La psicologia archetipica nel bestiario wilcockiano

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Rodolfo e l’enciclopedia dell’invisibile
La psicologia archetipica nel bestiario wilcockiano

di Andrea Cafarella

«Nel suo sogno, che è il sogno di tutto quel che avviene, il ragionier Scabbia mescola gli infiniti eventi come in un gioco di specchi; tutti accadono a lui, la morte di un insetto, la corolla che si apre, la signora che versa la pasta nell’acqua bollente, il lampo e il tuono. Sulle acque originali, il suo sogno contiene tutti i tempi e tutte le cose che sono nel tempo.
Quando si srotolerà il serpente, il rag. Scabbia si sveglierà e tutto avrà fine».

 J. Rodolfo Wilcock, «Rag. Anchise Scabbia», Il libro dei mostri, Adelphi

Preambolo (del funambolo)

 

«Molti anni fa, quando abitavo a Girona ed ero povero, o almeno più povero di quanto non sia adesso, un amico mi prestò il libro La sinagoga degli iconoclasti di J. Rodolfo Wilcock, pubblicato da Anagrama; era il numero 7 della collana Panorama de Narrativas, che cominciava a uscire allora». (R. Bolaño, Tra parentesi, Adelphi) .
Inizia così uno dei testi più autentici e toccanti mai scritti su Juan Rodolfo Wilcock. Un testo molto breve e molto usato. Perché Bolaño fa tendenza, ormai, per fortuna. Questo è chiaro. Tuttavia, questo pezzo viene usato – più o meno consapevolmente – così spesso, per presentare le opere di Wilcock, anche perché c’è effettivamente un filo che lega questi due scrittori sudamericani. Si tratta di una lunga fune da equilibrista tenuta dalle mani magiche di scrittori come Borges, Schwob, Kafka e Cortàzar. E già solo questo dovrebbe far balzare dalla sedia tutti i bolañiani convinti e imporgli di correre a farsi carico di questa lettura essenziale. Compratelo, rubatelo, fatevelo prestare ma leggetelo, vi direbbe Roberto. Credete a lui se non volete credere a me.
Eppure, la mia storia non è molto diversa da quella di Bolaño. Nel mio caso me lo consigliò un collega, mentre stavo preparando delle letture di testi dei migliori scrittori di racconti in lingua italiana. Io conoscevo il suo nome, certo. Non lo avevo mai letto, però. Non mi ero fidato nemmeno di Roberto, che incosciente! Presi La sinagoga degli iconoclasti e lo lessi con voracità neonatale. E ne volevo ancora. Iniziai a cercare i suoi libri. Alcuni erano pressoché introvabili. Alcuni restano di difficile reperimento. E scrivo questo testo per festeggiare il ritorno nelle librerie italiane de Il libro dei mostri, sempre per Adelphi, l’editore storico di Wilcock. Dobbiamo la riedizione dei suoi libri (aspettando ancora quella di Parsifal. I racconti del «Caos», la sua prima raccolta di racconti, per esempio) agli illuminati studiosi che lo hanno scoperto e se ne sono innamorati selvaggiamente, facendo un grande lavoro di divulgazione della sua opera caleidoscopica e, ripeto, essenziale, vitale.
Uno di loro è Edoardo Camurri e utilizzerò le parole con cui descrive Wilcock nell’introduzione al suo Finnegans Wake (pubblicato encomiabilmente da Giometti & Antonello) per cercare di darvi un’idea su chi fosse questo personaggio misterioso: «Se lo studioso intende raggiungere Juan Rodolfo Wilcock per via enciclopedica, può fare prima una sosta alla voce precedente Wilcker Ulrich, papirologo della Pomerania (1862-1944), oppure accerchiarlo tramite la voce successiva, Wilczek Franz, Nobel statunitense per la Fisica, esperto in quanti. Questa semplice mossa definisce lo spirito di Juan Rodolfo Wilcock più di quanto si creda». Juan Rodolfo Wilcock era un argentino, trasferitosi in Italia, parlava perfettamente spagnolo, italiano, inglese e tedesco. Traduceva e scriveva e leggeva con sapienza. Ingegnere come Gadda. Nato dalla cerchia che ruotava attorno alla trinità argentina (Borges-Casares-Ocampo) scriveva poesie e libri di racconti. Scriveva nei giornali, di tutto e di nulla. Scriveva le sue cose, inventava. Non è possibile effettivamente descrivere esattamente tutte le incongruenti caratteristiche di Wilcock senza tralasciare dettagli importanti – o quantomeno abbastanza strani o divertenti. Juan Rodolfo era un personaggio che potremmo tranquillamente immaginare di trovare annoverato in uno dei suoi stessi libri.
Ho deciso quindi di dare qualche coordinata al lettore che voglia scoprire anche le infinite e sorprendenti sfaccettature di questo uomo sui generis.

