Ultimo round, ovvero intrugli stregoneschi che servono a guarire

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di Andrea Cafarella


Un’anima che combatte per farsi anima tua
Il giro del giorno in ottanta mondi e Ultimo round ovvero intrugli stregoneschi che servono a guarire.

 

Che cosa importava a Van Gogh della tua ammirazione? Voleva la tua complicità, che tu cercassi di guardare come stava guardando lui, con gli occhi scorticati da un fuoco eracliteo.
«Morelliana, sempre» da Il giro del giorno in ottanta mondi

 

Ho conosciuto Julio Cortázar da grande. Mi consideravo già un lettore navigato, esprimevo pareri anche molto secchi, giudizi severi su questo o quell’altro autore, su tutti i libri che mi venivano consigliati, anche senza averli mai letti (vizio, da presuntuoso, che non mi toglierò mai). Sapevo cos’è Letteratura e cosa no, pensavo (questa ottusa convinzione invece sono riuscito a levarmela di dosso, fortunatamente). Poi, un bel giorno benedetto, presi in mano Rayuela. Quell’incontro cambiò totalmente la prospettiva che avevo avuto fino a quel momento di cosa significasse la parola «Letteratura». Imbattermi in quell’essere mastodontico, quella creatura vivente e multiforme, fu come per Achab al primo avvistamento di Moby Dick. La sensazione che si ha quando la caccia sta per cominciare.
Lessi Rayuela tutto d’un fiato, nell’ordine che suggerisce la «tavola d’orientamento» che apre il libro. Poi in modo lineare, dal primo al capitolo cinquantasei della prima sezione, «Dall’altra parte». Poi tentai di leggerlo in un ordine mio. E continuo: ogni anno, ogni sei mesi, ogni tanto, quando nell’incresparsi delle onde vedo uno spruzzo che mi pare provenga dallo sfiatatoio di Rayuela, allora riapro quel libro e inizio a leggere, e vado avanti, indietro, a destra, in alto e fino al fondo dell’ultima riga; e riprendo altri libri, cerco degli stralci in cui Julio abbia lasciato altre tracce che non ho ancora preso in considerazione. Urlo, bestemmio, appendo un doblone spagnolo all’albero di prora, perché qualcuno mi porti il cadavere di questo libro. Cerco ancora di capirlo davvero e fino in fondo… ottuso.
Poi, stanco, mi sdraio accanto a una grossa bitta, sopra una cima enorme, raccolta nelle sue spire, impregnatasi di sole e salsedine, che mi fa da giaciglio, e chiudo gli occhi, lasciandomi cullare dall’andirivieni delle onde. Mi arrendo. Ed è proprio quando mi arrendo, quando depongo le armi, l’arpione, e lascio che la prosa abissale di Julio fluisca dentro di me come un respiro. Quando mi fido di lui. In quel momento scopro il testone bianco di Moby Dick all’orizzonte, capisco qualcosa di nuovo, di me, comprendo davvero – anche se non saprei spiegarlo, ammesso che sia possibile – cosa è «Letteratura».
Ecco, l’incontro con Julio Cortázar ha significato, per me, proprio questo: l’inizio dell’ossessione, della caccia infinita e senza senso che porta alcuni di noi alla follia, all’esclusione, all’eremitaggio. Incontrare Cortázar può essere destabilizzante, trasformativo, perché significa conoscere uno stregone. Un alchimista della parola.
E la pratica alchemica è inesplicabile, non si basa sulle regole logiche e razionali cui siamo abituati. Bisogna crederci. Per comprendere la trasmutazione del piombo in oro, dobbiamo abbandonarci alle coincidenze, ai legami inaspettati, al dialogo mistico tra il sopra e il sotto, il dentro e il fuori. All’anima.
L’unico modo per leggere Cortázar è imparare, giorno dopo giorno, «a guardare, come lui, verso l’infinita apertura che aspetta e reclama» («Morelliana sempre» da Il giro del giorno in ottanta mondi).


Che tu generi figli o libri o figure o pentagrammi non avrai generato che frammenti, collages, grida rotte e lacrime senza testa.
Ma dappertutto, dappertutto è l’anima
l’anima che combatte per farsi anima tua 

(un verso di Seferis di cui ho constatato mille volte la verità).

Posso chiamare ancora raccolta un insieme di luoghi-pensiero dove c’è un’anima che combatte per farsi anima mia, o tua?
G. Ceronetti, Tra pensieri


Si può dire che ogni libro di Cortázar sia un libro di frammenti, e un frammento, esso stesso, di un organismo più grande. Una prodigiosa opera immensa, una intera letteratura.
Parlandone da questo punto di vista, non può non venirci in mente uno dei predecessori di Julio, un tale Jorge Luis Borges. Uno che del frammento ne ha fatto una religione. Uno dei pochissimi grandi scrittori del novecento che non abbia mai scritto un vero e proprio romanzo. Uno che ha costruito libri e libri, che sono collage di pezzi di altri libri, di altri testi, di altre cose. Il Libro di sogni (Adelphi, 2015), il Libro del cielo e dell’inferno (con Adolfo Bioy Casares, Adelphi, 2011), il Libro degli esseri immaginari (con Margarita Guerrero, Adelphi, 2006), il Libro di sabbia (Adelphi, 2004), Storia universale dell’infamia (Adelphi, 1997), per citarne qualcuno. Ma tutti i libri di Borges sono delle «raccolte», degli «insiemi di luoghi-pensiero dove c’è un’anima che combatte per farsi anima» nostra.
Cortázar, non solo fa sua la lezione di Borges – come è d’obbligo per tutti gli scrittori argentini, e sudamericani, e probabilmente per tutti gli scrittori e basta – ma la porta alle sue conseguenze estreme e definitive. Ne esplora le potenzialità, in tutte le direzioni. Vive l’insegnamento del maestro, facendolo suo, assieme ai suoi fratelli, che in quegli anni si svestivano delle opprimenti regole estetiche che avevano dominato la storia artistica dell’uomo fino al novecento. Mischia la regola Borges alla sregolatezza del dadaismo, del cubismo, del futurismo, della musica nera che stava riconfigurando il concetto stesso di musica attraverso le improvvisazioni, evanescenti e sgrammaticate, dei giganti del jazz dei primordi.
Da queste mani, da questa voce, in questo contesto nascono Il giro del giorno in ottanta mondi e Ultimo round, rispettivamente nel 1967 e nel 1969. Due libri che sono un tutt’uno, di «grida rotte e lacrime senza testa», di frammenti di altri libri, di altre cose. Di Moby Dick e di Borges, e di Jules Verne e Charlie Parker. Contengono il suono della tromba di Armstrong e le opere più bislacche di Salvador Dalì. Due libri che sono uno solo, di cui non si può parlare singolarmente. E, nel loro insieme, uno degli esempi più chiari, efficaci, estremi ed esplicativi dell’intera opera di Julio Cortázar.
Sono libri di magia. Almanacchi per gli iniziati, scritti da un maestro. Due libri che sono parte di un insieme enorme, un corpo pulsante. Due libri che «respirano».

 «Era un libro di grande formato, con la copertina che ricordava un giornale, e soprattutto diviso in due «piani» che si sfogliavano in maniera indipendente l’uno dall’altro». Chi scrive è Bruno Arpaia, e il testo si trova nella bandella dell’edizione Alet del 2007 di Ultimo round, ormai molto difficile da reperire. E parla, a sua volta, «dell’introvabile edizione del 1969, quella della Siglo XXI Editores messicana, stampata, chissà perché, a Torino». Ultimo round, come Il giro del giorno (come lo appuntava lo stesso Julio nelle sue lettere e nelle interviste), sono due libri talmente particolari che persino l’edizione era studiata dall’autore fino al minimo dettaglio. Erano dei volumi atipici, che dovevano potersi sfogliare in più direzioni, che prevedevano inserti di ogni tipo, collegamenti e rimandi all’apparenza del tutto illogici. Un libro da esplorare come una scatola più che come un tomo. «Un oggetto-libro del tutto anomalo per gli schemi di chi non guardasse il mondo con il suo stesso atteggiamento poetico e surrealista, con la sua onnipresente e profondissima ironia» (sempre Bruno Arpia nella bandella di Ultimo round).

