a cura di Debora Lambruschini
Nel 1987 esce sul numero primaverile della rivista statunitense The Quartely la novella The Age Of Grief, di Jane Smiley; di lì a cinque anni questa autrice nata a Los Angeles ma cresciuta tra Missouri e Iowa, vincerà il Pulitzer Prize per un romanzo dai forti echi shakespeariani, A Thousand Acres. Una lunga carriera, iniziata nel 1980 con la pubblicazione del suo primo libro e passata attraverso narrazioni diverse, dal romanzo, al racconto, alla novella, alla saggistica, letteratura per bambini e ragazzi. E costellata di riconoscimenti critici importanti, il Premio O’Henry per la narrativa breve e appunto il Pulitzer del 1992. Lo scorso anno La Nuova Frontiera ha riportato sugli scaffali italiani il romanzo che le valse il Pulitzer – già apparso per Frassinelli con il titolo La casa delle tre sorelle, poi finito fuori catalogo – con il titolo Erediterai la terra, che ha ricevuto una notevole attenzione da parte di critica e pubblico nostrani e a cui ora fa seguire la novella The Age of Grief, tradotto come L’età del disincanto, da Valentina Muccichini. Da una bibliografia tanto vasta e variegata è particolarmente interessante che la casa editrice abbia selezionato proprio questa storia del 1987, che ha superato brillantemente la prova del tempo e si colloca in una tradizione letteraria consolidata. L’età del disincanto esplora la crisi di una coppia e il rifiuto da parte del marito di affrontare la verità nel tentativo di preservare la famiglia o quantomeno l’idea che ne ha. Narrato dal punto di vista dell’uomo, L’età del disincanto scandaglia dunque le crepe che si allargano sulla facciata di una famiglia borghese – una coppia di dentisti, i sobborghi americani, marito, moglie, tre figlie – il sospetto e l’ossessione crescente dell’uomo che si insinua nella vita quotidiana e la scuote nel profondo. La forma scelta, la novella, è quella ideale per concentrare l’attenzione dell’autrice e del lettore su quel frammento che si dispiega in una narrazione più ampia del racconto ma sempre circoscritta e tesa tra quanto si compie sulla pagina e quanto di altrettanto fondamentale resta sommerso.
L’autrice, in Italia per il Salone del Libro di Torino, mi ha concesso una lunga intervista, nel corso della quale abbiamo parlato di L’età del disincanto, forma breve, teorie letterarie, la curiosità che da sempre la spinge alla scrittura..
Ringraziamo l’autrice, l’editore e l’ufficio stampa per l’opportunità.
Nella sua carriera ha scritto racconti brevi, romanzi per giovani, per bambini, young adult. Parlando L’età del disincanto, mi piacerebbe partire dalla forma, che è quella della novella.
Qual è il suo rapporto con questa forma e come sceglie se scrivere una novella o un romanzo per una storia specifica? Perché in questo caso proprio la novella?
Di solito, se stai scrivendo su un argomento più complicato, allora fai un romanzo, che ha più personaggi, più ambientazioni, più idee. Ma la cosa bella della novella è che – e questa è la cosa che mi piace di questa – puoi concentrarti su una sola cosa e approfondirla. Ma non sarà come una sola cosa, come un racconto breve, sarà qualcosa che indaghi più attentamente.
E questa è quello che mi piace delle novelle. Ne ho scritte solo tre, chissà perché, ma mi piace la forma.
Questo è il suo secondo titolo tradotto in italiano. Il primo, pubblicato in Italia da La Nuova Frontiera, è il romanzo per il quale ha vinto il Premio Pulitzer tanti anni fa, Erediterai la terra. Qual è il suo rapporto con la traduzione? E con i lettori di un altro paese, così diverso dal suo?