-          Il sito web dedicato a Juan Rodolfo Wilcock

-          Una lunga intervista messa in onda su rai3 nel 1973

-          Un articolo (di Gabriele Gimmelli uscito su doppiozero il 13 dicembre 2017

-          (mi ripeto) L’introduzione di Edoardo Camurri all’edizione Giometti & Antonello del Finnegans Wake di J. Rodolfo Wilcock

Ci sarebbero sicuramente degli altri testi interessanti su di lui e si potrebbero cercare i suoi pezzi pubblicati su giornali e riviste (Si veda: Il reato di scrivere, Adelphi). Si potrebbe andare a sentire lo stesso Camurri o Elio Pecora o i tanti altri che si sono avvicinati a questo personaggetto unico, questo gigante dalla lingua di fuoco, meglio: dalle lingue di fuoco. Eppure, non servirebbe a molto, sarebbe comunque impossibile slegare tutti i suoi nodi biografici. Quello che posso dire con certezza è che la sua ironia ti resta addosso con una rara empatia benefica. La sua lingua ti rimane nelle orecchie come il mare nei gusci di paguro. E non voglio soffermarmi a parlare di lui perché voglio parlare solo della sua scrittura, giacché è uno dei rari casi, questo, in cui la scrittura è talmente compenetrata dell’anima dell’autore da diventarne l’emblema più vivido e chiaro, l’unica cosa che conti davvero.

 