Scrivo questo testo in occasione della ripubblicazione, in Italia, della meravigliosa traduzione di Eleonora Mongavero, per Sur edizioni che, da anni, si occupa dell’opera del maestro argentino di tutti i cronopios del mondo. Questa nuova edizione di Ultimo round arriva esattamente l’anno dopo quella de Il giro del giorno in ottanta mondi; e dopo un lungo percorso di pubblicazioni essenziali: libri fondamentali come Un certo Lucas, Componibile 62 e L’inseguitore (in un’edizione che lo accompagna alle illustrazioni di José Muñoz), libri minori ma non meno preziosi, come Correzione di bozze in Alta Provenza e Un certo Julio. Vita di Cortázar illustrata da Rep – che contiene una lunga intervista inedita, davvero interessante – e i tre volumi che raccolgono tematicamente il suo carteggio epistolare (Carta carbone, Chi scrive i nostri libri e Così violentemente dolce). (Contestualmente, segnaliamo altre importanti pubblicazioni degli ultimi anni, come Lezioni di letteratura (Einaudi, 2014), A passeggio con John Keats (Fazi, 2014) e l’indispensabile Le ragioni della collera (Fahrenheit 451) pubblicato nell’anno corrente, che raccoglie le sue poesie).
Eppure, questi due libri sono completamente diversi da tutti gli altri. Ogni libro di Julio è diverso da tutti gli altri, è vero, ma Il giro del giorno e Ultimo round hanno qualcosa di così estremo, di così anomalo e perturbante, che li pone in una posizione di ulteriore differenza, rispetto a qualsiasi altro libro di letteratura.

In effetti, quei due libri io li definisco come dei veri e propri «libri-almanacco». [...] Scrissi Il giro del giorno in ottanta mondi e Ultimo round perché avevo accumulato molti appunti sparsi: poesie (come sai, ho pubblicato poche poesie, perché le ritengo sempre molto personali), qualche racconto. All’improvviso, mi dissi: «Perché non fare qualcosa con Julio Silva, bravissimo pittore argentino e mio vecchio amico di Parigi? Perché non facciamo un libro per giocare, un grande almanacco?»
da L’altra parte (mimesis, 2014)

 

In questa densissima intervista di Joaquin Soler Serrano, Julio stesso parla di questi due libri come se fossero un insieme. E con la solita leggerezza che, giustamente, lasciava trasparire dalle sue parole quando ne parlava. La leggerezza che travolge il cuore di ogni cronopios che se ne accosti. Ultimo Round e Il giro del giorno sono dei libri-almanacco, dei libri-gioco. Bisogna leggerli ogni tanto, quando se ne ha voglia, e anche tutti d’un fiato, alla finestra, d’estate; oppure lentamente: venti trenta pagine al giorno. Poco importa, se sei un cronopios anche tu. Come anche Julio Silva, (pittore e scultore argentino a cui si deve l’idea da cui nascono Il giro del giorno in ottanta mondi, Ultimo round e altri libri di Cortázar in cui si uniscono testo e immagini) che potremmo dire co-autore concettuale di questi due libri. La letteratura di Julio è un gioco e, come tale, può e deve essere anche condiviso (e mi viene nuovamente in mente la co-autorialità tipica di un certo Borges).
In effetti, il gioco di Cortázar è condivisione: contaminazione, contagio. Servizio. Cibo. Julio cucina per e con i suoi amici e compagni, per e con noi. Cucina pozioni magiche con ingredienti stregoneschi molto particolari: «questo libro va componendosi come uno di quei misteriosi piatti di certi ristoranti parigini il cui primo ingrediente risale forse a due secoli fa, fond de cuisson al quale si sono via via aggiunte carni, verdure e spezie in un interminabile processo che conserva nel profondo il sapore accumulato in un’infinita cottura» scrive in uno dei frammenti de Il giro del giorno: «Un Julio parla di un altro» nel quale, come se fosse un diario, semplicemente appunta l’andazzo dei lavori.
Perché, sì, questi sono anche due libri-cantiere, attraverso cui, con un ascolto attivo, sincero e cronopicamente attento, possiamo comprendere, intuire dei segreti che illuminano tutta l’opera cortazariana. E sarebbe più corretto dire, in modo più preciso, che la ri-velano: cioè che la ricoprono di ulteriori enigmi e astuzie e ne impreziosiscono e alleggeriscono, così, paradossalmente – magicamente, la materia, arricchendo la complessità della sua intera opera.
Inoltre, in questi due libri-collage troviamo le sperimentazioni più ardimentose di Julio. Non è solo nella struttura, la sperimentazione. Il suo spirito dada, qui più che altrove, si è potuto sbizzarrire in modo assoluto: ci sono poesie, citazioni, stralci, notazioni di scritte sui muri, falsità, amenità, spazi bianchi, fotografie, illustrazioni, cianfrusaglie inutili e pezzi di vita.
«Sono opere vertiginosamente aperte, costantemente attraversate da quelli che Cortázar amava definire passaggi, di sentieri interrotti e distrazioni (tutto ciò che in qualche modo permette di evadere dal territorio di competenza dei famas, quei personaggi cortazariani fatalmente incaricati della difesa dell’ordine, della norma e dell’efficienza)». (L’altra parte) (scrive Tommaso Menegazzi, parlando di Rayuela, del Libro de Manuel e di Componibile 62, in un lungo discorso che parte da Il giro del giorno e Ultimo round, nell’introduzione all’edizione italiana della lunga intervista del 1977 di cui sopra: L’altra parte).
E se tutta l’opera di Cortázar è un insieme di frammenti, di quei «luoghi-pensiero» di cui parla Ceronetti, Il giro del mondo e Ultimo round ne sono l’esempio più illustre. Sono dei libri scoperti, sinceri, ineludibili. Non c’è finzione, o perlomeno la finzione, portata al livello più puro del gioco, si svela attraverso sé stessa, come un dettaglio minimo, nell’atteggiamento di chicchessia, che tradisce un aspetto profondo della sua personalità. Può essere parte di una tipica costruzione, della propria apparenza, attenta a ogni minuzia, o dell’inconsapevolezza sbadata, nella fretta che riserva all’atto di vestirsi, il più grande ritardatario; non ha importanza, finché noi non lo notiamo e non lo comprendiamo realmente.

 

A Julio Silva il 23 Agosto 1966

Lavoro molto al Giro del giorno in ottanta mondi, così si chiamerà il libro-collage che uscirà in Messico l’anno prossimo. Niente mi rende più felice che poter contare sui tuoi consigli e sul tuo aiuto per l’elaborazione grafica di quel libro, che sarà una specie di almanacco di testi brevi e molto diversi tra loro, un libro per cronopios. [...] Mi piacerebbe un libro molto arioso, con spazi bianchi da tutte le parti, vignette tra un testo e l’altro, strani disegnetti ai margini, e altre astuzie silviche e cortazariane. L’idea non ti terrorizza troppo, vero?
(Chi scrive i nostri libri, Sur, 2014)

 

Il J. di J.

«Questo libro mi capitò tra le mani trentacinque anni fa ed ebbi subito la sensazione di essere davanti a un libro di istruzioni per arricchire la vita». scrive il maestro Enrico Rava, in un testo intitolato: «Istruzioni per arricchire la vita» contenuto nella bandella de Il giro del giorno dell’edizione Alet del 2006. Anche lui, come Arpaia, racconta il suo primo incontro con questo libro, che lo «spinse, nel 1972, a intitolare il [suo] primo disco Il giro del giorno in 80 mondi».

Questi due libri, in effetti, hanno una caratteristica evidente, sulla pelle proprio: suonano come il lato A e il lato B di un disco jazz di altri tempi. Le pagine sanno del fruscio del vinile sovrastato dagli Hip e gli Square di Lester Young, che, ci dice Rava «altro non sono che i Cronopios e i Famas di Julio».
Il contatto, la comunione tra la letteratura di Julio e la musica nera dei primi anni del novecento è commovente, toccante. Un rapporto simbiotico che percorre tutta la cultura bohème di quegli anni, il dadaismo, le avanguardie.