Dipende sempre dal traduttore. Perché molte volte il traduttore lo traduce e basta. Ma a volte il traduttore ti consulta e ti chiede cosa intendevi in un punto particolare. Quindi il tuo rapporto con la traduzione varia sempre e speri per il meglio. Voglio dire, leggo libri tradotti da altre lingue tutto il tempo. E li apprezzo perché sono sempre diversi da quello che pensi di sapere su quella cultura. Quindi amo essere tradotta, ma speri sempre per il meglio, vuoi che il traduttore faccia un buon lavoro.
Ma dipende da loro.
Può parlarmi di più del titolo? Il titolo originale è The Age of Grief. E la traduzione italiana di questo libro è L'Età del Disincanto. Puoi dirmi di più sul titolo originale?
La ragione per cui ho scritto questo libro è che mi trovavo a metà dei miei trent'anni. Avevo due figli, un marito, un lavoro. E scrivevo libri. E la combinazione di tutto questo era travolgente. Non era quello che mi aspettavo. Sai, quando ero giovane facevo i compiti, ero una brava ragazza, volevo un fidanzato, tutte quelle cose.
Ma quando ho raggiunto tutte le cose che volevo, che erano avere un marito, una carriera e dei figli, mi è piaciuto, ma non sapevo come organizzarlo. Quindi questo è uno dei temi che esploro in questo libro, come ci si sente quando le cose accadono. Ora, l'altra cosa è che non avevo mai letto un libro, e non so se ce ne fossero, che parlasse di cosa significa essere genitori, di cosa si prova ad essere genitori. E volevo esplorarlo. Molti scrittori erano genitori, ma non scrivevano dei loro figli, per qualche motivo. E quindi pensavo che fosse un argomento interessante da esplorare.
Quindi The Age of Grief parla di avere trent'anni e scoprire che la vita è molto più complicata di quanto pensavi che fosse. E poi impari. E poi, abbastanza presto, sei nei tuoi quarant'anni e sei più bravo a svolgere i compiti. Ma anche i tuoi figli sono più grandi.
Cosa significa scrivere per lei ora, dopo tanti anni di esperienza?
Direi che la principale ragione per cui scrivo è la curiosità. Ecco perché i miei libri sono tutti diversi l'uno dall'altro. Perché vedo qualcosa, o sento qualcosa, o leggo qualcosa, e poi divento sempre più interessata a quella cosa. E capisco che scrivere fiction è un modo per dare un senso alle tue esperienze, o a cose che hai visto. E la ragione di ciò è che devi avere una trama.
La trama deve avere senso, deve progredire e questo significa che devi riflettere su tutte le cose di cui stai scrivendo e poi organizzarle. La maggior parte delle trame parla di un conflitto. Ma davvero, la trama è la linea che porta il lettore attraverso il libro. Quindi anche un libro come Ulysses, che non sembra avere una trama, ha comunque quella linea che ti fa andare avanti.
Ho scritto un libro chiamato 13 Ways of Looking at the Novel – non penso che verrà tradotto in italiano – e l'ho scritto perché volevo capire cosa fanno i romanzi e di cosa parlano. E quindi ho letto, beh, dovevo leggere 100 romanzi, e alla fine sono diventati circa 130, compreso tutto Proust. E ho iniziato con quello che consideravo il primo romanzo, scritto nell'anno 1000. E li ho seguiti fino a circa il 2000. Mi hanno affascinato, ancora di più di quanto avessero fatto quando li leggevo solo per piacere. Ho notato che avevano molte caratteristiche simili, indipendentemente da chi li avesse scritti o quando, e così li ho organizzati. E una delle cose che ho notato è stata che c'era quella che chiamavo la piramide del romanzo. Questa piramide aveva quattro livelli: il livello più basso, dove c'è la porta, è il linguaggio, è così che il lettore entra nel romanzo. Quindi il linguaggio deve essere competente e interessante per agganciare il lettore. Poi il secondo livello sono il personaggio e la trama, e la cosa interessante della trama e del personaggio è che non puoi avere l'uno senza l'altro. La trama porta i personaggi attraverso la narrazione e ci sono certi tipi di romanzi, come i gialli, che sono fondamentalmente tutta trama e questo è quello che il lettore