La letteratura enciclopedista

La sinagoga degli iconoclasti e Lo stereoscopio dei solitari sono entrambi del 1972. Il libro dei mostri, l’ultimo di Wilcock, è del 1978. Sono tutti e tre libri enciclopedisti, potremmo dire. Elenchi di personaggi inventati (un modo davvero becero e sgarbato per definire i suoi libri, ma mi serve per poterci ragionare). Nel 1979 viene pubblicato Centuria di Giorgio Manganelli. Nel 1977 è la volta di Nuova enciclopedia di Alberto Savinio. Nel 1982 Kermesse di Leonardo Sciascia appare nella «Memoria» blu di Sellerio. Nello stesso anno il più famoso Museo d’ombre di Gesualdo Bufalino. I Sillabari di Goffredo Parise appaiono sul «Corriere della Sera» tra il 1972 e il 1980, e vengono raccolti in volume nel 1984.
Cosa hanno in comune tutti questi libri emblematici, oltre che la vicinanza anagrafica? Sono fatti di frammenti, di ripetizioni; apparentemente senza movimento, almeno narratologico. Sono enciclopedie di prosa, potremmo dire. E, nonostante ognuna abbia le sue diversità e un tema ben preciso (e parliamo di tema come se fosse un tema musicale, non si pensi a quello scolastico cui siamo abituati) è possibile comunque descriverle tutte allo stesso modo, evidenziando questa caratteristica predominante strutturale della forma. «Il presente volumetto racchiude in breve spazio una vasta ed amena biblioteca» ci dice Manganelli introducendoci il suo Centuria, all’interno del quale racchiude cento situazioni narrative diverse, descritte utilizzando più o meno lo stesso numero di parole, che stessero all’interno di una singola pagina. «Libriccino sterminato, insomma; a leggere il quale il lettore dovrà porre in opera le astuzie che già conosce, e forse altre apprenderne: giochi di luce che consentono di leggere tra le righe, sotto le righe, tra le due facce di un foglio, nei luoghi ove si appartano capitoli elegantemente scabrosi, pagine di nobile efferatezza e dignitoso esibizionismo, lì depositate per vereconda pietà di infanti e canuti. A ben vedere il buon lettore vi troverà tutto ciò che gli serve per una vita di letture rilegate». E non solo: nelle pagine di questi autori enciclopedisti è davvero possibile trovare una vita di infinite letture e combinazioni inaspettate e, leggendo con attenzione, vi si può trovare molto di più. Poiché le penne indomite di questi strani scrittori sanno scavare nell’ignoto dell’animo umano grazie alla loro potenza vocale inarrestabile, come le pale dei becchini, oltre la morte e il tempo. Così, le lunghe liste di tipicità siciliane, nel caso di Bufalino e Sciascia, rispolverano il grande libro della memoria collettiva per farci toccare con mano a scoccia da lùmia, la scorza di un limone colta dalle mani rugose di un contadino di quei tempi, ci permette di essere, di nuovo e per sempre, lì in quel momento esatto. E chiunque abbia letto i Sillabari può confermare che la meravigliosa galleria poetica di cui sono composti nasconde negli anfratti bui le sue gioie più preziose.
Savinio c’introduce alla sua enciclopedia scrivendo una breve nota: «Sono così scontento delle enciclopedie, che mi sono fatto questa enciclopedia mia propria e per mio uso personale. Arturo Schopenhauer era così scontento delle storie della filosofia, che si fece una storia della filosofia sua propria e per uso personale». E in un certo qual senso questi sono gli autori italiani che discendono dalla lezione del Tractatus e dei Minima Moralia. Ma basterebbe leggere Strada a senso unico per farsi un’idea di quanto le due cose siano collegate: la grande stagione filosofica mitteleuropea e quella degli immensi prosatori e poeti italiani degli anni ’70 e ‘80. La tradizione della letteratura enciclopedista, del frammento, è assurda e variegata e percorre tutte le arti e i movimenti. Si potrebbe andare perfino a ritroso fino a Le metamorfosi di Ovidio, ma non vogliamo qui dare una lectio sulla storia di questa forma espressiva, dal momento che stiamo parlando di Wilcock. Potremmo dire che Wilcock reinterpreta il genere? Probabilmente sì, eppure tale definizione continuerebbe a ridurre la complessità della sua opera. Nonostante ciò, ci aiuta a capire. I libri di J. Rodolfo Wilcock sono tutti fatti di frammenti, elenchi, voci di un unico testo. La sinagoga è un elenco di scienziati assurdi e iconoclasti folli, Lo stereoscopio una carrellata di personaggi la cui solitudine domina la stranezza, I due allegri indiani una finta rivista redatta da tredici autori fittizi inventati dall’autore fittizio inventato da Wilcock, Il libro dei mostri è un bestiario di personaggi deformi. Di creature simboliche ma vere, reali nella misura in cui è reale un drago. E questo lo spiega meglio di chiunque un altro grande autore, uno dei padri della genia cui Wilcock appartiene, uno che ha fatto del frammento e della poesia la sua raison d'être: Jorge Luis Borges.
Riporto qui, per iniziare a capire ciò di cui stiamo parlando, il consiglio al lettore che Borges ci da nel prologo a Il libro degli esseri immaginari. Scritto con la collaborazione di Margarita Guerrero, pubblicato prima nel 1957 come «Manual de zoologìa fantastica» e ripreso dieci anni più tardi, questo libro raccoglie alcune delle creature immaginarie più importanti della storia dell’uomo. Lo fa con un’intelligenza che potremmo definire soltanto borgesiana. Vale a dire che il libro ha una costruzione in cui i significati si legano e comunicano tra loro, arricchendosi e contaminandosi l’un l’altro, grazie alla quale riesce ad alimentare le idee e persino i sogni e le idee più inverosimili.
È così che Borges consiglia la lettura di questo suo libro (nel modo in cui, a mio parere, andrebbe consigliata la lettura anche di tutti i libri di Wilcock): «Come tutte le miscellanee, come gli inesauribili volumi di Robert Burton, di Frazer o di Plinio, Il libro degli esseri immaginari non è stato scritto per una lettura consecutiva. Vorremmo che i curiosi lo frequentassero come chi gioca con le forme mutevoli svelate da un caleidoscopio».
I libri di Wilcock sono libri da consultare come un libro oracolare: l’I-Ching o i Quaderni di Cioran; sono combinazioni magiche, evocano creature discendenti dai teriantropi trovati dipinti nelle grotte, dall’uomo, agli albori dell’autocoscienza. Sono enciclopedie dell’inconscio, dell’invisibile. Hanno la potenza della filosofia tedesca del secondo dopoguerra e l’intelligenza folle di certa poesia sudamericana. Riscrivono il mito, come Kafka. Per questo sembrerebbe possibile intuire il senso ultimo di tutto solo leggendone un singolo frammento e si potrebbe comunque continuare ad aeternum, trovando sempre un significato nuovo, un simbolo in grado di verificare se stesso e allo stesso tempo verificare, ogni cosa.

