Giavasco, di Daniela Gambaro

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Nutrimenti pubblica l’opera prima di Daniela Gambaro, Dieci storie quasi vere, una raccolta menzionata con merito al Premio Calvino 2019.
Dieci storie possibili, dieci sguardi sul quotidiano di famiglie, coppie, madri, bambini. Dieci racconti scritti con una penna leggera e precisa, capace di narrare anche le cose più difficili, quelle terribili e scomode che sono così reali, da essere quasi vere.

Cattedrale pubblica il primo racconto della raccolta, per gentile concessione dell’editore.

Giavasco

Tua madre ti porta in centro a comprare le scarpe nuove e ti ripete più e più volte di accertarti che la misura sia quella giusta.
Quando tu e tua madre arrivate a casa, tu dici: “Forse l’unghia del ditone mi batte in punta”, ti togli le scarpe nuove e corri a piedi nudi. Non fai caso alle pietre, ai sassi insidiosi, alla gramigna tagliente, pensi solo a correre e mentre tua madre, riflettendo sulla difficoltà della restituzione delle scarpe utilizzate incongruamente nel tragitto negozio-casa, ti urla: “Te le faccio leccare finché non sono nuove, capito?”, tu continui, anche se la sua voce ti dà i brividi lungo la schiena (ricordi quella volta che una lucertola ti ha percorso da testa a piedi?), esci dal viottolo e ti infili nel giavasco: fresco, frusciante, gentile e sicuro come una fortezza. Ti fai strada nel fitto, all’interno, tra le sue mura verdi e premurose. Ci sono le bisce? Io non le ho mai viste. Ci buttano le siringhe? Io non ne ho mai trovate. Si prendono le malattie? Io non ho mai preso niente. Bene, tu conosci il giavasco meglio di me, sai che costeggia le case: casa mia, poi casa tua e di tua cugina, le casette a schiera ombreggiate dai pini e avanti fino al cancello dell’obitorio. Se arrivi all’obitorio sei salvo, tua madre non ti cercherà mai fin là; ti siedi e respiri.
Nel giavasco, tra l’erba alta e le ortiche, una volta mi dici: “Mio padre ha i calendari con le donne nude. Sono bellissime. C’è uno che lecca la passera a una tipa. E lei non ha i peli, neanche uno”. Ti dico che, se è per questo, nemmeno io ce li ho, ma la cosa non ti importa granché perché io sono la tua migliore amica. “Lo vuoi vedere?”, mi dici raggiante all’idea di condividere con me quel tesoro di famiglia.
Ci infiliamo di nascosto nell’officina di tuo padre: odore di grasso e di gas di scarico, striature oleose sul cemento grezzo del pavimento, penombra e stracci bisunti dappertutto. A me questa foto non interessa per niente, anzi mi fa un po’ paura, e tengo gli occhi bassi per non incontrarla, studiando una crepa nel pavimento.
“Non c’è più”, mi dici sconcertato indicando il muro vuoto, e per tutto il pomeriggio sei mogio e deluso come chi non ha mantenuto una promessa.
“Pensi che anche i tuoi genitori o i miei lo fanno?”, ti chiedo, sperando che riaprire l’argomento ti possa tirare su il morale.
“Certo”, dici serio, “e anch’io voglio farlo quando ho la morosa”.
Nella mia vita ho conosciuto alcuni artisti, li ho visti ragionare e poi come per magia collegare monadi di pensiero e creare mondi inesplorati, dotati di regole proprie e confini. Eppure conosco l’emozione del principio creativo perché tu me l’hai insegnato.
Se tua madre ti dice di non usare la bicicletta di tuo fratello che è troppo grande per te e tu la prendi, è ovvio che la giornata avrà un sapore interessante e clandestino. Facciamo su e giù nel parco del museo, sui vialetti lucidi di fango, e tu ti diverti a sgommarci sopra, in frenata. Io ti seguo ammirata, incapace di eguagliare le tue prodezze. Poi non so cosa sbagli, la ruota dietro ti parte di lato e tu rotoli sull’asfalto; quando ti alzi al posto delle ginocchia hai due nodi d’albero.
Per qualche secondo restano bianchi e rugosi, poi il sangue comincia ad affiorare e non si ferma più. Io dico “Oddio”, tu dici “Dio sangue”. Io dico “Andiamo in ospedale”, tu dici “Se lo sa mia madre, mi ammazza”. Io dico “Cosa facciamo?”, tu dici “Mi disinfetti tu”.
Inutile obiettare che è troppo profondo, perché la paura di tua madre è più forte di qualsiasi dolore, e aggiungi un logicissimo “Dio male”.
Nella vasca da bagno di casa mia ti faccio zampillare l’acqua ossigenata dentro la ferita, e la vedo friggere nella carne fin contro l’osso, la schiuma frizza e diventa rossa, mentre tu urli e inventi sempre nuove divinità, un olimpo personale, semplice e diretto, che già mi strega. Dio schiuma, dio ossigeno, dio muoio, dio osso, dio basta.
Mia madre torna dal lavoro e nemmeno la sentiamo, quando si affaccia in bagno tu hai quasi perso i sensi ma non la parola. “Dio madre… dio madre”, supplichi mentre ti porta all’ospedale in macchina. E io traduco: la stai ringraziando per non aver chiamato la tua, di madre.
