio”, continuai, “Harris ha una teoria molto curiosa a proposito del racconto. Secondo lui, il racconto non sarebbe altro che una semplice operazione di aritmetica. Ma non un’operazione di cifre, beninteso, bensì a base di somme e sottrazioni di elementi quali amore, odio, speranza, desiderio, onore e via di seguito. La storia di Abramo e Isacco, per esempio, sarebbe una somma di pietà più amore filiale. Quella di Eva, invece, una perfetta sottrazione, amore verso Dio meno amore per il mondo. Harris sostiene, inoltre, che le somme, di solito, siano a lieto fine, e le sottrazioni diano origine a finali tragici”.
“In fondo, dice le stesse cose che diciamo noi, no?”
“Sì, ma la sua teoria è ancora più riduttiva. A ogni modo, chi lo può sapere. Magari non siamo altro che degli infelici dominati dall’aritmetica più elementare”.
“Eppure, non credo che quanto abbiamo detto sia esaustivo. Un’occhiata non basta a catturare l’essenziale.
Un buon racconto ha bisogno anche di un finale forte.
Così almeno mi pare”, sostenne il mio amico.
“Anche a me pare che un buon finale sia imprescindibile. Un finale che sia conseguenza di ciò che precede. E questa esigenza spiegherebbe, credo, l’abbondanza di racconti che terminano con una morte. Perché la morte è un evento definitivo, assoluto”.
“Senz’alcun dubbio. Considera il racconto di Čechov, o di Waugh, o quello del servo di Baghdad che mi hai raccontato nell’autogrill. Sono tutti ricchi di significato, e hanno un finale molto forte. Quello di Baghdad mi ricorda quanto è accaduto a García Lorca. Fuggì da Madrid perché temeva che lo avrebbero ucciso, poi... un racconto profetico, molto bello. Per me, il migliore della notte”.
Sorrisi nell’ascoltare le parole del mio amico. Finalmente accennava alla storia che gli avevo raccontato nell’autogrill. Era quindi giunto il momento di tirar fuori l’asso che avevo nella manica.
“Sì, indubbiamente è bello. Comunque, io gli cambierei il finale. Non mi piace tutto quel fatalismo”, gli dissi.
Il mio amico fece una faccia stupita.
“Sto parlando seriamente. Non mi piace il fatalismo di quel racconto. Mi sembra di un determinismo implacabile che si riflette anche sulla concezione che la vita sia come un tiro di dadi. Quello che vuole dirci è che al momento della nascita, il nostro destino è già segnato: lo si voglia o meno. La morte viene per noi? Allora non ci resta altra risorsa che morire”.
Stringendosi nelle spalle, il mio amico mi fece capire che non vedeva altra alternativa.
“Come vuoi. Ma mi pare che sia l’unico finale possibile per quel racconto”, volle chiarire.
“Beh, io gliene ho dato un altro”.
“Vuoi dire che hai scritto una variante del racconto?” disse inarcando le sopracciglia.
“Proprio. Ce l’ho qui”.
E da una cartelletta che tenevo sul sedile dell’auto tirai fuori due fogli fittamente scritti.
Il mio amico scoppiò a ridere.
“Ah, ah! Ora capisco. Quando hai attaccato con i gusti letterari di Boris Karloff e tutto il resto avrei dovuto immaginarlo. Stavamo parlando dei ramarri e degli andazzi di Ismael e, di colpo, ecco che cambi argomento senza alcuna ragione. Certo! Morivi dalla voglia di mostrarmi quello che avevi scritto. È incredibile! Non cambierai mai!”
Le sue ultime parole facevano riferimento alla mia cattiva fama. Tutti i miei amici erano dello stesso parere nel ritenermi capace di qualunque stratagemma pur di avere l’occasione di leggere i miei lavori.
“Signore, perdona questo tuo incorreggibile servo!” dissi levando gli occhi al cielo.
“E va bene. Ma prima andiamo in piazza. Sono disposto ad ascoltare la tua variazione solo con una birra in mano”, propose il mio amico.
“Mi sa che dovrò pagarla io la birra”.
“Sicuro”.
“Che dura è la vita dello scrittore! Bisogna persino corrompere la gente per poter lavorare”, esclamai prima di scendere dalla macchina.
In piazza vedemmo che i musicisti dell’orchestrina si stavano ritirando per una pausa, e che un fisarmonicista li sostituiva sul palco. La gente ora si accalcava negli unici due o tre bar vicini, ridendo e parlando ad alta voce.
Procurarci da bere ci riuscì quasi più difficile che definire le peculiarità dei racconti. Finalmente ce la facemmo e — visto che per sedersi c’erano solo delle panchine sul viale del cimitero — ci allontanammo in fretta e furia da quella baraonda.
Eravamo contenti. La nostra nottata stava sempre più somigliando a quella che in Inghilterra i membri dell’Other Society celebrano una volta all’anno. L’unica differenza era che non ci riunivamo all’Hotel Piccadilly, e che i nostri racconti — almeno in un certo senso — non erano gotici.
Giunto a questo punto del cammino, faccio una nuova sosta e passo a trascrivere la variazione che raccontai al mio amico. Il viaggio verso l’ultima parola proseguirà dopo.

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