 

I nomi

 

«Non esiste nulla di più misterioso dello splendore dei nomi e del nostro attaccamento a tali nomi e nemmeno la non conoscenza delle opere che li illustrano impedisce a Lulu e a Ondina, a Emma Bovary e Anna Karenina, a Don Chisciotte, a Rastignac, a Enrico il Verde e a Hans Castorp di condurre una esistenza trionfale».
Ingeborg Bachmann, Letteratura come utopia, Adelphi

«E Dio disse», due punti.

Siamo nell’ambito del mito dei miti. Del mito primigenio secondo il quale è il linguaggio, il dire, a «creare le cose», nominandole. Una rosa, è una rosa è una rosa. Il linguaggio crea ogni cosa, nominandola. Di questo insegnamento Wilcock ne ha fatto arte sopraffina ed elevatissima. Vi basterà perdervi negli indici di alcuni dei suoi libri per assaggiare la sua poesia, ingenita, già nell’atto – linguistico-mitico – di annoverare i suoi personaggi. Così originale e vario, così misteriosamente splendido. Bisognerebbe leggere gl’indici dei suoi libri ad alta voce, così per ridere, per stare meglio, la mattina dopo il caffè.

Addentrandosi, poi, nei testi che compongono l’opera di Wilcock, si scopre la complessità e l’acutezza che risiede nel significato di questi nomi e nomignoli. Il nome – il titolo, potremmo dire – è già esso stesso una creazione (nel senso di creazione primigenia, divina). In ognuno dei nomi che Wilcock ha usato, ha scelto, germoglia nascosto il suo significato profondo. Sia pure in una sfumatura del suono, che ricorda l’allegria, il mare, l’astuzia.

C’è un pezzo di Alfredo Zucchi, pubblicato anni fa su Cattedrale, dove ripercorre l’uso del frammento e dei frammenti (e quindi la composizione e ricomposizione e il gioco di specchi che ci si può creare, giocandoci), in una sorta di catena evolutiva che va da Borges a Bolaño, passando per Cortázar. Mi colpiva che il discorso di Zucchi si fondasse prevalentemente sull’uso che i tre autori fanno di determinati personaggi, di determinati nomi. Effettivamente capisco per quale motivo escludere Wilcock da questa catena – nel ragionamento di Zucchi. Il modo che Wilcock ha di comporre i suoi libri non punta verso nessuna evoluzione formale, è antico. Quel modo di accostare le storie che possiamo ritrovare nei poemi classici greci o nei libri di favole. Forse non ha apportato nessuna evoluzione al romanzo contemporaneo (si voglia credere che i lunghi elenchi dei Detective selvaggi o di 2666 o de La letteratura nazista in America non abbiano alcuna radice nei libri di Wilcock) e non aspira a cambiare i romanzo contemporaneo dacché sta di lato, distante dalla tradizione romanzesca. Sta di lato e lontano dal mondo. È la letteratura dell’outsider: la letteratura dei Nomi. La letteratura archetipica. Poiché essa crea, nominando.