vuole, la suspense, cosa è successo e a chi è successo. E poi il terzo livello sono l'ambientazione e il tema. Quindi quando arrivi al romanzo letterario, la ragione per cui sono interessanti, è che l'autore esplora il luogo in cui la trama si svolge e usa quella parte per elaborare una teoria su cosa sta succedendo e perché. Quindi questo è ciò che fanno i romanzi letterari. Hanno trame, hanno personaggi, ma sono più complessi perché si concentrano di più sull'ambientazione e sul tema. E poi, in cima alla piramide, c'è la complessità, e ogni romanzo è complesso in qualche modo. Ma devi scegliere quale di questi livelli è coinvolto nella complessità, perché se è troppo complesso, il lettore non lo capirà. Quindi, per esempio, se prendiamo di nuovo Ulysses, Joyce ha scelto la complessità del linguaggio. Agatha Christie avrebbe scelto la complessità della trama. Alcuni dei miei autori preferiti, come Charles Dickens, Anthony Trollope, Émile Zola, erano più interessati alla complessità del personaggio. E io adoravo leggere quei libri quando ero giovane perché imparavo qualcosa sulla natura delle persone. La cosa interessante era che quando ero giovane, la maggior parte degli scrittori che leggevamo erano uomini. Così ho imparato di più sulla natura degli uomini che sulla natura delle donne. Adoro George Eliot e adoro Jane Austen, ma le leggevo da sola, non le leggevamo a scuola. Così, quando ho iniziato a scrivere romanzi, c'era una cosa interessante che stava accadendo nell'editoria negli Stati Uniti, perché più donne stavano entrando nell'editoria ed erano più interessate ai romanzi delle donne. Ho scritto il mio primo romanzo, che si chiamava Barn Blind ed era un romanzo sui cavalli. Un romanzo familiare con cavalli, diciamo così. E quando l'ho finito, con quello che pensavo fosse il manoscritto pronto per essere inviato, l'ho mandato a una mia amica conosciuta alla scuola di specializzazione all'Iowa Writers Workshop: lei lavorava nell'editoria perché era una delle sempre più numerose donne assunte in quel periodo come stava accadendo in tutto il settore. Il suo capo stava facendo terapia freudiana cinque giorni alla settimana, così le disse che poteva acquisire qualsiasi cosa volesse, purché non spendesse troppo; lei era una grande critica, è sempre stata una grande critica – lo è ancora, le invio ancora manoscritti anche se non lavora più nell'editoria. E così lo comprò e il mio anticipo fu di 5000 dollari, che era perfetto. E questo è come sono entrata nell'editoria. Non sono diventata una grande star, il che è stato davvero buono. Sono entrata solo dalla porta, mi sono guardata intorno e continuato a scrivere e guardarmi intorno e poi, quando ho capito cosa stavo facendo, ho iniziato a ricevere attenzione. E penso che sia un buon modo di cominciare.
Ma l'altra cosa è che, una volta che inizi in questo modo, continui e continui e continui. E questo per me è un vero piacere.
Il punto di vista scelto in questo libro, interno, come ha influenzato la storia?
Beh, sapevo che volevo scrivere qualcosa su un dentista. Perché ero andata dal dentista e mentre uscivo ho visto che sua moglie stava lavorando su dei pazienti. Indossava i tacchi alti, cosa che trovavo totalmente incredibile. Poi, il mio dentista mi ha parlato di un uomo con cui stava lavorando, che non era mai stato da un dentista e aveva cercato di togliersi tutti i denti con le pinze. Ho pensato, ok, ecco due cose davvero interessanti. Una dentista donna con i tacchi alti e un contadino che cerca di togliersi tutti i denti con le pinze. E così mi sono interessata a questi personaggi. Poi ho pensato, ok, sono sposati, qualcosa deve succedere. Non può essere solo un racconto su quanto si divertono insieme o altro. E quindi ci deve essere un conflitto. Una storia deve avere un conflitto. Così ho deciso che uno dei due ha una relazione. Chi sarà? Visto che tutti i miei libri precedenti erano dal punto di vista delle donne, questa volta ho deciso che avrei provato a scrivere dal punto di vista del marito.