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Il giro del giorno in ottanta mondi inizia (e potremmo dire: Il giro del giorno e Ultimo round iniziano)con questa dichiarazione, palese, chiara: «Devo al mio omonimo [qui si riferisce a Julio Silva] il titolo di questo libro e a Lester Young la libertà di averlo modificato senza offendere la saga planetaria di Phileas Fogg, Esq.». Questa è una dedica esplicita quanto toccante a Lester Young e a quanto rappresenta effettivamente la musica jazz di quegli anni: la libertà. Affrontare i padri senza il timore reverenziale e classicista che aveva sempre vegliato, fino a quel momento, sull’operare di ogni artista. Non si tratta di prescindere da chi c’è stato prima, si tratta di non averne paura, si tratta di trovare nuove chiavi di lettura, anche riscoprendo certe nostre peculiarità, qualcosa che era stato trascurato, per esempio, da una certa mentalità colonialista, abituata a considerare solo l’analisi e la rielaborazione della cosiddetta «cultura occidentale». Si tratta di rivivere il rito antico africano. Certi ritmi, certe modalità d’esecuzione. L’abbandono e l’estasi, non per forza riferite all’onnipresente dionisiaco. Che poi, chiaramente, ha a che fare con quanto intendiamo per dionisiaco, ma non è dionisiaco. Il jazz è jazz. Libertà e improvvisazione. Non vuol dire nient’altro. Non vuol dire niente. Jazz non significa altro che jazz.

Ne Il giro del giorno in ottanta mondi troviamo brani, come quello dedicato ad Armstrong («Louis, grandissimo cronopio») o quello che racconta di Thelonious Monk («Il giro del piano di Thelonious Monk»), che sono testi che, da soli, valgono più di mille trattati jazz (suggerisce enfaticamente Enrico Rava). Per non parlare della chiusa, delicata e preziosissima, di Ultimo round: «Si può quel che si fa», di cui non dico niente per non rovinarvi la sorpresa, l’emozione della scoperta di un cristallo con all’interno una rosa.
Il jazz di Cortázar si trova nella struttura, in ciò che descrive, nella materia che usa e anche nel modo in cui la tratta. Il jazz è il suo metodo. Le sue scelte lessicali e ritmiche sono evidentemente jazz, non saprei in quale altro modo definirle. Basta leggere le due poesie in verticale, contenute in questi due libri: «Il rogo su cui arde una» e «Non ci sono più speranze di» per sentire, in quelle frasi tronche, monche come certe intuizioni di Miles Davis o di Coltrane, le sonorità di quegli anni, l’ululare di Howlin' Wolf davanti alla luna che illumina il Mississipi.
La tecnica di Cortázar è esattamente la stessa di Lester Young: la stonatura come armonia, l’improvvisazione, l’errore, la mancanza. L’incompleto, l’incerto. L’intuibile, la ricerca incessante di quel qualcosa «dall’altra parte delle cose» che possiamo raggiungere solo rischiando, inoltrandoci nel terreno sconosciuto di quanto ancora non sappiamo. Di quanto nessuno ancora ha fatto o ha visto. La caccia alla balena che nessuno è ancora riuscito a prendere.

In altre parole, la sua aspirazione era quella di donare alla sua prosa il fraseggio argenteo della tromba di Louis Armstrong («Armstrong – dirà lo scrittore nell’intervista – era uno dei miei dèi: i miei dèi appartengono a questo mondo, non ad altri»), la sua frenesia afrodisiaca, il suo discorrere bacchico, voluttuoso: «e poi la fiammata della tromba, il fallo giallo che lacera l’aria e gode avanzando e retrocedendo e verso la fine tre note scendenti, ipnoticamente d’oro puro, una perfetta pausa nella quale tutto lo swing del mondo palpitava in un attimo insopportabile.» [...] è possibile scorgere quella scintilla sciamanica e intimamente rivoluzionaria che, dai racconti «neofantastici» ai contro-romanzi, passando per il suo impegno politico e la sua inquietudine esistenziale e libertaria, caratterizza così profondamente la figura di Julio Cortázar. (Tommaso Menegazzi in L’altra parte)

 

La questione dei cronopios

«A quei tempi, avevo già letto quasi tutto Cortázar ed ero forse molto più cronopio di quanto lo sia adesso. Perciò fu semplicissimo entrare in quell’universo percorso da nessi apparentemente casuali, da accostamenti improvvisi e insoliti, eppure retto da una logica implacabile che teneva insieme racconti, poesie, saggi letterari e politici, fotografie, quadri, disegni, musiche, ritagli di giornale [...] ancora oggi mi aiuta a restare almeno un po’ cronopio, capace di guardare il mondo senza certezze cartesiane e di scoprire l’altra realtà, ludica e terribile, magica, barbara e cerimoniale, che solo i nostri paraocchi razionalistici ci impediscono di vedere». (dalla bandella di Ultimo Round) Cosa sono i cronopios? In tanti hanno provato a rispondere a questa domanda. Io credo che questa sia proprio una domanda da famas, una domanda che un cronopio non si fa e non dovrebbe mai farsi a un cronopio. A questa domanda Julio risponderebbe così: «con me il problema, come avrai già capito, è che quando mi si chiede qualche spiegazione è tempo perso, perché per me è molto difficile spigare delle cose che nemmeno io riesco a spiegare» (L’altra parte) raccontando, successivamente, il momento del concepimento dell’idea dei cronopios, come un’esperienza mistica, in cui degli esserini, i cronopios appunto, fluttuavano nell’aria, in un immenso teatro degli Champs Elysee, al termine di una serata in onore di Igor Stavinskji. Julio, rimasto solo, vede dei «personaggi indefinibili, come dei palloncini, che a [lui] sembravano verdi, molto comici, divertenti e amichevoli». Un cronopio è un cronopio, non è un semplice scellerato, un distratto, uno sbadato con la testa rivolta sempre al cielo. Un cronopio è un cronopio. Spiegare cosa sia un cronopio sarebbe come spiegare cos’è la magia (o il jazz, appunto). Si potrebbero scrivere e si sono scritti moltissimi libri, trattati antropologici e ricerche scientifiche sull’argomento, è vero. Si è voluto anche svalutare, nel tempo, il concetto di magia – come quello di cronopios – cercando d’incasellarlo in uno schema di stampo razionalistico e scientifico. Eppure, resiste – la magia e i cronopios, e il gioco, per fortuna ­– perché non può essere considerata in quelle stesse categorie, per cui, se ne svincola ed esiste lo stesso, volteggiando nell’aria quando uno sciamano, come Julio, ha una visione estatica. Ecco, i cronopios sono una visione allucinogena durante un rituale sciamanico. Possiamo provare a spiegarla, ma ne risulterà sempre limitata. Bisogna vederla per capire davvero cosa s’intende, cosa sono i cronopios.
In ogni caso, una spiegazione razionale molto completa ed esaustiva la da Italo Calvino, nella sua introduzione a Storie di cronopios e di famas. Anche se, io credo che Julio non avrebbe gradito, perché forse bisognerebbe solo tacere sull’argomento, o inventare un’altra storia che finisca con Calvino che fa qualcosa di stravagante, per dargli l’aria da cronopio che avrebbe sempre voluto avere.
Ve la riporto per correttezza. Ma vi avverto: un cronopio si fiderebbe di me e la salterebbe a piè pari.

«Dire che i cronopios sono l’intuizione, la poesia, il capovolgimento delle norme, e che i famas sono l’ordine, la razionalità, l’efficienza, sarebbe impoverire di molto, imprigionandole in definizioni teoriche, la ricchezza psicologica e l’autonomia morale del loro universo. Cronopios e famas possono essere definiti solo dall’insieme dei loro comportamenti. I famas sono quelli che imbalsamano ed etichettano i ricordi, che bevono la virtù a cucchiaiate col risultato di riconoscersi l’un l’altro carichi di vizi, che se hanno la tosse abbattono un eucalipto invece di comprare le pasticche Valda. I cronopios sono coloro che si lavano i denti alla finestra, spremono tutto il tubetto per veder volare al vento festoni di dentifricio rosa; se sono dirigenti della radio argentina fanno tradurre tutte le trasmissioni in rumeno; se incontrano una tartaruga le disegnano una rondine sul guscio per darle l’illusione della velocità».

