Vedi quello che puoi fare, di Lorrie Moore

Moore_VediQuelloChePuoiFare.jpg



di Debora Lambruschini

 

Qualche mese fa il nome di Fran Lebowitz è diventato piuttosto popolare anche in Italia, dove per molto tempo non si era praticamente mai parlato di questa scrittrice newyorkese caustica e brillante. Complice la popolarità di una docu serie realizzata da Martin Scorsese, le stilettate di Lebowitz hanno suscitato l’interesse del pubblico italiano e presto è seguita la pubblicazione per Bompiani di una raccolta di saggi in cui ritrovare parte di quella voce, dall’emblematico titolo La vita è qualcosa da fare quando non si riesce a dormire. Eccentrica, divertente, brutale a tratti, Lebowitz ha incantato anche il pubblico nostrano nonostante le riflessioni contenute in questo volume siano apparse originariamente tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, ma riuscendo in parte a mantenere intatta la forza dell’ironia e anticipando perfino alcune tendenze e derive del mondo contemporaneo.
Parto dalla felice riscoperta di Fran Lebowitz perché anche i saggi raccolti in Vedi quello che puoi fare della scrittrice statunitense Lorrie Moore sono tradotti e pubblicati oggi in italiano ma a distanza, in alcuni casi, di trent’anni dalla prima uscita su rivista. E qui probabilmente finiscono le similitudini fra le due autrici, ad esclusione di un’ironia capace di spiazzare il lettore, lo sguardo attento sul mondo e soprattutto le persone mediante cui coglierne contraddizioni e debolezze. Sono due voci diverse ma ugualmente forti che non temono – e perché mai dovrebbero – di esprimere opinioni non automaticamente allineate con il pensiero comune e, nel caso di Moore, non hanno la minima esitazione nel vivisezionare l’opera di autori e protagonisti della scena culturale contemporanea sottolineando, laddove è il caso, mancanze e debolezze appunto. La voce e il personaggio di Moore sono probabilmente meno appariscenti e adatti a farne la protagonista di un esperimento come quello di Scorsese con Lebowitz, ma Lorrie Moore è una scrittrice, anzi, un’ottima scrittrice, e molti dei suoi romanzi e racconti – nella forma breve Moore rivela il proprio potenziale letterario – hanno trovato spazio nel panorama editoriale nostrano, a partire dalle prime pubblicazioni per Sperling e Bompiani fino alla recente traduzione di Chiara Spaziani e acquisizione dei diritti da parte de La Nave di Teseo, che si sta occupando di un attento lavoro di traduzione e riscoperta dell’autrice. Trentadue articoli, saggi e critiche che rappresentano anche un excursus sulla carriera critica di Moore in cui accanto agli approfondimenti letterari compaiono anche pezzi su serie tv, film, personaggi e momenti storici fondamentali di questi ultimi decenni. Un tassello interessante nella bibliografia dell’autrice che permette anche una lettura a ritroso di autori e libri di cui al momento della stesura era impossibile conoscerne gli sviluppi futuri e difficile immaginare come un tale titolo si sarebbe collocato nel quadro generale della produzione artistica di quel dato autore. Saggi che per loro natura risultano parziali e, in un certo senso, sconfitti dalla prova del tempo, ma che a mio parere proprio per questi tratti peculiari si fanno ancor più interessanti: attraverso le sue considerazioni su Roth, Atwood, Cheever, Ford e, ancora, Obama, l’11 settembre, Titanic e molto altro, Moore ci permette oggi di considerare quella pubblicazione o quel momento storico specifici con tutte le variabili date dalla contemporaneità, fra sguardo critico e aneddotica, attraverso la fallibilità intrinseca nel mestiere, la componente soggettiva, le molteplici influenze che entrano a far parte del discorso interpretativo.
I saggi letterari sono originariamente apparsi su riviste come New York Times, Guardian, Harper’s Magazine, New Yorker, e proprio il titolo richiama una frase che era solito rivolgerle Roger Silvers, editor di Moore alla New York Review of Books, nel proporle qualcosa da cui partire per scrivere un articolo: un nome, un libro, un evento, come una porta da aprire e sorprendersi per ciò che avrebbe potuto trovarvi una volta varcata. Testi che, sottolinea Moore, sono per loro natura «personali e soggettivi» e che hanno la funzione di «risposte culturali a risposte culturali». Recensioni o saggi critici, a seconda del caso, che rappresentano una possibile lettura di un certo libro o del percorso artistico di un autore e della loro parzialità e soggettivismo non fanno alcun mistero. Per cui, ne consegue, contengono opinioni che possono risultare fallibili, ma nelle quali Moore si guarda bene dall’esprimere giudizi categorici e assoluti. In questo senso possiamo leggere questi saggi anche come una piccola lezione di cura di cui il mestiere di critico letterario ha costantemente bisogno, nel ricordarci quanto un’opinione seppur consapevole resti pur sempre un’opinione e il giudizio su un’opera letteraria – ma direi artistica in genere – sia soggetta a influenze variabili, quanto un certo senso della misura possa aiutarci a evitare scivoloni.
Moore è ben conscia della duttilità della critica letteraria e nell’esprimere le proprie opinioni si tiene lontana da eccessive esaltazioni o nette stroncature, ma analizza con sguardo attento il materiale che ha di fronte, lo colloca nel contesto letterario e culturale di riferimento, rifiuta il «cannibalismo letterario» che spinge alla ricerca morbosa del dato biografico. È, come sottolinea lei stessa nell’introduzione, una scrittrice di narrativa che scrive recensioni, un’artista quindi che osserva il lavoro di un altro artista, condividendo con i lettori un discorso il più possibile chiaro, utile, puntuale.
Insomma, ci dà in un certo senso una breve lezione di critica letteraria e, cosa ancor più importante e utile a tutti, di lettura attenta e consapevole.
Inevitabile trovare in queste pagine anche interessanti riflessioni sul mestiere di scrivere stesso, un fil rouge che lega buona parte dei saggi presenti ma che ben si condensa in un articolo incentrato sulla scrittura:

 

Scrivere è un’escursione dentro e fuori la propria esistenza. Un antipatico paradosso della vita artistica. È ciò che, come l’amore, ci rimuove sia con dolore che con piacere dalla forma ordinaria del vivere.

(Sulla scrittura, p. 71)

 

La scrittura che in qualche modo salva dall’ordinario del vivere, ma che racchiude in sé sempre una componente di mistero:

 

Quello degli scrittori è un lavoro minuzioso, tenace, competente. Che sappiamo fare. Ma è anche misterioso. E il mistero incluso nell’atto di creare una storia è legato ai misteri della vita, e della creazione della vita: il fatto che esistiamo; che c’è qualcosa invece di niente.

(Sulla scrittura, p. 65)

 

Il discorso sulla scrittura, quindi, è osservato tanto all’esterno – i libri e gli autori protagonisti di questi saggi – quanto all’interno – il proprio ruolo di autrice – , si intreccia all’identità di lettore o, per essere più precisi, di lettrice attenta alle peculiarità e discriminazioni che hanno determinato un canone letterario fortemente maschile; e nelle scrittrici Moore rintraccia una caparbietà, una determinazione e un riconoscimento che non è tale negli scrittori, in quanto inseriti in una tradizione più «rigonfia», «chiassosa» in cui è difficile immaginare per un esordiente la possibilità di aggiungere qualcosa di nuovo, uno sguardo inedito, peculiare.
Rincorrendo le considerazioni sul mestiere di scrivere, Moore si sofferma in più occasioni sulla questione legata al dato biografico, la curiosità morbosa che spesso spinge lettori e critici – e ovviamente gli stessi biografi – nel vivisezionare l’opera alla ricerca di indizi o contaminazioni, l’universo privato che entra nella narrazione. Di queste considerazioni e spunti troviamo traccia nel modo con cui i saggi di Moore inquadrano l’autore al centro della riflessione specifica, ricaviamo qualche dato biografico funzionale alla narrazione, ma in generale dimostra coerenza nel rifiutare questo sterile gioco di intromissione che poco o nulla ha a che fare con la critica letteraria. In un’intervista pubblicata su The Paris Review, all’inevitabile domanda su quanto ci sia di lei stessa nei suoi personaggi, Moore risponde:

 

I’m never writing autobiography—I would be bored, the reader would be bored, the writing would be nowhere. One has to imagine, one has to create (exaggerate, lie, fabricate from whole cloth and patch together from remnants), or the thing will not come alive as art. Of course, what one is interested in writing about often comes from what one has remarked in one’s immediate world or what one has experienced oneself or perhaps what one’s friends have experienced. But one takes these observations, feelings, memories, anecdotes—whatever—and goes on an imaginative journey with them. What one hopes to do in that journey is to imagine deeply and well and thereby somehow both gather and mine the best stuff of the world. A story is a kind of biopsy of human life. A story is both local, specific, small, and deep, in a kind of penetrating, layered, and revealing way.

 

Ecco, ancora, un condensato di ciò che è mestiere. In questo caso, il mestiere di scrivere.

Lorrie-Moore-009.jpg