L'altra cosa che è successa in quel periodo è stata che i mariti nati negli anni '40 sono diventati molto più coinvolti nella vita dei figli e sembrava un'idea meravigliosa, tranne che ora avevano opinioni diverse, a volte, non sempre, ma a volte avevano opinioni diverse su cosa bisognava fare con i propri figli. E così è stato interessante e complesso anche questo. Voglio dire, sono stata sposata quattro volte. Tutti i miei mariti sono stati davvero brave persone ed erano ottimi papà, non ho mai avuto conflitti riguardi ai figli. Ma l'ho visto in altre famiglie, e volevo esplorarlo perché sentivo che sarebbe stato un tema un po' trascurato nei libri precedenti. I libri precedenti spesso erano più interessati a come i principali personaggi maschili si affermavano e a come i personaggi femminili pensavano alle faccende domestiche o si innamoravano o altro. Anche se… non so se hai letto qualche libro di Anthony Trollope…
Sì. Ho studiato letteratura inglese.
Oh, ok. Beh, uno dei miei preferiti si intitola He Knew He Was Right. E lo consiglio davvero. È lungo, come tutti i libri di Trollope, ma il motivo per cui lo consiglio è che Trollope voleva esplorare la condizione mentale e il matrimonio e hanno un bambino. E diremmo che il marito ha un disturbo oppositivo-provocatorio. Così appare. E più sua moglie non gli presta attenzione o non gli obbedisce, più lui si arrabbia. E questa è una trama molto interessante dal punto di vista della moglie e anche del marito. C'è un terzo personaggio che è un amico del marito che lo spinge sempre ad arrabbiarsi. Anche quello era un personaggio interessante. Ma c'è una trama simultanea su una donna non sposata e più anziana, che è molto difficile da trattare perché non è molto simpatica, si conoscono ma non sono amici. È solo una trama parallela, ma è lei quella che impara a relazionarsi con gli altri, a essere più simpatica, ad accettare di più, e poi ad avere più amici.
E ho sempre pensato che fosse molto interessante come Anthony Trollope esplora il modo in cui le persone cambiano, sia in meglio che in peggio. Per questo è uno dei miei libri preferiti.
Un'ultima domanda. Riguardo alla verità, la verità di Dave su sua moglie. Lui conosce la verità. Lui conosce davvero la verità su sua moglie.
Sì, è un buon osservatore. Ed è sicuro che qualcosa sta succedendo perché lo capisce dal suo comportamento. Si rifiuta di parlarne ma non le darà l’opportunità di dirgliela perché ha paura che così diventerà reale. Potrebbero separarsi ma lui non vuole che accada per i figli, e non lo vuole nemmeno perché la ama. E così ha questa idea su come superare questa esperienza. Non avevo mai letto un libro che parlasse di questo prima. Questo è quello che succede nei tuoi trent’anni. Nei trent’anni dici, beh, non ho mai letto un libro su questa certa cosa, ora lo scriverò. È quello che è accaduto anche mentre, contemporaneamente, stavo scrivendo The Greenlanders, ero affascinata. Ho studiato molte e molte saghe islandesi all'università e le ho lette sia in islandese che in traduzione e poi ho scoperto la colonia groenlandese. Ho pensato, come mai nessuno ha scritto su questo, soprattutto su come è finita. E volevo scriverne. Sono andata in Groenlandia e ho guardato in giro, ma all'epoca nessuno andava in Groenlandia, ero praticamente lì da sola. Quello che era rimasto degli edifici dove vivevano i groenlandesi mi ha affascinata sempre di più. Ma non potevo scrivere su cosa stava accadendo nelle loro menti perché nessuna delle saghe parla di cosa succede nella loro testa. Così ho dovuto scriverlo come se fosse all’esterno della loro mente.
Quando poi sono arrivata a questo, L’età del disincanto, ho pensato che sarebbe stato un buon modo per esplorare la mente di quest’uomo.