Una linea nel mondo, di Dorthe Nors

di Debora Lambruschini

In alcuni autori, presto o tardi, si delinea una geografia narrativa ben riconoscibile, fatta di tematiche, modo di abitare le storie, occorrenze, luoghi perfino. Una mappa per mezzo della quale orientarsi nelle terre della scrittura, in qualsiasi forma questa arrivi. Per Dorthe Nors, tra le maggiori scrittrici danesi contemporanee, la similitudine con la geografia assume un significato ulteriore, anche letterale, soprattutto con l’ultimo testo pubblicato, Una linea del mondo, tradotto da Eva Valvo per Iperborea. Autrice di racconti e romanzi, Nors costruisce in questo caso un testo ibrido, tra saggio narrativo e memoir: l’intreccio di persone e luoghi, stella polare della sua scrittura, si fonde qui perfettamente, a comporre una narrazione in cui al racconto del viaggio, dei luoghi e delle persone che li abitano si legano, tra le altre, riflessioni e spunti sulla tensione tra andare e restare, sulle radici, sul cambiamento climatico e l’impatto dell’uomo sull’ambiente, sul turismo incontrollato, sul rapporto uomo e natura. Una linea del mondo è in prima battuta un viaggio reale:

L’estate è iniziata da poco e sotto i miei piedi si allunga una linea di costa che ho srotolato sulla scrivania come una carta geografica. […] Una linea di costa lunga un migliaio di chilometri. Da Skagen in Danimarca fino a Den Helder nei Paesi Bassi.

Luoghi che nell’immaginario del lettore italiano – quantomeno nella sottoscritta – non sono così chiaramente radicati, spesso avvolti da una certa aurea fiabesca, l’impronta di qualche stereotipo di troppo difficile da scrollarsi di dosso. Seguire Nors lungo quella linea di costa, anche se solo attraverso la pagina, significa quindi avvicinarsi un po’ di più alla realtà, scoprendo tanto la geografia quanto le storie che contiene. Le storie sono quelle delle persone che abitano le terre, perno dell’universo narrativo dell’autrice, attenta a raccoglierne le testimonianze, restituirne le voci. Un anno di viaggio, mille chilometri percorsi lungo la costa dall’estremo nord della Danimarca fino alla punta più a sud dei Paesi Bassi, costantemente battuta dal mare, diventa perciò l’occasione per raccontare e raccontarsi, attingendo dall’esperienza personale – mai fine a se stessa – , dal quotidiano, dalla storia, dal folklore. Eccoci dunque seguire Nors su strade e sentieri, tra i canali di Amsterdam e, particolarmente affascinante, alla ricerca dell’antica abbazia di Børglum – che ha la tendenza a scomparire – o, ancora, tra la comunità matriarcale che vive nelle Frisone settentrionali.

Era terribile anche quando lui non tornava. Lei rimaneva vedova, in un paese pieno di vedove e nubili, che così andavano a vivere insieme, badando le une alle altre e ai bambini. I loro piedi crearono un ingegnoso sistema di sentieri tra le case dei marinai e le abitazioni in comodato per gli anziani. Era un piccolo sistema economico basato su cura reciproca, frutta sciroppata, pesce essiccato, pettegolezzi,
controllo sociale e soldi.

 

Nors raccoglie le storie che incontra lungo il suo cammino, talune le va a ricercare, tra passato e presente, e quello che arriva al lettore è un racconto multiforme, ammaliante, che si muove su registri diversi, corredato da schizzi – per mano di Signe Parkins – a perpetuarne l’idea del taccuino di viaggio, in una forma ultima che è tanto anche diario intimo quanto collezione di storie.
Viaggiare in queste terre significa necessariamente confrontarsi con la natura e il racconto di Nors ne restituisce tutta la potenza, la forza incontrollabile, la mutevolezza, l’influenza sui popoli che abitano quelle terre. Lo fa per mezzo di una lingua affabulatoria, immaginifica e puntuale insieme, multisensoriale per come riesce a restituire al lettore visioni, odori, suoni.