 

La poesia è un gioco

A Francisco Porrùa
Parigi, 21 gennaio 1967

Sono contento di ciò che mi dici sul Giro del giorno, che è lungi dall’essere un libro «importante» ma al contrario contiene, credo, molte pagine divertenti.
Chi scrive i nostri libri, Sur, 2014

 

Julio considerava Il giro del giorno e Ultimo round come dei giochi. In un modo tutto suo, però. Come tutto, nel mondo di Julio. Nel gioco del mondo di Julio. L’inversione dei valori, nei suoi libri e nella sua prosa (intendo proprio tecnicamente parlando), è il gioco principale, la regola assoluta. Tutto ciò che è tremendamente profondo, viene alleggerito per arrivare in superficie. E quanto appare frivolo viene caricato di significato per scintillare come il dettaglio, sul fondo, che tutto spiega, con la limpidezza del respiro meditativo: l’attenzione per le cose piccole ed essenziali: l’aria che entra ed esce dalla bocca, attraversandoci.
E, se questo è vero, l’impressione che Julio considerasse questi due libri come opere minori, di raccolta, giochetti facili, è del tutto falsa. In questi volumi troviamo alcune delle riflessioni più importanti di Cortázar su qualsiasi cosa, e specialmente sulla poesia, sull’arte, sulla letteratura.
Come il lungo saggio che Julio dedica a un libro fondamentale, che Cortázar amava, Paradiso («Per arrivare a Lezama Lima» da Il giro del giorno). Oppure il bellissimo omaggio che fa a Borges («The smiler with the knife under the cloak»), che è anch’esso un insieme di frammenti. E ancora il testo – fondamentale per ogni scrittore e lettore, soprattutto di racconti – che era già apparso in Bestiario (Einaudi): «Del racconto breve e dintorni», che è diventato un po’ un manifesto letterario di un certo modo di concepire la misura breve in narrativa, di concepire il racconto, el cuento, di cui Julio (e questo mi riporta sempre a Borges) è considerato maestro indiscusso ed eroico pioniere.  Mi sembra bello, in questa sede, leggerne un estratto ­– a mio parere molto significativo rispetto al discorso che sto cercando di portare avanti – insieme:

«Ogni volta che mi è toccato rivedere la traduzione di un mio racconto (o tentare quella di altri autori, come nel caso di Poe), ho sentito quanto l’efficacia e il senso del racconto dipendessero da quei valori che danno alla poesia e al jazz il loro carattere specifico: la tensione, il ritmo, la pulsazione interna, l’imprevisto dentro parametri pre-visti, quella librerà fatale che non ammette alterazione senza una perdita irreparabile. I racconti di questo tipo rimangono come cicatrici indelebili nel corpo di ogni lettore che li meriti: sono creature viventi, organismi completi, cicli chiusi, e respirano». 

In questi due libri c’è il jazz, la letteratura, il gioco, c’è la boxe, ci sono i viaggi, il tempo, le cose intime e quelle che devono essere di tutti.

Ci sono tante poesie, quelle che Julio aveva sempre considerato troppo personali per la pubblicazione. E c’è tantissima sperimentazione. C’è della poesia visiva, diremmo oggi. Ci sono dei giochi, direbbe Julio, come il brano «Poesia permutante» (da Ultimo Round) dove l’autore mette insieme dei componimenti i cui versi possono essere letti in qualsiasi ordine, creando molteplici possibilità. Di nuovo: i frammenti, la libertà. Queste poesie multiformi sono precedute da un brano che, come fossero istruzioni per l’uso, spiega il processo e le modalità di fruizione dei testi. Con una spaventosa ironia, quasi prendendosi in giro da solo.
L’autoironia, a mio modo di vedere, è una delle più grandi possibilità di autoanalisi. Imparare a non prendersi troppo sul serio per ritrovare una serietà più profonda, che vada aldilà.
«Dico giochi con la serietà che hanno i bambini quando pronunciano questa parola. Ogni poesia degna di questo nome è un gioco» scrive, sempre in Ultimo round.
Il gioco di Cortázar, direbbero i famas, si avvicina al paignon platonico. No, il gioco, in Cortázar, trascende la discussione filosofica. Nemmeno la affronta, nemmeno la vede: lo sa. Esattamente come i bambini: d’istinto. I bambini sanno già cos’è il gioco, giocando. Sanno che «niente è più rigoroso di un gioco; quando giocano con un aquilone o ai quattro cantoni, i bambini rispettano le regole con una diligenza che non riservano a quelle grammaticali». (da Ultimo Round) Come uno stregone sa che niente è più rigoroso e serio del rituale magico. In questo senso la poesia è un gioco. La letteratura è un gioco. La vita è un gioco. In un’equazione mistica che raggiunge la penna di Cortázar e fa questo concetto parola. Lui, forse più di ogni altro, ci ha insegnato a sovvertire le regole grammaticali per seguire quelle del suo gioco: la Rayuela, ovvero Il gioco del mondo. Fino alla Fine del gioco, come se non ci fosse niente di più importante e rigoroso.

Il giro del giorno in ottanta mondi e Ultimo round sono tra gli esempi più estremi della  macchina creativa cortazariana. Non seguono le regole usuali, eppure hanno una struttura, fatta di corrispondenze improbabili, che risulta impeccabile. I brani fluttuano l’uno accanto all’altro cronopicamente, senza una ragione precisa e nell’unico ordine possibile: quello giusto.
Stanno insieme per magia, come gl’amanti. Eh sì, sono anche romantici i cronopios. Disperati e romantici, da far schifo. Bevono, i cronopios. Sbadigliano e inventano macchine per leggere romanzi smontabili che parlano di ogni cosa in ordine sparso, in ordine di cuore. Cercano una cura, i cronopios.
Infatti, i libri di Julio sono intrugli stregoneschi che servono a guarire. Sono per gli altri i libri di Julio. «Istruzioni per arricchire la vita». Costellazioni di cose che stanno dall’altra parte delle cose. Manuali per cronopios, senza capo né coda, tutto unito nell’ordine, apparentemente casuale, in cui si configura l’universo intero. Sono come i tarocchi: una macchina filosofica in grado di leggere le trame del cosmo, che però si basa sull’intuizione e sulla capacità di sentire e interpretare del consultante (nella prosa di Julio però, questa frase avrebbe l’accento su quanto suoni ridicola, con la grande autoironia che io non possiedo).
Il giro del giorno e Ultimo round sono libri preziosi e imprescindibili, che ci ricordano di quando eravamo bambini e di quando eravamo cronopios; che ci dimostrano, di nuovo che esiste la magia, che esiste l’anima; che c’insegnano a guardare con gli occhi di Van Gogh. Che ci sussurrano ancora, dal regno dei morti, che c’è «un’anima che combatte per farsi anima tua». Questi due libri sono un messaggio importante per tutti i cronopios: non smettiamo mai di cercare.

