Le maschere del passato, di Michele Orti Manara

di Alice Pisu

 

Con Le maschere del massacro (Racconti edizioni) Michele Orti Manara sviluppa un maestoso e lirico preambolo al tragico in forma di novella nera. Identifica nel narratore anonimo la voce che guida chi legge in un duplice viaggio, fisico e trascendente, per scandagliare paure e ossessioni attraverso il prisma della giovinezza, terreno d’indagine narrativa anche della forma breve, in particolare nelle raccolte di racconti Il vizio di smettere (Racconti edizioni) e Cose da fare per farsi del male (Giulio Perrone editore). L’opera studia gli inganni nella percezione dell’altro, la convivenza con l’inadeguatezza e l’insoddisfazione, il potenziale sottovalutato di astute manipolazioni, la follia sospesa nell’atemporalità, in un continuo gioco di specchi dove la verità è ineffabile.
In una città di provincia degli anni Novanta il protagonista trascorre le sue giornate con un senso di perenne infelicità; è un liceale di quarta considerato un asociale, proviene da una famiglia segnata dal disagio psichico della madre, preda di un’instabilità sedata per via farmacologica che la rende assente e priva di volontà. Il quotidiano è turbato dalla conoscenza di Zoe, nuova compagna di classe tenebrosa e introversa, bersaglio di maldicenze in merito alla presunta condotta sessuale dissoluta con uomini maturi. Figura carismatica per i suoi silenzi, vive in una villa imponente, controllata da un maggiordomo che sopperisce l’assenza per lavoro del padre e l’internamento psichiatrico della madre.
La frequentazione tra l’anonimo narratore e la ragazza sancirà un tempo nuovo, condizionato dalla marcata repulsione per l’intimità che lei inconsciamente usa per proteggerlo da conseguenze fatali. Quel legame si rinsalda anche attraverso un dolore sotteso condiviso: la mancanza di una figura materna e la ricerca di un’evasione.
Il titolo della novella fa riferimento a un brano musicale inglese ascoltato insieme, che al contempo simboleggia la canzone della coppia e preconizza l’avanzare dell’inesorabile. Gli ingrandimenti su eventi minimi e piccole avventure condivise accendono provvisoriamente l’euforia adolescenziale, illuminano le rispettive solitudini, sollevano interrogativi sull’insensatezza del vivere.

“Zoe dice: «Ho sempre creduto che “Nello spazio nessuno può sentirti urlare” si riferisse alla solitudine, alla desolazione dell’astronauta. Poi ho letto da qualche parte che, non essendoci atmosfera, nello spazio il suono non può propagarsi, e mi sono resa conto che forse la frase si riferisse a questo.»
«Ci pensi?» dice Zoe. «Una totale mancanza di rumori, e nessun punto di riferimento. E allora quella frase mi è sembrata ancora più spettrale, ancora più definitiva. Un silenzio irreversibile, come una mutilazione.»

 

L’alternanza di capitoli porta a seguire in parallelo l’evoluzione del rapporto con Zoe e le avventure del narratore nel suo primo viaggio da solo verso l’Olanda. Tale struttura rifugge la linearità temporale e genera un iniziale smarrimento, funzionale a un graduale dispiegamento di meccanismi complessi, legati alla paura della compromissione emotiva e al controllo dell’altro, a raggiri biechi e alla natura irrinunciabile di una relazione incompleta e insoddisfacente.

 

“Forse la malinconia è solo un effetto collaterale del viaggiare da soli, penso, attaccata alla pelle come un vestito umido. Allo stesso tempo però ho l’impressione che mi dia accesso a una specie di ipersensibilità”.

 

Ancora una volta la dimensione famigliare si rivela il terreno d’elezione di Michele Orti Manara per misurare l’anomalia che incarna drammi senza nome. Si interroga per voce del suo narratore sulla tensione interiore tra pulsioni sessuali adolescenziali e rifiuto del corpo, sul valore dell’attesa e su una falsata idea di protezione che cela l’esigenza di predominio. Quest’ultimo aspetto prende forma attraverso la figura del padre: per Zoe rappresenta una minaccia e un controllo continuo. Per il protagonista, invece, quel Signor S. incarna un prestigiatore in grado di sviare l’attenzione dalla propria natura inquietante – come dimostra lo studio colmo di orologi di ogni tipo con variazioni minime non casuali – per tessere piani astuti.

