Tre isole, di William Atkins

di Giordana Restifo


«Abbi cura di far tornare in una piccola urna le mie ossa.
Così non sarò esule anche da morto
»

Ovidio, Tristezze

 

Esilio – e-si-lio: allontanamento dalla patria. Dal latino “exilium” da “exul” esule, a sua volta composto da “ex” fuori e “solum” terra. Lontano, via dalla (propria) terra. Nella storia sono esistite diverse tipologie di esilio e diverse tipologie di esuli. In ogni caso, si è trattato quasi sempre di una forma di tortura, una pena inflitta ai dissidenti, agli insubordinati, agli oppositori e ai ribelli. Scrive proprio di ciò il giornalista britannico William Atkins nel suo libro Tre isole. Storie di mare, esilio e dissidenza, originariamente edito nel 2022 da Faber & Faber con il titolo Exiles: Three Island Journeys, e pubblicato anche in Italia quest’anno da Iperborea con la traduzione di Luca Fusari.
Nel 2016, colpito profondamente da due immagini simili eppure così distanti tra loro, Atkins decide di affrontare il tema della migrazione, della prigionia e dell’esilio. Una foto, vista su internet, riguardava le migliaia di giubbotti di salvataggio abbandonati sulle spiagge greche dai migranti che avevano attraversato l’Egeo dalla Turchia; l’altra era una situazione vista mesi prima con i propri occhi camminando nel deserto dell’Arizona: mucchi di zaini sul ciglio delle strade e nel letto dei torrenti in secca lasciati dai migranti che valicavano clandestinamente la frontiera con il Messico dall’America Centrale e non solo. Un segno dei tempi moderni che racconta una storia più grande di migrazioni umane.
Il confino, una migrazione forzata e imposta da un impero, da un governo, è un tipo di esilio le cui origini risalgono all’antica Roma, e, infatti, l’esergo di Ovidio è stato scritto proprio durante il suo esilio a Tomi (nell’odierna Romania), inflittogli dall’imperatore Augusto. Lo scrittore britannico ha scelto di raccontare di tre esuli vissuti nel XIX secolo, «un’epoca in cui l’imperialismo europeo era più rapace che mai»: Louise Michel, anarchica francese a capo della Comune di Parigi e amica di Victor Hugo; Dinuzulu kaCetshwayo, figlio dell’ultimo re zulu riconosciuto dai coloni britannici e nemico di questi; Lev Šternberg, rivoluzionario ebreo ucraino, dissidente antizarista e padre dell’etnografia russa.

 

«Mi hanno attratto perché la loro vita fu condizionata da venti che soffiano forte anche oggi – il nazionalismo, il dispotismo, l’imperialismo – e per il modo in cui ciascuno di loro reagì alla condanna; per come riuscirono ad assorbire la batosta dell’esilio, e a far sì che l’espulsione dalla madrepatria rafforzasse il loro senso del dovere, anziché smorzarlo».
«Oltre che a separare un popolo dal suo leader, l’esilio dovrebbe servire anche a separare il leader dalla fonte della sua energia», invece sono sopravvissuti tutti e tre, ognuno con i propri mezzi, e sono tornati alle loro “case”, ma a che prezzo?

L’autore divide il suo viaggio in tre macro capitoli che si snodano tra passato e presente: I – sulle vite dei tre personaggi prima dell’esilio; II – sulla permanenza nelle sperdute terre di confino in cui vengono mandati e che lui visita personalmente; III – sul ritorno nelle loro patrie. 

Louise Michel nacque nel 1830 a Vroncourt, nell’Alta Marna, circa 270 chilometri a est di Parigi; la sua vita, fino al trasferimento nella capitale francese che avvenne a ventisei anni, trascorse in mezzo alla natura e agli animali, con cui aveva un legame molto forte. All’età di ventitré anni fondò una scuola vicino Vroncourt, quando si trasferì a Parigi insegnò dapprima nella scuola di una certa Madame Vollier e poi riuscì ad aprirne una sua. Non ambì mai a ottenere incarichi politici, la sua era una lotta contro le cause della sofferenza, partecipò a campagne per i diritti delle donne lavoratrici e sapeva bene che «uguaglianza significava aver diritto non soltanto all’istruzione e a un salario, ma anche a sacrificare la propria vita». La rivoluzione era in arrivo, l’impero di Luigi Napoleone sarebbe stato presto rovesciato e così, nel 1871 fu eletto un nuovo governo repubblicano e nacque la Comune. Durante i disordini Michel aveva badato ai feriti, ma poi aveva impugnato una carabina unendosi al 61° battaglione della Guardia Nazionale. La data del 16 maggio 1871 segna la fine irreversibile del vecchio ordine e inaugura la settimana più terribile mai vissuta a Parigi, la “Settimana di Sangue”. Michel fu rinchiusa in un campo di detenzione a sud di Versailles e incriminata, davanti alla Corte marziale, per insurrezione, istigazione alla guerra civile, possesso e uso di armi, falsificazione e complicità in arresti illegali, torture, omicidi. Nel 1873 Louise Michel, a bordo della fregata a vela Virginie, partì per il suo esilio in Nuova Caledonia, isola nel sud dell’Oceano Pacifico divisa tra identità tribale kanak e dipendenza dalla Francia.