«Se, tra le cose che ho scritto, qualcuna è servita per mostrare l’altro lato delle cose ai miei lettori e ai miei amici, è facile intuire che ciò costituirebbe la più grande ricompensa cui possa ambire. Personalmente continuo ad avvertire la presenza di qualcosa che si trova dall’altra parte delle cose, per questo non smetterò mai di cercare».
(L’altra parte)

 

 


Acque strette, di Julien Gracq

Julien Gracq L’Orma Editore Traduzione di Lorenzo Flabbi pp. 80 Euro 13

Julien Gracq
L’Orma Editore
Traduzione di Lorenzo Flabbi
pp. 80 Euro 13

In libreria, il piccolo gioiello di Julien Gracq pubblicato da L’Orma Editore, Acque strette. Né romanzo, né racconto, ma una fantasticheria che accompagna il lettore lungo una narrazione densa di fascino.
La vicenda narrata in questo libro è semplice: un’escursione in barca sull’Èvre, piccolo fiume che si getta nella Loira. Paesaggi, campi, scogliere, boschi, ginestre accompagnano un tragitto familiare, ripetuto nelle diverse stagioni della vita, che qui trascende in viaggio iniziatico nel cuore stesso della creazione letteraria.
E a pelo d’acqua si attiva la memoria, si accendono fantasticherie associative che collegano in un’unica costellazione i diversi astri del personale firmamento artistico di Gracq: il profilo di un castello sulla riva richiama alcuni versi di Nerval, e su quelli si innerva l’immaginario poetico di Rimbaud, e poi Balzac, Poe, Valéry, Wagner e molti altri in un magistrale mescolarsi di ricordo e percezione, esperienza e chimere.
Sono pagine esigenti, che subito ripagano con l’ineffabile bellezza di un tramonto dopo un giorno di pioggia, di un odore terroso, di un vento d’aprile. La prosa vi scorre sinuosa, ora limpida ora più torbida, sempre incantatoria come le acque dell’amato Èvre. Forse mai quanto in questa densissima rêverie il grande scrittore francese si è rivelato così compattamente pervaso dalla sua caratteristica ispirazione, tanto umile quanto ambiziosa, in grado di fermare il tempo con la limpida forza dello stile.

Cattedrale pubblica un estratto del testo, per gentile concessione dell’editore.

*

Per quale motivo si è presto radicata in me la sensazione che, se soltanto il viaggio – il viaggio che non preveda l’idea di un ritorno – è in grado di aprirci le porte e cambiarci davvero l’esistenza, un altro tipo di sortilegio, più nascosto, come originato da una bacchetta magica, si leghi invece alla passeggiata prediletta fra tutte, all’escursione senza avventure né imprevisti che dopo poche ore ci riconduce all’attracco da cui partimmo, alla cinta familiare di casa? L’inalterabile certezza del ritorno non è garantita a chi s’arrischia tra i campi di forze che la Terra conserva in tensione per ciascuno di noi; c’è da credere che da essi, più ancora che dal «saluto dei pianeti» caro a Goethe, la nostra linea della vita risulti confusamente illuminata. A volte si direbbe che una griglia dentro di noi, di noi più antica, ma lacunosa e come bucata, decifri nell’alea di queste ispirate escursioni le linee di forza di esperienze ancora da viversi. Proprio come un album di fotografe di famiglia che si sfoglia senza un ordine preciso ci parla del nostro passato – ma di un passato orbato dei suoi vivi avvenimenti e al contempo indicibilmente personale, che ci comunichi tuttavia il sentimento vitale del contatto con lo stelo madre e la tonalità squisita, e ancora debolmente sorridente, propria di ciò che è ormai sforito –, così tali luoghi sollevano enigmaticamente un velo sul futuro: offrono un anticipo, un’anteprima, dei colori che assumerà la nostra vita; al contatto con questa terra che ci è stata in qualche maniera promessa, ogni nostra piega si distende come si dischiude nell’acqua un fore giapponese: inspiegabilmente ci sentiamo in un territorio di conoscenza, come circondati da volti di una famiglia di là da venire.
È così che la valle dormiente dell’Èvre, fumiciattolo sconosciuto che sfocia nella Loira a un chilometro e mezzo da SaintFlorent, recinge nel paesaggio della mia giovinezza un cantuccio privilegiato, più sontuosamente e segretamente colorato degli altri, una riserva chiusa che resta legata per nascita e statuto alle sole idee di passeggiata, di svago, di festa agreste. Ciò che lo rendeva per me tanto speciale, mi pare, era soprattutto il fatto che, come di alcuni fumi leggendari dell’antica Africa, dell’Èvre non si potessero visitare né la fonte né la foce. Sul versante della Loira, la risalita era ostacolata da una diga sommersa, composta di ciottoli grezzi sparsi alla rinfusa, che riaforava durante le secche estive permettendo di raggiungere l’Île aux Bergères; poco più in là, aggrovigliate cataste di frassini, pioppi e salici si allungavano in un intrico di rami che scoraggiava l’esplorazione a valle. Cinque o sei chilometri più a monte, la diga del mulino di Coulènes impediva alle barche di procedere oltre. Andare sull’Èvre implicava così un cerimoniale piuttosto impegnativo che bisognava pianifcare con un paio di giorni d’anticipo: il tempo di avvisare la titolare di un bar di Le Marillais afnché ci tenesse da parte l’unico scalcinato burchiello centenario, un barchino traballante, tarlato, scatramato, a volte anche privo di timone, che lei conservava vicino alla diga, debitamente legato con un catenaccio, per ofrirlo in prestito agli avventori del cafè. Le aste dei remi spaiati scorrevano in nodosi viluppi di giunchi con funzione di scalmi. Nel mio ricordo, i preparativi per il disormeggio restano inscindibili dall’acre, bruciante arsura della limonata tiepida: me la ritrovo intatta sulla lingua quando rileggo il racconto del picnic sulle rive dello Cher, nel Grande Meaulnes. In quelle pagine, come a Le Marillais, mi esplode contro il palato un indefnibile gusto esotico e perduto, di giovedì scampananti, di festività modeste.

L’artista dell’ultimo giorno e la parabola dell’assenza

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L’artista dell’ultimo giorno e la parabola dell’assenza
Kafka era un mistico e la sua opera un’immensa preghiera

 

di Andrea Cafarella

 

109. [...] Non è necessario che tu esca di casa. Rimani al tuo tavolo e ascolta. Non ascoltare neppure, aspetta soltanto. Non aspettare neppure, resta in perfetto silenzio e solitudine. Il mondo ti si offrirà per essere smascherato, non ne può fare a meno, estasiato si torcerà davanti a te.
F. Kafka, Aforismi di Zürau (Adelphi, 2004)

 

L’unico modo di leggere Kafka è ossessionarsene

Iniziai a scrivere questo pezzo mesi fa perché Rossella Milone mi aveva parlato della sua idea di iniziare a lavorare a una nuova rubrica di critica, su Cattedrale, che parlasse di tutte quelle forme narrative – contratte o distese – che si spingono fino ai «confini» della forma racconto. In quel periodo stavo lavorando su Robert Walser e mi venne spontaneo proporle un articolo sui suoi brevissimi racconti, che avrei voluto accostare alle contrite prose kafkiane. I due hanno delle somiglianze impressionanti, sia biografiche che letterarie; eppure, dopo non molto, mi risultò evidente che c’è tra di loro una differenza fondamentale, esistentiva. Man mano che leggevo libri che riguardavano l’uno e l’altro, l’ipotesi dalla quale partivo – di poter considerare l’uno l’antesignano dell’altro, e l’altro il suo naturale successore – mi si sgretolava davanti agli occhi. In particolare poi, quando mi capitò di scrivere di un terzo autore: Bruno Schulz, e usare del materiale che riguardava entrambi, Walser e Kafka. La differenza sostantiva è che: Walser è un eremita, Kafka è un mistico. Walser si fa rinchiudere in un manicomio e abbandona la scrittura, apparentemente; Kafka rinuncia a tutto pur di seguire madama Letteratura fino alla fine. Walser sembra non avere pulsioni; Kafka prova a combatterle e le soffre, tutte. Walser è solo, deciso e lucido; Kafka vive nell’indecisione, schiavo delle sue sofferenze e dell’impossibilità di soddisfare la sua indole e le aspettative dei suoi cari. Walser ama camminare; Kafka resta fermo, per notti intere, davanti alla sua scrivania. Walser verga 526 fogli con calligrafia minuscola e illeggibile, da vero amanuense, e li lascia nelle mani dei suoi dottori; Kafka brucia – o chiede ad altri di eseguire al posto suo – i suoi fogli, i suoi quaderni, le sue parole dalla grafia elegante. Il suo testamento è il fuoco.
Una grande somiglianza, tra i due, è che entrambi vivono un’era ideologicamente claustrofobica che ha relegato la letteratura a mero contenuto di prodotti editoriali: i libri. Invece, per gli illuminati di tal sorta il libro è esclusivamente un oggetto; la Letteratura è l’altissima Verità che scorre tra le parole con assoluta chiarezza, al di sopra – o al di sotto – dei fogli e dell’inchiostro. «Kafka appartiene a una tradizione in cui quanto c’è di più alto viene espresso in un libro che è scrittura allo stato puro» ci dice Blanchot, nel suo fondamentale saggio Lo spazio letterario (Il Saggiatore, 2018). A rafforzare questa sua – e mia – idea (di un Kafka mistico, capace di evocare la Verità, «quanto c’è di più alto», nella limpidezza fluida della pagina) Blanchot allega, al piede, una nota squisitamente biografica: «Kafka disse a Janouch che “il compito del poeta è un compito profetico: la parola giusta conduce; la parola non giusta seduce; non è un caso che la Bibbia si chiami la Scrittura”». Altra somiglianza: entrambi, Kafka e Walser, sapevano, riconoscevano di aver visto la Verità; e di questi tempi non ci si può aspettare di dire una cosa del genere ed essere creduti. Non ci si può aspettare di finire bene.
«L’artista dell’ultimo giorno ne è cosciente [il mondo sta per finire sommerso dalle immagini, che sovvertono «l’equilibrio tra la vita e il sembrare dei segni»] e trattiene la mano. La sua opera tende allora a diventare un indugio. Egli cerca. La sua opera diviene uno sperimentare. Ma l’indugio nell’experiri non può durare eternamente, se non trasformandosi in fine e negando così se stesso. L’attesa della decisione rimane nell’orizzonte della decisione e della sua idea si alimenta. Sull’artista dell’ultimo giorno incombe la necessità della scelta: o ‘purificare’ l’immagine fino al punto che questa, cessando di essere la «rivale illecita di ciò che esiste», appaia mondo in se stessa, oppure «spegnere ogni fonte di luce» e condurre ogni parola al perfetto silenzio».
Massimo Cacciari, Hamletica, Adelphi, 2009.