“Il passato veniva riscritto, deformato in modo da adattarsi al delirio del presente”.

Riluce un’acuta indagine sulla violenza che principia dai suoi segnali primigeni riconosciuti nel movimento di figure smarrite, innocenti, inette. Ogni viaggio ne contiene innumerevoli altri, sorprendenti perché vissuti nell’incoscienza e nell’inesperienza delle cose del mondo, condizione ideale per l’autore per sostanziare nella purezza uno studio narrativo sull’ineffabilità del vero.
Con una prosa lirica e evocativa, Orti Manara apre varchi sull’ignoto nel racconto dello scenario surreale in cui piomba il giovane a causa dell’assunzione di stupefacenti: in un intenso passaggio si perde a osservare le assi sul fondo del letto, sorpreso nel notare l’aggrovigliarsi di venature e circonvoluzioni più scure divenute un labirinto.

 

“Dopo un po’ che le osservo, in cerca di un’uscita che forse non c’è, su una compare un ragno, che l’attraversa pigramente a testa in giù. Gambe esili, corpo gonfio e così nero che a guardarlo bene smette di essere un ragno e si trasforma in un buco, un piccolo pozzo oscuro e semovente, spalancato sul buio che c’è dietro alla realtà. Se lo tocco, penso, si allargherà per farmi passare dall’altra parte. Mi perderò nel buio, brancolerò in una notte sconfinata, da cui sarà impossibile uscire”.

 

L’esperienza allucinatoria compiuta dal soggetto narrante lo porta a camminare su un terreno duro e spoglio in assenza di rumori, a finire in un acquitrino da cui tirando una corda emerge una zattera, e a osservare figure umane sulle sponde fagocitate dalla nebbia. Tale prova sancisce il raggiungimento di una nuova dimensione della conoscenza che diventerà lo spartiacque nella perdita d’innocenza del protagonista. Contribuiscono all’allestimento di uno scenario grottesco dal sentore tragico figure che si affacciano sulla pagina acuendo il senso di pericolo imminente, come il vecchio con i capelli lunghi, la barba bianca, la tunica blu, gli occhi rossi infossati, le gengive viola senza denti, che improvvisa un balletto lascivo con gesti e suoni simili a quelli usati per chiamare un gatto.
A distinguere Orti Manara è la capacità di visione profonda, il meticoloso isolamento di intrichi interiori scorti in situazioni di apparente quiete, rendendoli indizi per portare chi legge a fantasticare su evoluzioni incongrue senza mai fornire un appiglio per cogliere una risoluzione definitiva, sulla base dell’impossibilità, in tale complesso universo narrativo, di concepire una visione univoca finale.
Lo studio sull’umano in relazione a nevrosi e ossessioni caratterizza l’intera produzione dell’autore, interessato a mostrare l’impossibilità di coerenza dell’individuo con figure che incarnano una duplice natura, tenere e crudeli, ciniche e folli, spesso incapaci di riconoscersi in ruoli sociali precostituiti e che avanzano nell’esistenza nel vano tentativo di ribellarsi alle aspettative altrui. Ogni soggetto narrato subisce un progressivo inabissamento, reso dall’inseguimento dei loro percorsi mentali.
L’autore sonda il disordine interiore vissuto da chi si sente perennemente scisso e incapace di attendere le aspettative altrui, attraverso uno studio sulla violenza sottile che si insinua nel generare un terrore oscuro e un’incertezza tali da sviluppare una necessità di protezione. Risulta centrale il paesaggio urbano nel tradurre nevrosi e inquietudini, e nel chiamare in causa chi legge per muoversi all’interno di uno scenario deformato.
Lo sguardo dello scrittore si insinua nelle pieghe del trauma per scrutare i vincoli dei legami, la tensione tra desiderio e repulsione, la contaminazione di tenere illusioni, i dolori irreversibili. Con Le maschere del massacro Michele Orti Manara compone una novella sulla perdita di sé, intona un canto tetro sugli abbagli del reale.