Nel 1879, Cetshwayo, ultimo re dello Zululand (nel Sudafrica) riconosciuto dai britannici, rifiutò di sciogliere i suoi reggimenti militari, come gli era stato imposto dai coloni. Questi ultimi scatenarono un’invasione che distrusse la capitale e uccisero oltre mille zulu. Cetshwayo fu catturato, confinato a Città del Capo e costretto ad assistere da lontano all’ennesimo smembramento del regno zulu.
«La priorità britannica nello Zululand continuava a essere la soppressione di qualunque potenza indigena centralizzata» e per tale motivo in Africa i britannici utilizzavano l’esilio come arma dall’inizio del XIX secolo. Mentre accadono queste vicende, Dinuzulu kaCetshwayo, il figlio del re, è soltanto un bambino di dieci anni. Qualche anno dopo organizza il proprio esercito e la propria vendetta. Tra la fine del 1888 e l’inizio del 1889 il Tribunale dei commissari speciali di Eshowe esamina i casi di diversi uomini tra i quali Dinuzulu e i suoi zii Ndabuko e Shingana. Nel febbraio 1889 vengono lette le sentenze e i tre vengono accusati, in quanto sudditi britannici, di alto tradimento e condannati rispettivamente a dieci, quindici e dodici anni di prigionia. Così, nel 1890, diciassette anni dopo Louise Michel, Dinuzulu si imbarcò con una delegazione di parenti, medici e assistenti personali, a bordo di una nave a vapore diretta all’isola di Sant’Elena, nell’Oceano Atlantico centro-meridionale.

Lev Šternberg nacque nel 1861 a Zytomyr, città annessa all’Ucraina dalla Polonia nel 1793, tra le poche enclave della Russia occidentale in cui potevano abitare gli ebrei. Crebbe lì insieme all’amico Moisei Krol’, finché all’età di vent’anni si trasferirono a San Pietroburgo per frequentare l’università, lo stesso anno in cui venne assassinato lo zar Alessandro. Entrarono a far parte di ciò che rimaneva del movimento Narodnaja volja (Volontà del popolo); nel 1882 parteciparono a uno scontro tra polizia e studenti che manifestavano contro la riforma dell’istruzione e furono arrestati. Espulsi dall’università tornarono per qualche tempo a Zytomyr e poi si iscrissero alla facoltà di Legge dell’Università di Odessa, dove riformarono una cellula del movimento. Nel 1886 l’appartamento di Šternberg fu perquisito, lui fu arrestato e incarcerato per tre anni (di cui due e mezzo in isolamento) nella prigione centrale di Odessa, dove finì anche il suo storico amico Krol’. Entrambi vennero condannati a dieci anni di «esilio amministrativo», Krol’ nella Siberia nordoccidentale e Šternberg nell’isola russa di Sachalin nell’Oceano Pacifico settentrionale. Il viaggio durò due mesi a bordo della nave prigionieri Pietroburgo. Sin dal XVII secolo la Russia sfruttava la Siberia come destinazione d’esilio, dal 1876 vi arrivavano circa ventimila condannati all’anno, tra criminali e prigionieri politici; una quantità insostenibile, difatti i detenuti morivano per assideramento, malnutrizione e malattie.

 

«Se l’esilio, come spesso lo si racconta, è una forma di tortura, forse la sua fase più crudele è il viaggio stesso, quando il filo che lega l’esule alla sua terra si tende fino alla massima lunghezza tollerabile; quando il prigioniero diventa qualcos’altro, qualcosa di più miserando e di più ambiguo; e quando, nella maggior parte dei casi, la stabilità della terra cede il posto all’incertezza dell’acqua».

 

Sia Louise Michel che Lev Šternberg cercano di rendersi utili durante la loro permanenza obbligata al confino. La prima prova a inserirsi in un clan kanak per studiarne le abitudini, le credenze, la lingua e le tradizioni, inoltre riesce a sopportare la lontananza anche grazie alla natura che la circonda, la foresta, con le liane, i niaouli e i banani, con gli animali che la abitano, la rinvigorisce. E, d’altronde, se ebbe mai nostalgia fu più delle persone (i nonni, la madre) che dei luoghi. Il secondo conduce dapprima una campagna di denuncia sulle condizioni e sul trattamento che ricevono i suoi compagni detenuti, successivamente, punito per i ripetuti appelli, viene confinato in un minuscolo insediamento al nord dell’isola, Viachtu, dove avviene quello che definì il suo «battesimo etnografico». Inizia a studiare l’organizzazione sociale dei ghiliachi (oggi definiti con il loro nome tribale nivchi) e i rapporti tra i membri dei clan, raccoglie una grossa quantità di dati sulla loro religione e sulla lingua; ma soprattutto descrive gli intricatissimi sistemi famigliari degli indigeni. Gli viene, difatti, anche affidato il compito di censire le altre popolazioni indigene dell’isola e così inizia una serie di missioni per compiere il monitoraggio.