Kafka è «l’artista dell’ultimo giorno», l’ultimo profeta. Non in senso assoluto: l’ultimo. Piuttosto uno degli ultimi di una stirpe di ultimi, che nasce con Omero (emblematica qui l’impossibilità di riconoscimento effettivo di un autore; in questo caso – come in altri che tratterò più in la – quello che mi viene da pensare è che questa ricorrente non-identità autoriale deve evidentemente significare che: l’autore mistico (l’artista dell’ultimo giorno), di fatto, è l’uomo, l’uomo che arriva all’illuminazione, totalmente distante dai concetti di fama e vana gloria, semplicemente è un essere umano – quindi tutti gli esseri umani, in potenza – la cui attenzione è riuscito a espandere quanto la sua anima (incredibilmente e indicibilmente, più del «normale») e prosegue nel tempo con personalità quali Dante, Shakespeare o Beckett. Gli «artisti dell’ultimo giorno» sono quegli Artisti che hanno saputo cogliere il cuore dell’esistenza stessa, rappresentandolo a seguito di un cammino estatico di comprensione e ri-velamento. Un cammino che, inevitabilmente – e ce lo insegnano proprio i mistici, quelli considerati propriamente, esclusivamente tali –, il viaggio non ha mai fine, è una ricerca eterna, una sperimentazione costante; la contemplazione senza tempo del silenzio.

Per Kafka, come per Sancho Panza, il rapporto con le potenze è talmente radicato nella fisiologia, e percepibile già nel respiro, che il primo pensiero, e anche il più avventato, è quello di liberarsene. Ma Kafka sa che una liberazione del genere sarebbe illusoria.
Il raggiungimento più alto consiste nello stabilire una certa distanza. Sedere a un tavolo e osservare le potenze, come le apparizioni nello sfrenato delirio di Don Chisciotte. Con sollievo, anche con partecipazione. Seguendole mentre si trasformano, ma sempre stando da parte, come una comparsa. Di più non si può chiedere. Questa è la suprema saggezza. Sancho Panza è l’unico essere che Kafka ha definito «un uomo libero».
Roberto Calasso, K. (Adelphi, 2002)

 

La forma della parabola

Una volta, durante un incontro di lettura, stavamo leggendo delle cose di Kafka, e uno dei partecipanti chiese di leggere «Un messaggio imperiale», dicendo che quello era il testo di Kafka che preferiva in assoluto. La cosa mi colpì, perché non lo avevo mai considerato tra le sue prose più importanti. Più volte, da allora, ponendo più attenzione al fenomeno, mi sono trovato in circostanze nelle quali qualche lettore, particolarmente stimato dal sottoscritto, citasse «Il silenzio delle sirene» oppure «La verità su Sancho Panza» (di cui si accenna sopra) o ancora «Il sogno», o l’estratto dai Quaderni in ottavo (SE, 2011) che Borges include nel suo Libro dei sogni (Adelphi, 2015): «Bisogna distinguere». Tra l’altro, questi lettori attenti, nominano, spesso, l’uno o l’altro di questi testi, per le più differenti motivazioni, come l’espressione più alta della prosa kafkiana. Persino Roberto Calasso, nel suo K. (Adelphi, 2002), in cui porta avanti il discorso attraverso l’analisi approfondita e originale de Il Castello e de Il processo, si serve, inoltre, in minima parte, esclusivamente di prose brevissime. (E mi sembra importante sottolineare – senza addentrarmi nella questione – che molti di questi testi fanno parte della produzione letteraria postuma, di Kafka, che Max Brod salvò dalle fiamme – contravvenendo alle indicazioni testamentarie dell’amico – e curò integralmente. Lo sottolineo perché, per questo motivo Brod è, e fu, ampiamente criticato – soprattutto per come condusse l’operazione editoriale di pubblicazione dell’opera kafkiana –, anche dallo stesso Calasso. Non entro nel merito perché ci sarebbe da fare un discorso troppo lungo e complesso e ideologico e forse inutile. Certo è che, in termini «religiosi», se questi testi sono arrivati a noi è per una ragione, ed è forse anche questo che li rende così speciali agli occhi del lettore attento).
«Non certo metaforica la scrittura di Kafka – e neppure certo allegorica. La sua forma andrà piuttosto avvicinata a quella della parabola?» (Massimo Cacciari, Hamletica, Adelphi, 2009). Si chiede Massimo Cacciari in questo eccezionale saggio dalla natura ultimativa e chiarificatoria. La mia risposta: sì, i racconti di Kafka sono delle parabole, fatte della stessa sostanza dei testi biblici, di quelli del Talmud o del Libro dei morti egizio. Sono testi sacri.
Difficile, anzi, difficilissimo, forse impossibile, dire perché Kafka riesce in questa contrazione mistica della letteratura, dire cosa stia raccontando o quale sia il messaggio sotteso tra le sue parole. Esattamente come un testo sacro. Che, come tale, può essere interpretato in molti modi. Anzi, deve essere re-interpretato, di continuo, per sempre. Questa è la sua vita e il suo destino (il suo uso rituale? Anche).
Johannes Urzidil – il giovane scrittore che ebbe il coraggio di parlare di Kafka durante la cerimonia tenutasi a Praga a due settimane dalla sua morte – scrive: «Davanti alla legge [uno dei brevissimi racconti di Kafka, questo, però, pubblicato quando l’autore era ancora in vita] è paradigmatico di tutta l’opera teologica di Kafka, questa interminata (perché interminabile) disputa con Dio che solo in alcuni rari momenti di armistizio trova conforto nel motto: “Scrivere come forma di preghiera”». (Johannes Urzidil, Di qui passa Kafka, Adelphi, 2002). Ecco, ancora: i testi di Kafka sono parabole, preghiere, salmi, koan, mantra, sono dei testi spirituali e sacri. Per ciò ne mantengono la forma: sono brevi, a volte brevissimi: quattro o cinque righe di parole dense di senso e di esso, al contempo mancanti, piene di esitazione e paradosso. Tuttavia non si tratta qui di una brevità tecnica, cervellotica, schematica o condizionata dal ragionamento. Essa deriva – esattamente come una pratica spirituale – dall’esperienza.
Kafka «comprese che bisogna scrivere tutto di un fiato: non solo i racconti, ma anche i grandi romanzi, come l’Èducation sentimentale, che aveva sognato di leggere in una volta sola ai suoi ascoltatori: “Soltanto così si può scrivere, soltanto in una simile connessione, con una completa apertura del corpo e dell’anima”.» (Pietro Citati, Kafka, Adelphi, 2007). E questo modo di concepire l’atto dello scrivere si è riversato, inevitabilmente, sia nel contenuto – dal punto di vista, sempre spirituale, volto all’invisibile, che abbiamo preso in considerazione fin ora – come, evidentemente, nella forma.