La psicologia archetipica nel bestiario wilcockiano

«Per studiare l’anima dobbiamo scendere in profondità, e ogni volta che scendiamo in profondità, viene coinvolta l’anima. […] Vediamo qui come le metafore, che crediamo di essere noi a scegliere per descrivere idee e processi archetipici, come «l’inconscio» di Freud e la «psicologia del profondo» di Bleuler, siano in realtà parte costitutiva di quei processi e di quelle idee. È come se il materiale archetipico si scegliesse da sé i termini atti a descriverlo e questo facesse parte del suo modo di esprimere sé stesso. Ne consegue che «l’attribuzione di nomi» non è affatto un’attività nominalistica, bensì molto realistica, in quanto il nome ci conduce dentro la propria realtà».
James Hillman, Il sogno e il mondo infero, Adelphi

 Mi rendo conto che usando le parole di Hillman scendiamo a un livello più profondo, sottile e filosofico di analisi dell’opera di Wilcock. Mi preme quindi precisare quanto io credi fermamente che il valore rivelatorio dei testi wilcockiani abbia sede esclusivamente nella forza espressiva della sua scrittura, della sua voce, in prosa come in poesia. Detto ciò, penso anche che un’immaginazione così fervida e intelligente e ricca possa provenire solo dalla facilità dell’autore di accedere al proprio inconscio gorgogliante di immagini e simboli nuovi: archetipi sempre neonati. Essi si rivelano nell’essere nominati e rievocano qualcosa di profondamente nostro, di estremamente oscuro e per questo reale, al massimo livello possibile di realtà catartica. Attraverso le metafore generate dai suoi personaggi – creature paradossali e assurde – Wilcock svela le metamorfiche sfaccettature dell’animo umano, dell’inconscio, dell’estraneo.
Misteriosamente, come «il nome ci conduce dentro la propria realtà» ognuno dei personaggi wilcockiani ci trascina in un’altra dimensione, la sua, e ci fa da specchio. Ritrovandoci nudi davanti a noi stessi – trasfigurati in bestie mostruose – possiamo capire qualcosa in più di noi stessi. «Ignoriamo il senso del drago, come ignoriamo il senso dell’universo, ma c’è qualcosa nella sua immagine che si accorda con l’immaginazione degli uomini» scrive Borges nel prologo al «Manuale di zoologia fantastica».
Nello stesso prologo Borges ci spiega cosa è un mostro. Invito il caro lettore a leggere il Libro dei mostri di Wilcock (come anche tutti gli altri suoi libri) illuminando le pagine di questa luce borgesiana, dove ogni testo collabora a una visione universale e caotica in cui si mischiano infinite variabili che s’influenzano l’un l’altra continuamente, e che sono al medesimo tempo la stessa cosa: un insieme unico, anima mundi. Così madama Letteratura avrà la testa di Borges, un braccio di Bolaño e uno di Cortázar e le dita saranno quelle di Wilcock, per indicare e nominare ogni cosa, ogni mostro, «giacché un mostro non è altro che una combinazione di elementi di esseri reali e le possibilità dell’arte combinatoria restano l’infinito. Nel centauro si coniugano il cavallo e l’uomo, nel minotauro il toro e l’uomo (Dante lo immaginò con volto umano e corpo di toro) e così potremmo produrre, si direbbe, un numero indefinito di mostri, combinazioni di pesce, uccello e rettile, senza altri limiti che il tedio o il disgusto. Ma questo non accade […] Ignoriamo il senso del drago, come ignoriamo il senso dell’universo, ma c’è qualcosa nella sua immagine che si accorda con l’immaginazione degli uomini». (dal Prologo al «Manuale di zoologia fantastica»).