Nelle pinete dunali gli alberi si spezzano come grissini. Il rumore del legno vivo che si spacca sembra uno sparo. Sembra un atto di violenza, anche se non è intenzionale. Energia in movimento, incontrollabile. A questa roba bisogna dare un nome, perché i nomi ancorano l’ignoto alla terra. Così le tempeste si chiamano Bodil, Allan e Ingolf: nomi affidabili, scritti nero su bianco, con le scarpe comode, strappati alla brutalità dell’universo.

La natura raccontata da Nors, il paesaggio che attraversa nel suo viaggio, è meravigliosa e brutale, e ha nel mare il suo centro: un mare selvaggio e indomabile, di una bellezza struggente che non fa mai dimenticare però neanche per un attimo la sua forza incontrollabile, il pericolo che rappresenta. E apre, inoltre, a una serie di riflessioni correlate che partono dal rapporto uomo-natura per ramificarsi in considerazioni su quanto profonda sia l’influenza dei luoghi su coloro che li abitano, l’impatto dell’uomo sull’ambiente naturale, fino ad arrivare al discorso sul turismo incontrollato.
La convivenza tra locali e forestieri porta sempre con sé una serie di problematiche che per certi versi accomunano tanto un borgo di mare del levante ligure quanto le cosiddette “Cold Hawaii”, sulla costa danese. Quel che un tempo era un villaggio di pescatori e tappa di uccelli migratori è diventato in anni recenti meta prediletta dei surfisti, con tutto ciò che un così radicale mutamento nelle abitudini locali ha comportato. Quello delle Cold Hawaii è solo uno dei numerosi esempi di un fenomeno cui tutti quanti in certa misura siamo oggi tenuti a confrontarci, ora nel ruolo dei locali ora in quello dei turisti. Lungi dal voler scrivere un pamphlet contro l’overtourism, il viaggio-racconto di Nors naturalmente non può però ignorare una questione tra le più urgenti dei nostri tempi, i cui effetti hanno un impatto profondo e ramificato su luoghi, persone, identità, economia.
Il viaggio di Nors tra i fiordi, si diceva, è tanto nel presente quanto nella storia dei luoghi che attraversa, di cui si fa testimone. E, ancora, è un viaggio in cui si intrecciano inevitabilmente anche suggestioni personali, ricordi, esperienze, ognuna però sempre attenta a riportare lo sguardo all’esterno, oltre l’io individuale. È su questo che l’autofiction o lo spunto autobiografico possono farsi letteratura e giungere altrove. Per Nors il ricordo e l’esperienza personale appaiono come il punto di partenza per arrivare all’altro, a noi, lettori, esseri umani. Su questo nodo personale, su un’esperienza soggettiva, costruire riflessioni più ampie, dall’eco estesa. Come, per esempio, una riflessione su radici e desiderio di andare nel mondo, tensione sottile ma costante che si avverte lungo tutta la narrazione e da cui si irradiano diverse considerazioni possibili, dal rapporto con i luoghi in cui siamo nati alle opportunità e il desiderio di scoperta, le aspettative, la rassicurante geografia di un ambiente familiare, l’identità e la «scissione» di chi sceglie di andarsene. Particolarmente interessante il punto di vista dell’autrice sull’impossibilità di tornare in un certo senso al luogo da cui si proviene:

Questa però è solo una faccia della medaglia, Kerstin, penso. L’altra faccia è questa: nel posto da cui provieni non potrai più tornare. Non esiste più, anche tu sei diventata un’altra, troppo cittadina, troppo strana, troppo rumorosa per essere assimilata. Ma ogni identità nasce da una scissione. Non riuscirò mai a fare a meno di quel luogo, l’ho sempre saputo, anche da ragazza. Perciò adesso cucio le mie imbastiture geografiche tra la vita su questa linea di costa e la grande città che mi travolge. Ho bisogno della varietà, delle conversazioni, delle persone di là, ma non posso fare a meno del paesaggio, della natura di qua.

Di qua, di là, la costa, la città, chi eravamo e chi siamo diventati, l’impossibile ritorno. Le parole di Nors fanno ordine a pensieri e sentimenti condivisi, non offrono soluzioni ma modi diversi di guardare le cose, nuovi interrogativi da porsi, altre consapevolezze da acquisire. E, infine, torna tutto a quel centro, il rapporto con il paesaggio, con quella geografia che è il perno della narrazione. Un anno, mille chilometri, innumerevoli storie e possibili svolte.