Fra i racconti di Kafka ve ne sono pochi che abbiano l’interesse della Condanna: «Questa storia» dice il Diario in data 23 settembre 1912 «l’ho scritta tutta d’un fiato nella notte dal 22 al 23, dalle dieci della sera alle sei del mattino. Potei appena ritrarre di sotto la tavola le gambe diventate rigide a forza di restare seduto. La fatica e la gioia erano terribili, mentre vedevo come la storia si sviluppava davanti a me, come ero trasportato avanti dalle acque. A più riprese, nel corso di questa notte, mi portai sulle spalle tutto il peso di me stesso. Come ogni cosa può essere detta, come, per tutte le idee che vengono in mente, per le idee più strane, è già preparato un gran fuoco, in cui esse scompaiono e rinascono...»
(Georges Bataille, La letteratura e il male, SE, 2006)

Il tempo e le condizioni in cui un autore opera sono l’opera stessa, o perlomeno, di certo, influiscono sulla forma in maniera sostanziale. Basta fermarsi – un invito, per il lettore, a farlo adesso – e dare una lettura alla decina di pagine che compongono La Condanna. Dopo averlo fatto, ora, risulterà lampante – lo so per esperienza – quanto abbiano influito «la fatica e la gioia», il silenzio di quelle ore notturne, il dolore alle gambe, il pensiero rivolto ai doveri del giorno seguente, il sonno. L’ossessione di dover terminare il racconto prima che il sole nefasto porti il mondo dentro la sua stanza.
Per Kafka scrivere è pregare. Per il mistico pregare significa credere, fino alla fine, fino alla morte, fino all’illuminazione, a qualsiasi costo e attraverso qualsiasi sofferenza; e con la consapevolezza che questa ricerca è, di fatto, assolutamente insensata, e anche per questo ha senso: il senso.
Scrivere, per Kafka, significa ri-velare il significato, smascherare il mondo; eppure non saperlo mai. Significa avere fede.
Ecco, forse, meglio: l’unico modo di leggere Kafka è credere.
Per Przywara la parabola nasce dalla similitudine viva, dalla similitudine che si fa storia, racconto, che si arrischia al di là del suo senso immediato verso il fuoco controverso delle interpretazioni, che è in se stessa per essere tradita. La parabola autentica non può mai, ‘alla fine’, ri-convergere al suo cuore, alla sua origine e disvelarne il significato. La parola ri-vela. Nella sua parola il ‘fuoco originario’ si avverte e perdura, ma, appunto, solo in quanto espresso, ri-velato – e perciò mai ‘recuperabile’ nella sua essenza. Di esso può esservi attesa, nostalgia, ma come della parola che sempre ci manca. La condizione essenziale della parabola può essere spiegata col paradosso evangelico: chi vede me (chi mi ascolta, mi ‘raccoglie’ in sé, mi ‘legge’) vede il Padre (in me vive quindi il significato ultimo), ma il padre nessuno lo vide mai.
(Massimo Cacciari, Hamletica, Adelphi, 2009)

 

L’effetto della parabola

Raccontavo, all’inizio, dell’articolo che ho scritto qualche mese fa sul piccolo preziosissimo libro di Francesco Permunian su Bruno Schulz. In quell’occasione mi era sembrato essenziale accennare alla questione che qui riporto a galla utilizzando lo stesso riferimento, tratto da un interessante libro che raccoglie tutti gli interventi di Franco Fortini nei riguardi di Kafka. Fortini scrive: «il carattere di parabola (e non di poesia) di quei libri chiede un commento perpetuo che poco a poco si incrosti nel testo medesimo ed entri progressivamente a farne parte, come è accaduto a tanti testi antichi e soprattutto, nella cultura ebraica, al Testamento. L’atteggiamento di sempre nuova domanda, che è del lettore-critico di fronte all’ambiguità del testo kafkiano, è previsto e richiesto dall’autore – come i suoi antenati talmudisti – perché quell’atteggiamento fa parte del rituale». (Franco Fortini, Capoversi su Kafka, Hacca edizioni, 2018). Fortini, con grande lucidità, punta il suo occhio attento nuovamente sull’evidenza di un vero e proprio «misticismo kafkiano». C’è una religione della Letteratura in Kafka. Lo dimostrano i tantissimi libri di ogni sorta che circondano e compendiano la sua opera. Non sono testi fermi, di pura analisi – oh dio, ci sono anche quelli, purtroppo – perlopiù sono testi creativi, che dal magma energetico della fucina di Kafka prendono il potere di una sempre nuova creazione e di una ricerca perpetua, anch’essa spirituale e mistica. Ci sono i libri già nominati: Kafka (Adelphi, 2007) di Pietro Citati – e chi ha letto anche solo una sua riga sa come Citati riesca a trasformare il racconto biografico in un puro flusso letterario; ci sono i saggi di Blanchot e Bataille: Lo spazio letterario (Il Saggiatore, 2018) e La letteratura e il male (SE, 2006); l’Hamletica (Adelphi, 2009) di Massimo Cacciari; Di qui passa Kafka (Adelphi, 2002), K. (Adelphi, 2002), Capoversi su Kafka (Quodlibet, 2018) e ci sono quelli che ancora non ho nominato e quelli che non nominerò, come quello di Philip Roth: «Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno» ovvero, guardando Kafka (Einaudi, 2011) interessante rielaborazione critica e biografica, seguita da un racconto, molto divertente, dove si ipotizza che Kafka non sia morto e sia sfuggito alla guerra emigrando negli Stati Uniti. C’è, da quest’anno, Una variazione di Kafka (Sellerio, 2018) di Adriano Sofri, un’indagine filologica che è anche una narrazione e un’immagine nuova – con uno sguardo incredibilmente originale – di questa inconoscibile figura: il perfezionista Franz Kafk. Libro davvero entusiasmante. C’è la biografia di Max Brod: Franz Kafka (Passigli, 2008). E potremmo continuare con le lettere, i diari, i racconti – Le conversazioni con Kafka (Guanda, 2005) di Gustav Janouch, per esempio – e le raccolte tematiche, critiche, commentate. I libri in cui appare Kafka personaggio. E via dicendo... C’è un libro, pubblicato da Adelphi: Questo è Kafka? (Adelphi, 2016) di Reiner Stach ­– colui che ha curato la monumentale biografia di Kafka in tre volumi, mai tradotta in Italia – in questo libro Stach raccoglie 99 frammenti (letteralmente qualsiasi cosa: foto, pagine, lettere, oggetti, testimonianze) per ripensare gli stereotipi che aleggiano attorno all’idea della sua persona. Mi ha subito colpito l’incipit del libro. Nella premessa Stach scrive: «In alcuni infonde paura. Altri, senza nemmeno leggerlo, ma avendone sentito parlare, temono che possa incutere paura. Qualcuno ne ricava tristezza, senza saper dire perché. Altri ancora sentono aleggiare la depressione nei suoi libri, e dunque ripongono prudentemente quegli esili volumi». E anche a me, devo ammettere, faceva molta paura. Ma poi Stach continua, qualche pagina dopo: «il segreto della sua ineguagliata creatività è rimasto in larga parte inviolato, e «capire» Kafka continua a essere, in linea di principio, un compito inesauribile.», concordando, fondamentalmente, con la prosa densissima di Fortini e con l’idea che me ne sono fatto io stesso superata la paura e i tristi stereotipi: bisogna leggere e capire Kafka, anche se questo può voler dire ossessionarsene e avere paura; perché i suoi enigmi nascondono ancora domande irrispondibili e questioni irrisolvibili che sprigionano una potenza creatrice misteriosa, ossessionante e fulgida.
Infine, in questa mia carrellata, c’è un libro fondamentale, che non posso trascurare, che ha chiarito moltissime idee che stavano formandosi su Kafka, ma anche sulla letteratura in generale e sul modo stesso di fare critica. Sto parlando di Kafka. Per una letteratura minore (Quodlibet, 2010) del duo Gilles Deleuze - Félix Guattari (che scrive anche un altro libricino, a mo’ di appendice: Sessantacinque sogni di Franz Kafka, Cronopio, 2008). Questo libro, già dalle prime pagine chiarisce benissimo la loro posizione critica e la posizione che suppongo abbiano avuto tutti quegli autori che ho citato fino ad ora. L’unica posizione possibile – a mio parere – per approcciare Kafka con quell’«atteggiamento di sempre nuova domanda» di cui ci parla Fortini.
«Non cerchiamo affatto di trovare degli archetipi» scrivono, spezzando già una certa tradizione, questi due pensatori d’avanguardia, che sembrano venuti dal futuro, «archetipi che sarebbero l’immaginario di Kafka, la dinamica o il bestiario kafkiani – l’archetipo procede per assimilazione, omogeneizzazione tematica, mentre noi troviamo la nostra regola solo quando una piccola linea eterogenea, in rottura col resto, riesce a infiltrarsi». In Deleuze e Guattari c’è una posizione artistica: non ci interessa creare somiglianze, trovare una soluzione, sciogliere il problema o il mistero kafkiano. Vogliamo registrare l’anomalia, tutto quanto v’è d’anormale, l’eccezione, la diversità. Da quello creiamo. E continuano: «Noi crediamo soltanto in una politica di Kafka, che non è né immaginaria né simbolica». Crediamo in Kafka. «Crediamo a una o più macchine di Kafka, che non sono né struttura né fantasma». Dicono quindi che effettivamente c’è una tecnica, c’è uno spettacolo, c’è un artigianato, c’è la scrittura e la forma, in Kafka. Ma non è razionale, è mistica. È credere e cercare. Ancora: Noi crediamo in Kafka. Noi «crediamo solo a una sperimentazione di Kafka: non interpretazione o significanza ma protocolli d’esperienza». In pratica: solo pregando si può comprendere il vero significato della preghiera. Per questo, noi preghiamo. Questo ci dicono Deleuze e Guattari. E la loro è una preghiera al pari di quanto lo sono i commentari di Guido Ceronetti al Cantico dei Cantici (Adelphi, 1992) o al Qohélet (Adelphi, 2001). L’effetto rituale della preghiera kafkiana ci stravolge e ci fa bene, esattamente come recitare il rosario o partecipare a una seduta di meditazione. Per questo, ci dice Stach: «vi è nondimeno una parte di lettori – e il loro numero non è diminuito nel corso dei decenni – che si entusiasmano per la sua prosa e la ritengono il massimo piacere che la letteratura possa offrire». (Questo è Kafka?) Fedeli di ogni dove, sorelle e fratelli miei.
 