 Mi sembra doveroso, a questo punto, terminare questo scritto scusandomi e facendomi perdonare. Scusandomi per non aver inserito nel pezzo alcun frammento dello stesso Wilcock (nonostante abbia più volte sottolineato quanto, a mio parere, la sua forza espressiva si concentri prevalentemente nella sua voce, nel suo fraseggiare magistrale). Quindi cercherò di farmi perdonare, riportando una delle sue memorabili chiuse, particolarmente esemplificativa del suo stile. Si tratta di un «elenco di ipotesi varie» su cosa contengano le uova che fa Primio Doppo (uno dei personaggi raccolti ne Il Libro dei mostri). L’attento lettore noterà la poesia di questo elenco. Quella che Rodolfo sapeva intraducibile. Lui che aveva affrontato il Finnegans Wake senza impazzire. L’accorto lettore sentirà il suono di questo elenco. Il movimento musicale e la fantasia e l’umorismo schietto di questa serie di «nomi» seguiti da due punti e un’«ipotesi». E si ricorderà di tutto il discorso fatto sui nomi. E si ricorderà della lettura caleidoscopica proposta da Borges, e si ricorderà forse delle invenzioni lessicali cortazariane e manganelliane. E si rivedrà nel verso: «Morotti Andrea: sassi» sentendone l’inquietante solitudine. Si ricorderà qualcosa di molto personale, forse, leggendo la violenza solitaria nascosta nel rigo «Il postino: bombe» o nel versetto «La guardia comunale: estratto di fegato». Dovrà lasciar perdere il divertimento provocato dallo humour senza senso di questa lista; arrivato all’ultimo gradino – all’ultimo piolo della scala: lasciare andare la scala; è quello che succede al lettore sensibile leggendo l’ultima voce «Morotti Quintino: stracci». La magia di Wilcock sta nel fare diventare quegli stracci reali, nel farci percepire la tristezza di Quintino che guarda quelle stoffe sporche buttate in un angolo come i ricordi della sua vita. E la maestria funambolesca di Wilcock si sprigiona in tutta la sua necessaria empatia, in un’esplosione di senso, quando ti ci rivedi, in Quintino, seduto sul bordo del letto a guardare i panni sporchi e pensare a cosa possa venir fuori dalle uova del falegname Primio Doppo, o sarebbe meglio dire solo Rodolfo?

 «Riguardo al problema centrale, e cioè che cosa venga fuori dalle uova del falegname, quando si schiudono, accludiamo un primo elenco di ipotesi varie, avanzate dai cittadini più in vista di Vetriolo:

Don Olimpo: angeli.

Il sindaco: caffè istantaneo.

Ing. Bellapadrona: galline.

Il macellaio: sorprese svariate.

Catteruccia Daddo: omettini.

Gioacchini Teresa: niente.

Il fornaio: serpi.

Calabrese Giuseppina: frutta.

Vedova Pizzo: mobilini giocattolo.

Rossi Osvaldo: merda.

Polimati Lino: accendisigari.

Fraticelli Sergio: spiritelli.

Scorsini Giovanni: oro.

Brillanti Caterina: olio d’oliva.

Tirinnanzi Vicenza: organi usati del sig. Coppo.

Polimati Maria: ortaggi.

Il maestro: dinosauri preistorici.

Menichetti Annunziato: premi in contanti.

Morotti Andrea: sassi.

Romanelli Gina: bambole.

Febbraro Vittoria: pasta all’uovo.

Pizzo Armando: pulcini di tacchino.

Montagna Betty: miele.

L’ufficiale postale: qualche porcheria.

Il postino: bombe.

Chiavoni Ofelia: formaggio.

La guardia comunale: estratto di fegato.

Barziacchi Letizia: saponette.

Muller Elfriede: cagnolini.

Aramini Alberto: diamanti, rubini e smeraldi sfusi.

Montagna Gabriella: uova di cioccolata.

Pesci Luigi: semenze varie.

Centoscudi Mario: purea di patate.

Proietti Francesco: petrolio.

Rossi Pierina: calzini, mutande, eccetera.

Tirinnanzi Icilio: latte in polvere.

Moncelsi Vincenzo: accessori per automobili.

Morotti Quintino: stracci».

(da «Primio Doppo» nel libro dei mostri)