La situazione di Dinuzulu è del tutto incomparabile sia con la loro che con quella di tanti altri profughi, prigionieri e schiavi, persino con quella di colui che l’aveva preceduto sull’isola di Sant’Elena e che li era deceduto, Napoleone Bonaparte. Era un re e godeva di uno status da privilegiato, viveva in una residenza molto grande e fresca con tutto il suo seguito, era libero di uscire e andare a passeggiare, organizzava ricevimenti, partecipava ai compleanni della regina e alle feste del governatore. In poco tempo sviluppò un’attrazione per le maniere europee, iniziò a utilizzare abiti europei, cappelli a cilindro e a intessere relazioni con donne bianche.

 

«[…] per ogni celebrato esule politico o scrittore émigré ci sono innumerevoli persone, milioni di senza nome ingoiati dalle navi schiaviste, dalle colonie penali, dai gulag, dai campi di sterminio e dal puro, semplice e buio vuoto dell’espropriazione».

 

Nell’ottobre del 1879 comunicarono a Louise Michel che il suo esilio era terminato ma lei rifiutò di partire finché non fossero stati liberati anche i suoi compagni comunardi. Nel luglio del 1880 fu sancita l’amnistia e così ripartì per la Francia.

Nel 1897 Dinuzulu e la sua comitiva ebbero il permesso di tornare nello Zululand.

Nel maggio del 1897 anche Lev Šternberg ebbe il permesso di fare ritorno a casa, dopo essere stato escluso dal decreto del 1894 dello zar Nicola II che riduceva la pena di molti esuli politici probabilmente a causa della sua fama di agitatore.

«Riprendere il mare aperto era per lui [Dinuzulu] – ma anche per Michel e Šternberg fu lo stesso – come accettare un fazzoletto intriso di cloroformio. Che cos’avrebbero trovato al risveglio? Nessuno di loro poteva saperlo».

Tutto era cambiato, o forse no. Al suo ritorno, Michel ricominciò a tenere conferenze in giro per l’Europa, a organizzare cortei e manifestazioni, a causa delle quali venne arrestata ancora, almeno altre due volte, venne anche aggredita con una pistola e per poco non venne assassinata (un proiettile le rimase conficcato dietro l’orecchio sinistro, ci convisse per tutto il resto della sua vita).

Dinuzulu era tornato in patria ma non da capo supremo, lo Zululand era stato smembrato e impoverito, i britannici speravano di renderlo una pedina al loro servizio. Gli zulu lo tradirono e lui finì a scontare un secondo esilio in una fattoria sempre più in disparte e malato.

Šternberg, che l’autore definisce «l’esule più nobilitato dalla sua esperienza» in quanto a Sachalin scoprì la sua vocazione, fece ritorno a Zytomyr, dove sarebbe stato tenuto sotto controllo: questi i termini dell’amnistia. Si innamorò di una brillante e timida direttrice ebrea di un collegio femminile e con lei si trasferì a San Pietroburgo; qui, nel 1908 fu nominato direttore del Museo ebraico. Nel 1910 partecipò a una spedizione, finanziata dall’Accademia delle Scienze, che fu per lui un vero e proprio trauma: dopo oltre dieci anni sarebbe tornato a Sachalin per condurre ulteriori indagini antropologiche. Tornò molto provato dall’isola, con attacchi d’ulcera sempre più gravi e frequenti.

 

Alla fine del XIX secolo l’abolizione delle colonie penali europee andò di pari passo con la decolonizzazione, in tutta Europa il concetto di “colonia penale straniera” risultava sempre più anacronistico. Dal 1897 in poi la Francia mandò tutti i suoi deportati in Guyana, per la vera e propria chiusura della colonia si dovette aspettare il 1942.

Nel 1893 Anton Čechov, dopo un soggiorno di qualche mese sull’isola, pubblicò L’Isola di Sachalin in cui trattava della brutalità, dello squallore, degli omicidi sommari e della schiavitù sessuale che ruotavano attorno al sistema dell’esilio in Siberia. La sua opera turbò molto l’opinione pubblica e fece rivalutare Sachalin come esercizio di colonialismo penale e scuola di riabilitazione. Il metodo, considerato retrogrado e inefficace, aveva fallito; nel 1906 venne chiusa ufficialmente la colonia penale. Di fatto, l’esilio è una pena che non esiste più (almeno nel mondo occidentale), non si viene più condannati al confino in termini legali. Si può però pensare all’esilio sotto nuove forme, forse esiste per coloro che a causa di guerre, di problemi economici, di bassa qualità della vita, sono portati a sradicarsi, ad allontanarsi da ciò che di più caro si ha, dalla propria casa, dalla propria terra. Potrebbero anch’essi soffrire della malattia di cui parlava Čechov: la “febris sachalinensis” – febbre di Sachalin – che colpiva soltanto chi vi era esiliato e che per i sintomi, “imbambolamento”, mal di testa e dolori reumatici, tanto assomigliava alla “nostalgie” dei comunardi in Nuova Caledonia.