La parabola dell’assenza (o di quegli scritti di Zürau)

A causa della già citata questione che riguarda i manoscritti di Kafka pubblicati postumi da Max Brod contro il volere dell’autore, mi sono esentato dal trattare dell’aspetto incompiuto dei testi, che carica di possibilità interpretative la sua opera. Tuttavia non posso esimermi dal considerare, come indispensabile completamento del mio discorso, uno dei libri più interessanti che furono pubblicati dopo la sua morte. Venne dato alle stampe da Max Brod nel 1946 con il titolo Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via. Oggi è possibile trovarlo, in Italia, curatela di Roberto Calasso, con il titolo Aforismi di Zürau (Adelphi, 2004). Si tratta di un libro che raccoglie il contenuto di 105 foglietti, numerati dall’autore, scritti tra il 1917 e il 1918, mentre era ospite della sorella Ottla nel villaggio di Zürau. Ma questi frammenti sono qualcosa di più complesso. Lo spiega bene Calasso nel saggio accluso al libro di Kafka (che riappare anche nel suo K. come ultimo capitolo – dato, a mio parere, più che significativo rispetto alla considerazione di valore data a questo libro da quasi tutti i critici): la parola «aforisma» è sviante, se si intende la parola nel senso corrente di «sentenza». Alcuni di questi frammenti sono narrativi (per esempio 8/9, 10, 20, 107), altri sono singole immagini (per esempio 15, 16, 42, 87), altri sono parabole (per esempio 32, 39, 88). Una simile mescolanza si incontra nella tessitura dei Diari di Kafka. Però qui ogni ridondanza, ogni accidentalità, ogni insistenza è abolita. Nella loro asciuttezza e ingannevole limpidezza, queste frasi hanno qualcosa di ultimativo. Sarebbe vano esigere una amplificazione o concatenazione. Sono i tratti subitanei del pennello di un maestro vecchissimo, che si concentra tutto in quelle minime oscillazioni del polso guidate da un «occhio che semplifica fino alla desolazione totale». Così Kafka avrebbe definito il suo sguardo in una lettera di quel periodo. 
Questo libro, questi centocinque foglietti quadrati, formano quello che potremmo chiamare Il libro sacro di Kafka. Qui la Letteratura diventa davvero religione. E sempre attraverso la forma e la sua distorsione. In poche righe Kafka racchiude tecniche diversissime, racconti paradossali, momenti di illuminazione vera e propria; la saggezza dei testi antichi orientali. La forza dell’aforisma e la sua ambiguità misterica. «Come il Tao-te ching e il Chuang-tzu, gli Aforismi di Zürau sono, in primo luogo, la storia di una “via” e di come percorrerla, fino al punto d’arrivo». C’è della filosofia? Forse sì, ma è scevra da qualsiasi logica, arriva al significato per pura intuizione, per paradossi, per errori, «Qual è dunque la strada? La prima risposta ci sconvolge: non c’è alcuna via, nemmeno un viottolo di montagna». Sì, ecco: forse questa è la filosofia di Kafka, o almeno lo stereotipo attraverso cui siamo abituati a concepirla, ma «poi c’è una correzione: “La vera via passa su una corda”; e per percorrerla bisogna essere un equilibrista a braccia aperte, uno di quelli che il giovane Kafka amava». Ecco cosa fa Kafka: vive l’esperienza, nella scrittura. Porta la Letteratura a sé, egli stesso si fa Letteratura. «Ma ecco una nuova difficoltà: la corda non è tesa in alto, tra le finestre di due case sopra una piazza, ma appena al di sopra del suolo, e probabilmente bisogna camminare senza mettere piede a terra». La risposta di Kafka, a se stesso, è sempre, in qualche modo, insensata. Kafka, l’ho detto, è un mistico. Ci dice cose come: bisogna chiudere gli occhi e ascoltare il respiro fino a trascendere il corpo e raggiungere l’illuminazione. «Come è possibile? Il rischio è che la “vera via”, quella che ci doveva portare in alto, ci faccia inciampare e cadere al suolo, come un goffo acrobata senza ali o l’albatros di Baudelaire – senza cessare, per questo, di essere la vera via». (Pietro Citati, Kafka, Adelphi, 2007) Esattamente: credere nell’ignoto e tuffarsi nell’abisso a occhi chiusi, pur sapendo che s’incontrerà solo il vuoto, il nulla e nulla più.
Le parabole di Kafka, le sue preghiere, i suoi canti sommessi e silenziosi, comunque li si voglia chiamare: i testi di Kafka richiamano alla fede, alla vera funzione della Letteratura, alla catarsi, ai misteri eleusini; alle frasi, dalla saggezza paradossale, dell’I Ching. L’opera kafkiana è un corpus unico di frammenti che hanno storie diverse, scritti da un vecchissimo maestro la cui anima illuminata ha smascherato il mondo che si è torto davanti al suo sguardo che «semplifica, fino alla desolazione totale».

 109. «Che manchiamo di fede non si può dire. Già il semplice fatto che si vive è inesauribile nel suo valore di fede».
«In questo ci sarebbe un valore di fede? Ma non è possibile non-vivere».
«Appunto in questo “non è possibile” risiede la forza folle della fede; in questa negazione essa acquista forma». [...]
F. Kafka, Aforismi di Zürau (Adelphi, 2004)