Nel giavasco, lussureggiante e discreto, tu, io, tua cugina e i bambini del vicinato ci raduniamo in segretissime sessioni. Ci caliamo pantaloncini e mutande e confrontiamo le fogge delle reciproche parti intime, apprezzandone similitudini e diversità, nonché cambiamenti nel corso del tempo. Il tutto porta via alcuni minuti e viene eseguito come una routine necessaria e anche rilassante, un quieto intermezzo tra corse e arrampicate. Se ci sono estranei alla cerchia ristretta, la pratica è rimandata. Quello che è naturale tra di noi, diventa imbarazzante in presenza di un compagno o compagna di classe.
Una volta tuo nonno ci scopre e ci insegue con la vanga urlando paonazzo di rabbia: “Schifosi! Onti!”, e noi due per scappare nell’erba che fischia ci ritroviamo acquattati vicini, mezzi nudi, e ci viene da ridere senza potere.
Anche se è luglio il sole cocente non penetra lì sotto. A me batte il cuore all’impazzata mentre tuo nonno ci passa vicino e io vedo la terra sul contorno delle sue unghie. Poi, quando se ne va, tu mi dici serio: “Senti, ci ho pensato. Da grande ti voglio sposare!”.
Mi sembra che il petto mi si apra come a te le ginocchia quando sei caduto, e il sole mi picchia in testa anche se sono all’ombra, capisco che questo è quello che aspetto di sentirmi dire da quando ti conosco, ossia da quella volta che tu e tua cugina mi avete incontrato: io mi ero appena trasferita e non sapevo parlare ancora bene il dialetto, né andare in bicicletta senza mani, né sputare lontano, e per questo, credo, tu e tua cugina non vi sforzavate nemmeno di imparare il mio nome. “Può venire la bambina a giocare?”, chiedevate a mia madre, dopo aver suonato il campanello di casa.
E mi viene in mente un po’ tutto, anche quella volta che tuo nonno aveva messo i gattini appena nati nel sacchetto della Coop e poi l’aveva infilato in un secondo sacchetto sempre della Coop ed era partito in bicicletta verso l’argine del canale, e io singhiozzando ti avevo detto: “Come fai a non piangere?”, e tu mi avevi risposto: “Non posso piangere ogni volta”. E il tuo sguardo sembrava quello di un adulto, di un marito che si preserva, e che insegna alla famiglia come preservarsi.
Poi però mi ricordo del calendario. Se divento tua moglie, devo fare quello che fa la tizia del calendario, tu sei stato chiaro e risoluto: alla morosa farai fare quello che il tizio del calendario fa alla sua compagna senza peli. Ti ho detto che anch’io non ho peli laggiù, e può essere che questo ti abbia fatto riflettere sulla mia possibile candidatura al ruolo. Dio paura, dio amore, dio non posso, dio ho nove anni appena compiuti.
“Io no”, ti dico, tirandomi su i pantaloncini.
“No cosa?”, mi fai.
“Non ti voglio sposare”, ti dico e mi sento salva, leggera, euforica. Nemmeno ti aspetto, corro a cercare gli altri per giocare ad alto-da-terra.
Due mesi dopo inizia la scuola e tu ti innamori di Annalisa, la bambina più bella della classe, che non ha bisogno di correre veloce, saltare giù dai rami degli alberi e imparare il dialetto per piacerti (cosa tra l’altro non facile visto che mia nonna, per contrastare il mio improvviso imbarbarimento, mi sottopone a lezioni di francese: per cui è bosgato o cosciòn? È furscèt o piròn? È giavasco o forè?).
Visto che a nove anni sai già saldare, con la saldatrice di tuo padre costruisci ad Annalisa un portamatite in metallo zincato con il suo nome inciso sopra. Lo stomaco mi si contorce quando vedo la precisione delle saldature e ti immagino a srotolare la bobina del rame e a fonderla, l’odore dolciastro di bruciato che fa. Dio geloso, dio dolore, dio pentimento. Guardo le mie matite che giacciono in un anonimo astuccio con gli elastici e maledico la mia codardia. Che mai poteva succedere se mi facevo fare quello che si faceva fare la tipa del calendario? Annalisa se l’è fatto fare? Eppure non è morta, anzi è uguale a prima, più perfetta di prima, e con tutte le matite in ordine, per di più.
Con l’autunno arrivano gli operai, falciano il giavasco e caricano tutto su un furgone. Dopo di loro arrivano dei camion di sassi, poi le betoniere con l’asfalto e stendono la strada. Tutto ha un aspetto liscio, levigato e ordinato. Finché non cominciano a passare le macchine, possiamo giocare a pallavolo. Chi l’ha mai visto un pallone rimbalzare così? Prima, capace che lo facevi cadere e finiva chissà dove. Nel giavasco ne abbiamo persi un bel po’, di palloni.
“Sai che figo in bicicletta!”, mi dici.
“Già”, ti rispondo.
E mi volto con la speranza di trovare lo stesso sguardo di quando tuo nonno porta ad annegare i gattini: compìto e concentrato nell’impresa adulta di digerire la delusione.
Invece no.
Sorridi sereno, soddisfatto del cambiamento.

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